Novelline – IL Gobbo da Peretola

Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da : Novella tratta a :RIVISTA DELLE TRADIZIONI ITALIANE DIRETTA ANGELO DE GUBERNATIS Anno I. FORNI EDITORE – BOLOGNA 1893

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RID RIVISTARIVISTA DELLE TRADIZIONI POPOLARI ITALIANE
NOVELLINE – IL GOBBO DA PERETOLA.

All’amico Angelo De Gubernatis.

« Un gobbo da Peretola, avendo veduto che un altro gobbo suo vicino, dopo un certo suo viaggio, era tornato al paese bello e diritto, essendogli gentilmente stata segata la gobba, lo interrogò chi fosse stato il medico, ed in qual paese fosse aperto lo spedale dove si facevano cosi belle cure. Il buon gobbo, che non era più gobbo, gliela confessò giusta giusta, e gli disse che, essendo in viaggio, smarrì una notte la strada, e, dopo lunghi aggiramenti, si trovò per fortuna al noce di Benevento, intorno al quale stavano allegramente ballonzolando moltissime streghe con una infinità di stregoni e di diavoli ; e che fermatosi di soppiatto a mirar il tafferuglio di quella tresca, fu scoperto, non so come, da una strega, la quale lo invitò al ballo, in cui egli si portò con tanta grazia e maestria, che tutti quanti si meravigliarono, e gli posero perciò cosi grande amore che, messoselo baldanzosamente in mezzo e fatta portare una certa sega di butirro, gli segarono con essa senza verun suo dolore la gobba, e con un certo empiastro di marzapane gli sanarono subito subito la cicatrice, e lo rimandarono a casa bello e guarito. Il buon gobbo da Peretola, inteso questo e facendo lo gnorri, se ne stette zitto zitto; ma il giorno seguente si mise in viaggio, e tanto ricercò e tanto rifrustò, che potette capitar una notte al luogo del desiderato noce, dove con diversità di pazzi strumenti quella ribaldaglia delle streghe e degli stregoni trescava al solito in compagnia de’ diavoli, delle diavolesse e delle versiere. Una versiera, o diavolessa che si fosse, facendogli un grazioso inchino, lo invitò alla danza ; ma egli vi si portò con tanto mal garbo, e con tanta svenevolezza, che stomacò tutto quanto quel notturno conciliabolo, il quale poi mettendosegli attorno e facendo venire in un bacile quella gobba, con certa tenacissima pegola d’inferno l’appiccò nel
petto di questo secondo gobbo; e cosi questi che era venuto qui per guarire della gobba di dietro, se ne tornò vergognosamente al paese col gobbo di dietro e dinanzi».

Il segaligno e freddoloso Redi su questa graziosa leggenda ricama una morale sugli ipocondriaci che ingollano certi strani beveroni che, facendo crescere il male, li mandano a babboriveggola.
Ma credi tu, caro e vecchio amico, che la tradizione toscana sia la buona? Pare a te che le streghe di Benevento abbiano avuto un gran buon gusto a far ballare un gobbo ?
E ben vero che le streghe sono maligne, e che c’è del comico in quel ballo; ed è vero che un proverbio popolare dice: « gli orbi per cantare, i gobbi per ballare »; ma una leggenda ligure c’insegna che non dev’essere stata una questione di ballo, di canto bensì questa volta. Perchè, se, nelle tradizioni popolari, noi andiamo cercando un significato, e se le favole adombrano cose e fatti che la austerità degli scrittori non ha voluto o non ha saputo interpretare, nella tradizione ligure abbiamo il bandolo di un fenomeno assai curioso ed umano.

 

Devi adunque sapere, che anzi lo sai, ma a me conviene di credere che tu lo ignori, per discorrerne con te e con altri, che la differenza che passa tra la musica antica, la medioevale e la moderna è questa, che gli antichi non erano sempre sicuri del ritmo, e non lo erano punto del tono. E cioè a dire: quando gli antichi incominciavano, eglino non sapevano ancora dove volessero finire, e non sempre riusciva loro di conchiudere come avevano cominciato, nel che consiste tutta l’arte nostra; mantenere il tempo ed il tono. L’arte musicale, checché ne dicano i dotti e gli ignoranti, come già la pittura, non era arrivata ancora a quella perfezione a cui siamo arrivati noi moderni, sebbene non si possa negare che canti bellissimi non abbiano intonato, a loro modo, gli antichi.
Noi, insomma, cantiamo e suoniamo con ritorni di tono tanto fissi e sicuri, che, uscendo dalla legge che abbiamo trovata, o che ci siamo prefissa, sentiamo inagrirci i denti e commuoverci dentro le viscere. Chi ha principiato a cantare in tono di do, non può finire in tono di re; e chi lo fa, lo fa per errore, e si espone a sentirsi dire che stona. Le stonature accidentali qualche volta ci esilarano; ma la persistenza di note fuori dei gangheri suscita in noi un senso di dispetto, d’ indignazione e di rabbia.
Le streghe attorno al noce’ di Benevento, secondo la tradizione ligure, ballavano, ma ballavano cantando monotonamente (ti potrei scrivere il canto) cosi:

Sàbbo e doménegra, sàbbo e doménega: cioè sabato e domenica, allorquando il primo gobbo terminò umoristicamente la frase musicale, aggiungendovi il venerdì.
Sabbo e doménega e venerdì, sàbbo e doménejra e venerdì:
e tanto piacque la nuova e moderna cadenza, che con la sega di burro gli segarono la gobba e lo mandarono libero.(Tra le novelline di Calcinaia nelle Tradizoni popolari raccolte da Alessandro De Gubernatis le streghe di Bruccianese si rallegrano per l’aggiunta del lunedi, fatta, nel canto, dal gobbo. (A. D. G.)

Tutt’ altro occorse per l’altro disgraziato gobbo, il quale, cattivo musicista, pensando che bastasse un’ altra aggiunzione per farsi merito, v’aggiunse il lunedi, creando noie stonate da fare raccapriccio:
Sàbbo e doménega e venerdì, e lunedi asci:
cioè, e anche lunedì. Apriti o cielo! non solo la stonatura era fatta, ma, e questo fu il peggio, le streghe non raccapezzarono nemmeno più la vecchia canzone, e si sfogarono contro il mal capitato con l’appiccicargli anche l’altra gobba e mandarlo alla malora. Perchè l’uscire da un tono produce appunto questo effetto, di non ritrovare più, o di trovare a malo stento, quello che si è una volta perduto.
Vedi; chi ha cantato una strofa in un tono ed ha finito in un tono superiore prova, qualche volta, l’effetto che, dovendola ricantare, tutto il canto s’innalza. Alla terza e alla quarta ripresa, la gola si restringe e minaccia di essere strozzata. Su questo fenomeno i giovinetti lucchesi fanno una specie di gara nel canto, con queste parole:

E Mièle aveva un gallo
Che p’addomestiallo
Gli dava latte e miele.

Cioè, Michele aveva un gallo, ecc. Ora, siccome il canto finisce coli’ invito ad una quinta superiore del tono, colui che al suo turno, ripetendo sempre più in su, non può più proseguire, quegli ha perduto.
Per ciò si ride; ma dove non si ride, e ci s’inquieta assai è in chiesa, prima della benedizione, quando si canta il Tantum ergo. Questo canto medioevale, sulla fine, esce di tono: se, alla ripresa Genitori genitoque, v’è un organo che li metta in carreggiata il coro dei fedeli, la cosa passa liscia; se no. quel povero geniloque vi rifa le spese, e, prima che il popolo si rimetta in via, dei tentativi ne seguono parecchi, compromessa seriamente la solennità del momento. E fortuna che le strofe sono due sole, e che si canta in chiesa: se ciò accadesse sotto il noce di Benevento, quanti arcipreti se ne tornerebbero a casa diritti come prima?
Addio, credimi il tuo affezionatissimo amico

B. Fontana.

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