Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da: “Roma contemporanea” di Edmond About-Milano 1861
da pag. 211 a 240
XV
PASSEGGIATA NEL MEZZODÌ.
Mi ero ben promesso di non abbandonare gli Stati del papa seoz’aver fatta un’escursione a Sonnino, città di cui tanto mi era stato parlato, il cui nome tante volte si trova nella storia del brigandaggio. I pittori hanno sì spesse volte raffigurato i costumi e le imprese de’suoi abitanti, ch’io voleva co’miei ocohi vedere il paese e gli uomini, e rintracciare se rimanesse su quel suolo, o nell’indole degli abitanti, qualche vestigio del passato. L’assunto era scabroso, no solamente perchè Sonnino è a tre giornate dal Vaticano, e fuor di mano delle strade frequentate, ma in modo speciale perchè io era straniero; ed uno straniero in viaggio non conversa se non cogli albergatori.
Un egregio ed onorevole amico che io aveva in Roma si offerse pronto a liberarmi dall’impiccio. Mi promise di condurmi a Sonnino nella sua carrozza, di procurarmi alloggio presso persone di sua conoscenza, d’introdurmi nella vita intima de’suoi abitanti. Egli stesso aveva visitato quel paese, verso l’anno 1830, ed era certo di trovarvi una vecchia, vedova d’uno o due briganti, da esso altre volte impiegata siccome modello, e che soccorreva onde avesse mezzo di vivere, passandole una tenue pensione. Accettai pieno dì riconoscenza un invito si grazioso, e ci ponemmo in viaggio il lO giugno 1858.
Albano, l’Ariccia, Genzano e quasi tutti i villaggi di que’d’intorni si presentano con aspetto grandioso, essendovi sparsi qua e colà i palazzi ed i conventi. Le case de’mercanti di campagna, senza aspirare al grandioso, sono larghe ed elevate, e recano cert’impronta di borghesia rustica, senza l’apparenza del ricco avventuriero.
Nelle terre prossime alla capitale,le professioni di macellajo, di fornajo, di droghiere, ecc., vengono esercitate in virtù d’un privilegio, siccome pubblici impieghi; onde si ricorre per una patente di droghiere, siccome per tener bottega da lotto, o vendita di sale e tabacco.
Il privilegio s’insinua dapertutto negli Stati pontificj. Compagnia d’assicurazioni, di vetrame, di raffineria, fabbrica di stearina, ogni industria infine un po’ interessante è fondata sopra un privilegio. Gli stessi cesti dove si vendono i frutti, sulla piazza Navona, sono affittati ai mercanti da un impresario privilegiato. Da Albano a Velletri attraversiamo un certo numero di ponti costrutti dai papi, siccome rilevasi da varie iscrizioni. Non conosco paese dove il lusso epigrafico sia spinto più in là. Non si getta un ponte sopra un ruscello, non si fabbrica la minima caserma per gendarmi, senza scolpire sopra lastra di marmo il nome del pontefice che si è illustrato con quel beneficio.
Evvi presso la città eterna una fontana d’acqua minerale, dove i nipoti di Romolo vanno a bagnarsi per divertimento. Iscrizioni sopra iscrizioni ! Un pontefice è lodato per aver condotto l’acqua, un altro per aver riparato i condotti o per averli rinnovati.
Questa prodigalità di parole pompose parrà, a primo colpo d’occhio, un po’meschina e ridicola; ma è un uso romano!
Due parole che spiegano e scusano in pari tempo. È vero però che, se gli antichi fossero stati più sobrj d’iscrizioni, noi ignoreremmo molte cose, che ci vengono ricordate dai marmi. L’epigrafe è una delle sorgenti più limpide, a cui lo storico abbia potuto attingere.
Talora però mentisce, e n’è prova quella inscrizione che attribuisce a Pio VII gli ammirabili lavori, di cui l’amministrazione francese ha abbellito il Pincio. I papi cancellarono dovunque le orme del nostro passaggio, non conservando che i nostri beneficj. I consiglieri dì Pio VII, dopo la ristaurazione, avrebbero voluto sopprimere tutto ciò che ricordava la Francia: fino al segno che trattavano di togliere i riverberi, che il generale Miollis ed il signor Tournon avevano introdotto in Roma.
Non ho trovato che un solo monumento che serbasse il nome di quell’illustre e coraggioso Miollis.E’ una piccola lastra di marmo nascosta nelle grotte di Tivoli.
Durante la rivoluzione del 1849, quando Mazzini regnava in Roma ed il santo padre a Portici, il bel viadotto che unisce Albano ali’Ariccia rimase forzatamente interrotto. Un semplice fittajuolo delle vicinanze aprì la sua cassa e continuò i lavori a proprio rischio e pericolo. Nessuna iscrizione ricorda questo bel tratto.
Velletri è un villaggio di 16.000 anime ed è capitale d’una provincia: ha vescovo e prefetto, come Versailles. Vi si trovano pure de’briganti, poichè Velletri è tra le montagne, circondata da selve e boscaglie, ed all’ingresso di quel celebre Campo Morto, che appartiene al capitolo di s.Pietro. Ho già detto perchè la pianura morta, o Campo Morto, era un luogo mal frequentato. Il diritto d’asilo raccoglie una moltitudine di ladri e d’assassini su quel territorio insalubre. Il vicinato procura a Velletri una specie d’insalubrità morale, che si è manifestata non ha guari col delitto di Vendetta.
Ecco il fatto siccome circola di bocca in bocca nella città e nelle terre vicine.
Ai piedi di Velletri, verso la porta che conduce a Napoli, si trova un convento di Gesuiti, i quali tengono scuola. Sentii un bisbiglio di voci infantili e lessi sopra una porta: Classis elementaris. La loro cappella è una chiesa piuttosto antica, dove ho ammirato una bella porta del Rinascimento, una soffitta ricchissima, benchè di gusto incerto, ed un bell’affresco della scuola del Perugino. Ma il più prezioso de’loro tesori è una Madonna miracolosa dipinta da s. Luca.
La storia non dice che l’evangelista s.Luca sia stato nè pittore nè scultore, auzi è noto ch’egli fu convertito da s. Paolo dopo la morte di Gesù. Eppure l’ingenuità pubblica si compiace nell’attribuire al suo nome tutte le antichissime imagini che rappresentano la Vergine ed il Bambino, sia in pittura sia in scoltura. In pari modo nelle tradizioni dell’antica Grecia tutti i colpi di clava di certa importanza venivano attribuiti ad Ercole.
Checché ne sia, l’imagine miracolosa di Velletri è religiosamente conservata in una nicchia chiusa da imposte, in fondo ad una cappella difesa da una griglia. Gli abitanti de’vicini villaggi professano un culto superstizioso per questa pittura, e tutti gli anni le portano preziose offerte.
Un oste del Campo Morto soprannominato Vendetta concepì il disegno d’una speculazione ardita. Già da lungo tempo ei taglieggiava gli abitanti di Velletri e delle vicinanze, a chi chiedeva due scudi ed a chi dieci o dodici. Chiunque avesse una vendemmia pronta, degli alberi carichi di frutti, un fratello in viaggio, pagava senza mercanteggiare quella strana imposta. Eppure Vendetta da ultimo si annojò di quel mestiere si lucroso, lusingandosi di poter ritornare alla vita normale, con un reddito modesto ed un onesto impiego. Per venire a capo di siffatto scopo, ei non seppe trovar nulla di più ingegnoso che di rubare la Madonna di Velletri e deporla in sito sicuro.
Si avvicinava una festa solenne, in cui la Madonna doveva comparire agli occhi del popolo con tutti i suoi diamanti, allorchè il sacristano , aperta la nicchia, s’accorse, prorompendo in grida di dolore, che l’imagine non v’era più. Si cerca d’ogni parte, ma non si trova nulla.
Intanto il popolo si ammutina, e si propaga un’effervescenza fino nei prossimi villaggi. Il clero del paese accusa i Gesuiti d’essersi derubati da sè medesimi; i Gesuiti recriminano contro i preti di Velletri; ed il convento viene invaso, ogni parte perquisito, frugato e messo a soqquadro da una moltitudine idolatra. Finalmente, la domenica, alla messa solenne, Vendetta, armato d’un pugnale, sale sul pulpito e si denuncia da sè medesimo. Prega il popolo di accogliere le sue scuse, e promette di restituire la Madonna, appena che abbia regolato i suoi conti coll’autorità. Questa tratta con lui da potenza a potenza; ed egli chiede la propria grazia e quella di suo fratello, una rendita di certo numero di scudi ed un impiego del governo. Si promette ogni cosa, ma Roma rinnega i proprj agenti e non vuol sancire nulla. Intanto la popolazion delle montagne si mette in cammino, ed una moltitudine di contadini minaccia d’inondare Velletri. Il brigante cede al numero, rivela il nascondiglio dove ha celato la Madonna, e si arrende a discrezione. Sarà decapitato, e nessuno ne dubita in Velletri.
La Madonna viene reintegrata. Una grande affluenza di voti mi permise di ravvisare la cappella dov’essa fece tanti miracoli; ma una tendina azzurra, ricamata col nome di Maria, non mi lasciò vedere il capolavoro di s.Luca.
Vendetta è un brigante della decadenza, che ebbe il suo momento di audacia, e quel sermone pronunciato in piena chiesa non è un’azione volgare. Ma quanto siamo lontani dal Passatore! Ecco un vero grand’uomo fra gli aggressori di strada!
Il Passatore prese una città di 5000 anime, Forlimpopoli. Tutti gli ottimati erano raccolti in teatro, quando, al levarsi del sipario, si vede un coro d’uomini armati, che appuntano i fucili contro gli spettatori. Arriva il tenore, voglio dire il Passatore, con un foglio in mano.
“Signori, grida egli, tutte le uscite del teatro sono custodite, la città è in nostro potere, ma noi non abuseremo. Abbiamo imposto a Forlimpopoli una contribuzione di tanti scudi, ripartiti come segue. Ciascuno di voi escirà, all’appello del suo nome, ed andrà, sotto buona scorta, procacciarsi la somma che ci deve.”
Cominciò il novero, e finì senza confusione, facendosi pagare in tanti bei contanti la somma pretesa, poi ritirandosi pacificamente con un ricavo maggiore di quanti mai il teatro avesse prodotto.
Cotesto Passatore, oltre l’audacia e la grandezza, aveva delle doti speciali, mentre facevasi scrupolo di spogliare un infelice, e più d’una volta vuotava la propria borsa per empirne una trovata vuota.
Un giorno egli venne ferito gravemente, onde vide necessaria l’assistenza d’un uomo dell’arte. Ma come supporre che un medico avesse a venire senz’esservi forzato , a riporsi nella gola del lupo?
Fece quindi rapire il più celebre medico di tutti i paesi circostanti, e lo tenne custodito finchè ebbe bisogno della sua cura. Quando si sentì veramente bene, ordinò al proprio tesoriere di rimandare quel valent’uomo dopo averlo pagato: ciò che venne eseguito.
“Quanto gli fu dato? chiese il Passatore.
-Dieci scudi.
-Come? dieci scudi a chi ha salvato la vita all’illustre Passatore! Sei pazzo? Corri a raggiungerlo, consegnagli cento scudi e non dimenticarti di dirgli, che non è ancora ben pagato!.”
Imaginatevi lo spavento del medico quando si vide raggiunto sulla strada da un uomo a cavallo che galoppava!
Sei mesi più tardi ei traversava la montagna a passo di mula, allorché per caso si trovò faccia a faccia col suo antico ammalato. Il povero dottore questa volta si pentì d’averlo guarito. Ma il Passatore gli fece un mondo di cortesie, e conchiuse di mandandogli in quale ora egli si sarebbe trovato in città. Essendosi accorto che un orologio d’argento stava nel taschino del suo liberatore, esclamò: ” È egli possibile? Il medico del Passatore non ha che un orologio d’argento! Dammi il tuo orologio! , Lo gettò contro una rupe, onde andò,in frantumi siccome un uovo. Alcuni giorni dopo il dottore trovò sopra il suo tavolo un eccellente cronometro fabbricato a Londra, e recato in Italia da qualche viaggiatore inglese, che forse ancora lo rimpiange.
Questo eroe fu ucciso in una mischia. I pontificj s’impossessarono, è vero, del suo cadavere, ma la sua fama correva ancora per le montagne, e la sua masnada studiavasi anco far credere ch’ei fosse sfuggito.
Per convincere della identità del cadavere, non si trovò nulla di più ingegnoso che di mostrarlo alla madre del brigante. Quella vecchia decrepita attinse neH’odio e nella vendetta tanto coraggio quanto occorreva per negare. Fu tenuta per un’ora e mezzo in presenza di quel corpo, ma essa ostinatamente ripeté che non lo riconosceva. La prova parve concludente, e si permise alla vecchia di andarsene. Ma a quest’ultimo istante, quando il passo più difficile era fatto, la natura riprese violentemente i suoi diritti; la madre tornò bruscamente indietro, abbracciò il cadavere del figlio, lo bagnò di lagrime, e proruppe in imprecazioni contro i soldati che l’avevano ucciso.
Coloro che non videro le paludi Pontine si rappresentano una vasta estensione di paludi sterili e fetide, tanto spiacevole alla vista, quanto ripugnante all’odorato.
Nulla è più lontano dal vero. Le paludi Pontine sono uno de’più bei paesi dell’Europa, uno de’più ricchi e de’più ameni per tre quarti dell’anno.
Imaginatevi una lunga pianura , che da un lato confina col mare, e dall’altro con una catena di montagne pittoresche, coltivate accuratamente e coperte d’alberi su tutti i loro declivii: è un immenso giardino sparso d’uliveti, le cui frondi grigiastre sembrano in ogni stagione bagnate da un vapore mattutino. Le prime falde proteggono de’boschi di vecchi aranci floridi. La pianura si divide in foreste, in praterie ed in coltivi. Le foreste, alte e vigorose, attestano l’incredibile fecondità d’un suolo vergine. Esse alimentano i più begli alberi d’Europa, e le liane gigantesche. La vigna selvatica e la rosa canina colorano e profumano le frondi sempre verdi del sughero.
Le praterie sono coperte da innumerevoli gregge; sì belle che non se ne troverebbero di uguali che nell’America o nell’Ukrania. Delle frotte di cavalli semi-selvatici galoppano in libertà entro recinti immensi; le vacche ed i buffali pascolano in pace l’erba alta e folta. I custodi di questo bestiame, inchiodati sulla sella dei loro cavalli, col mantello in groppa, il fucile ad armacollo; la lancia in resta, vestiti di velluto forte e con uose di cuojo grosso e lucide che arrivano fino al ginocchio; galoppano intorno ai loro allievi. I giovani puledri ritti in piedi sulle loro gambe sottili disegnano all’orizzonte la loro ombra fantastica.
Se i viaggiatori vengono in Italia per ammirare delle città antiche e magnifiche, dei capolavori di scultura e pittura, delle rovine pittoresche, delle cerimonie religiose d’una magnificenza unica, delle feste popolari la cui originalità non è ancora scancellata, dei campi di una fertilità miracolosa, delle belle foreste folte e cupe che danno la più alta idea della fertilità del suolo, un popolo forte, abbronzito, vestito di foggie che fanno risaltare l’eleganza naturale del suo corpo, appagheranno i loro desiderj senza uscire dagli Stati della Chiesa.
Le paludi Pontine valgono già il viaggio.
Le coltivazioni vi sono rare ma gigantesche. Alla primavera si vedono fino a cento paja di buoi occupati a lavorare lo stesso campo. Alla fine di giugno non è raro l’incontrare un campo di grano che indora una lega di terreno. I frumenti sono belli, i melgoni sono sì grandi che un uomo a cavallo vi è altrettanto invisibile quanto una pernice nei nostri solchi. I fieni dappertutto ove l’acqua non fa moltiplicare il giunco e la carice, sono altissimi, sani e di buon odore. La coltura paludosa trova perfino un posto in questa fecondità universale. Egli è nelle paludi Pontine che si coltivano in tratti di molti ettari quei carcioffl semi-selvatici, di cui il popolo di Roma si nutre in estate.
Un drennaggio a cielo scoperto semplice e poco dispendioso basta a produrre tutte queste buone cose. Quasi tutti i papi, specialmente Sisto V e Pio VI, hanno fatto lavorare ai grandi canali collettori. L’interesse privato ha seguito l’impulso, ogni possidente ha scavato dei canaletti nel suo campo.
Le paludi Pontine sono sottoposte alle stesse cause di sterilità insalubre delle nostre lande. Il vento d’ovest che ammassa le dune sulle nostre spiagge della Guascogna e della Gironda, ingombra ugualmente di sabbia la costa occidentale dell’Italia, e arresta lo scolo delle acque. La sola differenza fra queste lande e le nostre è che qui la terra vegetale è mille volte più abbondante e che non vi è alios. Il calore del sole vi è più cocente e più fecondo.
Però, tutto non è fatto per le paludi Pontine poichè non sono abitabili. La popolazione che le coltiva scende dalle montagne, lavora, falcia o miete, e se ne fugge tosto sotto pena di morte. Egli è anzi tutto, che le acque non iscolano abbastanza presto ed occorrerebbe qualche canale di più, e poi che i detriti di materie vegetali che compongono questo suolo fecondo, subiscono nei grandi calori una fermentazione terribile, se ne sviluppano dei veleni sottili, che sfuggono all’odorato, ma sono funesti alla salute. La decomposizione dei prodotti animali è fetida ma innocua e quasi salubre. Non vi è alcun pericolo ad abitare Monfaucon, nel mentre che queste praterie imbalsamate generano la peste. Quando il sole di luglio ha sprigionati i gaz micidiali che covano sotto l’erba di queste campagne, il vento li porta via ove gli piace, e si vedono, a dieci leghe di distanza nella montagna, in un paese naturalmente sano, gli uomini morire avvelenati.
Questo flagello che decima regolarmente gli Stati del santo padre, e che fa progressi ogni anno, non è però senza rimedio. Basterebbero buone arature per espellere tutti i veleni dalla terra. Dando aria alla terra, e aprendo uno passaggio ai gaz mortiferi, si renderebbe sano tutto il paese.
Bisogna rompere coraggiosamente tutte le praterie e seminare del grano. Io non dispero di veder operare questa rivoluzione che arricchirebbe i possidenti e popolerebbe la pianura in meno di un quarto di secolo. Alcuni aratri a vapore basterebbero per questo miracolo. Nessun paese è più acconcio a questo genere di cultura, perocchè il suolo è piano e senz’alcun accidente di terreno. Converrebbe che i veri amici del popolo romano si mettessero a predicare il vapore, come gli apostoli hanno predicato l’evangelio; ma le menti sono mal preparate ad accogliere un tal beneficio.
Nulla di più curioso che una masseria nelle paludi Pontine. Voi entrate in un villaggio semi-abbondonato da tre o quattro mesi. Quasi tutti gli edifizj appartengono al signore; il suo stemma ducale sta sopra la porta delle capanne. I granaj che egli ha costrutto, i pozzi che ha scavati sono altrettanti monumenti che celebrano la gloria del suo nome. Un’iscrizione pomposa vi prega fieramente di non obbliarlo mai.
Il suo palazzo vasto, quadrato, monumentale, sormontato da una torre che suona le ore, è il centro del villaggio e dei lavori agricoli. Quest’edificio non ha mai visto nè il padrone attuale, nè suo padre, nè il suo avolo; tutt’al più il bisavolo vi si sarà fermato una volta di passaggio. Il mercante di campagna ha stabilito il suo studio in questo monumento. Si vede entrare ed uscire come nelle podesterie di provincia un giovine impiegato, col sigaro in bocca, e la penna dietro l’orecchio. Verso sera, i guardiani del bestiame, gl’ispettori dei lavori, i sorveglianti giurati, ornati d’una piastra d’argento colle armi ducali, arrivano sui loro cavalli che vanno tra il passo e il trotto. Alcune carrette trasponano delle derrate al magazzino, o delle bestie coricate sui fianchi, colle gambe legate e col muso legato con una corda di fieno. Si registrano i prodotti, e si spediscono a Roma, dopo aver prelevato ciò che ognuno crede poter prendere senza pericolo. E pertanto la terra è si feconda, gli animali eseguiscono sì vigorosamente la loro opera di riproduzione, che il mercante di campagna metterà da parte circa dieci mila scudi alla fine della stagione. In quanto al possidente, al padrone della masseria e del castello, al duca di Carabas, ei non sentirà mai a parlare di tutta questa ricchezza. Egli ha esatto alcuni anni anticipati per dar una festa o per costruire un giardino. Si dice perfino che si trovi in cattive acque, e che stia per affittare il suo palazzo di Roma, affine di viaggiare a buon mercato in Francia od in Germania.
Noi abbiamo lasciato la nuova strada da Roma a Napoli, che attraversa le paludi Pontine in linea retta. I nostri cavalli ascendono penosamente la strada vecchia, abbandonata dall’amministrazione delle poste, e perciò assai negletta. Eccoci a Piperno, villaggio di cinque mila anime , capoluogo di governo nella provincia di Frosinone. Il nostro albergo, il solo di Piperno è una catapecchia. Bisogna attraversar la rimessa per salire alle camere del primo piano, e che camere!
Per lo contrario, la piazza del villaggio è molto pittoresca.
Il mercato lo si tiene all’ombra di dieci begli alberi d’arancio; i notabili del paese vi si radunano tutti i giorni dinanzi alla bottega del farmacista. Io feci conoscenza col medico, col chirurgo, col flebotomo, col notajo e con alcuni consiglieri. Ecco il curato che giunge; ei si ferma a dieci passi da noi per far mettere due o tre libbre di ciliegie nel suo moccichino. L’acquacedratajo vicino sospende delle scorze di limone sul davanti della sua bottega per annunziare che ha preparato dei sorbetti. Io mi metto a parlare coi notabili, che mi assicurano che la gente del paese non è infelice; la proprietà è ragionevolmente divisa, si raccolgono molte olive, l’olio si vende bene, e nella comune non vi sono nè nobili nè mendicanti.
A due ore e mezzo tutte le case si chiudono, senza eccettuare la bottega ospitaliera del farmacista. È il momento della siesta; il villaggio dorme fino alle cinque. Io feci intanto il giro della città seguendo la strada di cinta. Gli antichi bastioni sono coperti di giardini abbastanza verdi; gli aranci vi fioriscono dappertutto. Una iscrizione mi ordina di fermarmi; faccio alto e leggo:
FERMATI UN ISTANTE, VIAGGlATORE,
QUALUNQUE SIA LA FRETTA CHE TI SPINGE!
PRIVERNA, ANTICA CITTA’ DEL LAZIO,
CAPITALE DEI VOLSCI,
MUNICIPIO ROMANO ,
VITTIMA DEL FURORE DEI TEUTONI,
HA LASCIATO, TU LO VEDI ,
POCHE TRACCIE NELLE ROVINE CHE COPRONO
LA PIANURA VICINA;
GLI EDIFIZI NUOVI ERETTI SULLA CIMA
DI QUESTA COLLINA
ATTESTANO IL GRAND’ANIMO E I SENTIMENTI GENEROSI
DEI CITTADINI INTREPIDI
CHE HANNO RISUSCITATO IL NOME E L’ESISTENZA
DBLLA LORO PATRIA ESTINTA.
AFFINCHÈ QUESTA GLORIA DI PRIVERNA E DEI PRIVERNATI
NON PASSASSE INAVVERTITA DINANZI A TE,
IL SENATO E IL POPOLO DI PRIVERNA
HANNO INNALZATO QUESTO MONUMENTO
L’ANNO DELLA REDENZIONE 1735.
RISTAURATO NEL 1845.
I Privernati ci consigliarono di prendere dei cavalli di rinforzo, e piuttosto tre che due, se volevamo arrivare di giorno a Sonnino. Noi seguimmo il loro avviso, ed uscimmo dalla capitale dei Volsci per la via consolare. Una strada laterale si chiama la via Camilla.
Sonnino si vede da lontano sulla cima di una rupe. Gli edifizj sono uniformemente d’un grigio colore di ruine. Si ditingue la base di alcune torri demolite per metà; è tutto ciò che rimane del recinto fortificato. Due o tre fabbricati nuovi d’un bianco crudo spiccano nel paesaggio e guastano l’armonia trista del luogo.
La strada stessa mi parve trista, quantunque fosse tutta fiorita. Gli uliveti, le vigne, le clematidi; i rovi, le ginestre, fiorivano a gara, i bottoni di mirto stavano per aprirsi, eppure questo lusso vigoroso d’una primavera d’Italia non ci parlava nè di amore, nè di piacere. Noi misuravamo la profondità dei burroni che fiancheggiavano la strada, seguivamo collo sguardo l’ertezza delle rupi aride, e ci cacciavamo col pensiero nel folto impenetrabile dei macchioni. Alcuni campi larghi come la mano, ci spiegavano la vita nuova degli indigeni, il loro lavoro ostinato ed il magro frutto dei loro sudori. Qua e là usciva dalla terra un pugno di frumento, d’avena o di melgone, ma la cultura principale è quella degli ulivi, e l’occhio spazia tristamente sulle loro frondi azzurrognole.
Due conventi di grassi frati contribuiscono colle loro preghiere alla prosperità di Sonnino. L’uno è situato a un mezzo miglio dalla città, l’altro se ne sta come un ufficio di dazio consumo sulla porta al basso della città. Ci fu giuocoforza fermarci al secondo per mettere la nostra vettura al coperto ed i cavalli in iscuderia. Quei buoni religiosi vendono l’ospitalità ai cavalli ed agli equipaggi, e la fanno pagare tanto più cara, in quanto che una carrozza non potrebbe entrare in città. L’arteria principale è una via, che gli abitanti chiamano con semplicità strada di mezzo.
Due porte la terminano; al basso, la porta s. Giovanni; all’alto, la porta s. Pietro. A dir vero, questa strada non è che una specie di scala sdrucciolevole, che passa tra due file di case nere, ineguali, senz’alcun rettifilo. Essa è ombreggiata di tratto in tratto da volte scure come i tunnel delle strade ferrate. Tre uomini possono camminarvi di fronte; quest’è ciò che le distingue da tutte le altre, ove non vi è posto che per due. Di distanza in distanza s’incontra a destra un precipizio spaventevole colla pianura in fondo; ecco le strade adjacenti. La nostra venuta era stata annunziata. La vedova dei briganti aveva fissato un alloggio per noi in casa d’un suo parente, antico brigadiere di gendarmeria e grosso borghese di Sonnino. Egli ci venne incontro fino alla porta S. Giovanni, e ci diede cordialmente il benvenuto. Era un uomo corpacciuto, rubicondo, d’una fisonomia aperta, ma con pochi, o quasi senza denti, ciò che rendeva la sua conversazione difficile a comprendersi. Egli ci condusse al suo domicilio e mise la sua casa e le sue genti a nostra disposizione: la casa che abita è di un piano difficile a descrivere. Vi si entra dalla strada di mezzo, ma il primo piano fa un salto e passa in un altro quartiere. Un corridojo a scala ci condusse in una cucina affumicata, ove se ne stava la padrona di casa colla sua figlia unica, una bella brunettina di quindici anni. Dopo i primi complimenti, ci si fece salire per una dozzina di gradini e ci si mostrò la sala da pranzo. Di là passando io per altri intricati corridoj, giunsi alla mia camera.