Gerardo Fedele – Toponomastica e Unità d’Italia
La verità sola fu figliola del tempo
Leonardo da Vinci
Prima degli anni Cinquanta del secolo scorso, il maggiore contenitore di abitanti tugliesi era costituito dai caseggiati e dalle case a corte della Via te susu e da quelli della Via te sotta. Queste due strade stracolme di abitanti (le attuali via Plebiscito e Via XXIV Maggio), che fanno capo alla interposta chiesetta di San Giuseppe, erano così chiamate per la semplice abbreviazione verbale di Via di sopra San Giuseppe e Via di sotto San Giuseppe (già Via della Congregazione). L’intero abitato di Tuglie era denso e urbanisticamente compatto, tanto che altre contrade e rioni risultavano parimenti popolosi (vedi Santa Lucia, La Croce, Via Oliveto o Lavitu, Li Critazzi, Monteprino ed altri ancora). L’espansione territoriale del 1923 comportò la creazione di nuovi rioni (ampliamento della Longa, dei Termiti e di Contrada Aragona, ed altri nuovi quartieri come Montegrappa e Mazzuchi) nonché la costruzione di nuove case. La popolazione tugliese, pertanto, si è man mano diluita, distribuendosi in tutto il territorio comunale, con il conseguente spopolamento e impoverimento del centro storico.
Sfortunatamente, però, degli antichi rioni dell’abitato di Tuglie è andata quasi dispersa la vecchia toponomastica, che riesce ancora ad emanare quell’alone di affascinante curiosità: (Vico dietro la chiesa, Vico di coste alla chiesa, Via del Pozzo, Via della Ragna, Via Fierro, Vico Cicerone, Via Oliveto, Via Arciprete, Via Giardini, Via della Congregazione, Via san Giuseppe di sopra, Via san Giuseppe di sotto, Piazza del Mercato, Spiazzo del Calvario, Isola Panara, Via Passaturi, Via la Ruota, Via della Botèga Lorda, ecc.), come pure i vecchi toponimi nei dintorni dell’abitato (le Calàte, l’Aia Vecchia, li Cazzati, lu Varnicchia, li Romanelli, le Puliscìe, li Spani, li Vignali, la Stella, la Crècana, le Marcòtane, la Badìa, li Cardami, lu Vatu te la urpe, e tanti altri).
Come si può vedere la vecchia toponomastica era molto ricca e colorita, tuttavia ancora oggi i nomi di quei luoghi rimangono poco noti alla maggior parte dei tugliesi adulti e, a dir poco, sconosciuti alle nuove generazioni.
Ogni momento storico necessita di essere celebrato ed esaltato; un personaggio che abbia contribuito a dar lustro alla Nazione o al proprio piccolo paese merita di essere ricordato; così, anche il periodo post risorgimentale comportò una capillare azione che mirava a tener desta l’attenzione su luoghi, personaggi, avvenimenti legati all’Unità d’Italia.
Gli ardori conseguenti al Risorgimento Italiano e il dolore per le tante vite stroncate dalla Prima e Seconda Guerra Mondiale hanno fatto sì, che la preesistente colorita, significante toponomastica fosse sostituita con nuovi significanti, con nomi di personaggi, località, date, collegate a quegli eventi, contribuendo alla cancellazione di una memoria storica tipicamente locale.
Ecco alcuni esempi: Via della Ragna che diventa Via Pasubio, Via della Botega Lorda/Trieste, Via del Pozzo/Vitt. Veneto, Piazza del Mercato/Piazza Garibaldi, Via Oliveto/Risorgimento, Vico Cicerone/Marsala, Via Fierro/F.lli Bandiera, Via Arciprete/Nizza e poi Dei Mille, Via Calvario/Quarto, Via Giardini/Cairoli, Via Vernicchia/Principe di Piemonte, Via la Croce/Savoia, Via Passaturi/Corte Loreto, Isola Panara già Saccomanni/Via Manara, Via Longa/D’Annunzio, Via la Ruota/Grappa e così via.
Accadde che in poco tempo, per la nascita di un nuovo e moderno stradario, scomparvero tanti vecchi toponimi, i quali dovrebbero essere rivalutati e ripristinati. Sarebbe culturalmente auspicabile, quindi, promuovere un’operazione che rimuova dall’oblio tutti quei personaggi e luoghi del nostro passato, che qualcosa hanno certamente insegnato e che in futuro potranno ancora farlo, ma… senza ripetere l’errore di altre facili cancellazioni.
Il 2011 è l’anno in cui si celebra il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Chissà quante volte abbiamo letto e leggeremo ancora quest’annuncio. Si scriveranno libri, articoli su ogni testata di giornale e riviste; chissà quanti talk show e reality televisivi si aggiungeranno a quelli già visti in TV, quanti programmi o vecchi sceneggiati sulle mille camicie rosse garibaldine saranno rispolverati dalle cineteche della RAI.
Tra i banchi delle elementari, la nobile Storia Risorgimentale, la mia brava maestra Benilde, ce la faceva studiare anche attraverso le letture del libro Cuore di Edmondo De Amicis, dove si respirava quel fermento di speranzosa Unità Nazionale, scritto con il chiaro scopo di insegnare ai giovani, i futuri cittadini, le virtù civili, ossia l’amore per la Patria, il rispetto per le autorità e per i genitori, lo spirito di sacrificio, l’eroismo, la carità, la pietà, l’obbedienza, ma anche la sopportazione delle disgrazie.
Ogni martedì mattina, a turno, ci toccava leggere il capitolo del mese, così fino alla fine dell’anno scolastico, che si chiudeva con la solita recita nell’oratorio parrocchiale. In una di quelle recite (La piccola vedetta lombarda), ricordo di aver sostenuto la parte dell’ufficiale al comando di alcuni cavalleggeri dell’esercito piemontese che, durante la perlustrazione nelle campagne del Vogherese, incontra un ragazzo che lo aiuterà a scoprire la posizione di un drappello dell’esercito nemico. Il racconto si conclude tragicamente, con la morte del piccolo
eroe, con i soldati che sfilano porgendo gli onori militari, dopo aver ricoperto di fiori il suo corpicino avvolto in un tricolore.
Tali narrazioni servivano ad alimentare in noi ragazzi quel sano sentimento patriottico che ci faceva sentire orgogliosamente italiani. Crederlo era veramente affascinante e lusinghiero. Ma poi, approfondendo e spulciando libri, documenti e nuove pubblicazioni, poco alla volta, le lacune della Storia, quella Storia che per molti decenni ci hanno insegnato, emergono prepotenti, rivelandoci cose inedite, mai sentite, mai studiate o apprese prima, tanto da farla risultare sempre più nebulosa e buia.
Ma siamo certi di conoscerla bene la nostra Storia Risorgimentale, almeno quella del Sud Italia?
Siamo convinti della correttezza di un re straniero, che in nome dell’Unità ha sottratto il posto ad un altro re, quello legittimato ad occupare il trono del Regno delle Due Sicilie? Ancora oggi si stenta a credere, perfino sospettare, che i Savoia sponsorizzarono una guerra di conquista coloniale accompagnata da brutalità, soprusi ed efferatezze. C’è ancora chi prova ad insabbiare la lunga guerra civile, mascherata da lotta al brigantaggio, costata il massacro di migliaia di persone. In realtà l’Unità d’Italia non parte dal 1861, in quanto la dura guerra alle nostre popolazioni fu prolungata fino al 1865 e in alcune regioni addirittura fino al 1870.
«La Storia è la versione dei fatti di chi detiene il potere», sosteneva Hegel, «guai a seppellirla, prima o poi schizza fuori come un cane rabbioso». La storia della nostra Italia non era solo quella degli Austriaci, dei Piemontesi e del Lombardo-Veneto, appresa nei libri di testo, o quella dei vari Ciro Menotti e Amatore Sciesa, o quella ancora dello Spielberg e dei Piombi di Venezia, dei Re Tentenna, dei Cavour, dei Garibaldi, dei Nino Bixio, eccetera, eccetera, ma era anche la Storia delle popolazioni meridionali.
Conoscerla e nasconderla è stata una necessaria scelta politica e ideologica dei vincitori che hanno voluto far passare la convinzione che il Regno delle Due Sicilie era stato, grazie a Dio, finalmente liberato(!) e che i sudditi dei Borbone, spontaneamente e festosamente, avevano accolto a braccia aperte i salvatori piemontesi. Fiumi di osannanti parole sono stati versati sul generale Garibaldi e il suo “Obbedisco!”, sull’incontro di Teano, sull’Aspromonte, sui Due Mondi e sui Mille di Quarto.
La nostra formazione scolastica sul Risorgimento si è poggiata sulla retorica che si era costruita negli anni immediatamente successivi e consolidata in quelli del fascismo. Nessuno storico ha scritto del grande bluff, fatto passare per votazione plebiscitaria (per l’annessione al Regno dei Savoia l’elettore doveva votare palesemente, ossia guardato a vista da soldati e compiaciuti amministratori, i cosiddetti galantuomini, preposti al controllo delle schede), o delle cannonate dell’esercito piemontese su popolazioni inermi, di un esercito che aveva invaso il Regno senza avergli dichiarato guerra.
Certo è che, fino ad oggi, nessuno ha mai chiesto scusa per gli scempi e le stragi perpetrate in nome dell’Unità nei confronti di migliaia di inermi contadini (Pontelandolfo, Casalduni, rasi al suolo dal generale Cialdini massacrando donne e bambini, Bronte, Montefalcione e tante altre comunità), e inascoltata pare essere rimasta la richiesta del sindaco di Pontelandolfo (BN), rievidenziata poi su “Il Giornale”:
Illustre dottore,
la sua risposta a una lettera di R.C., a proposito del modello di politica della toponomastica, in uso presso gli enti locali, ha fatto riemergere la tragedia di Pontelandolfo rasa al suolo e incendiata il 14 agosto 1861 dalle truppe piemontesi. «La guerra di conquista del Meridione, quella che per carità di patria, viene ipocritamente definita “lotta al brigantaggio”». Ha scritto e ribadito, così, una verità vera, senza fare sconti e ricorso a perifrasi, alla beffarda, crudele morbidezza di chi preferisce adagiarsi nell’equivoco. Grazie ad un erede diretto di quella gente che patì lo stupro, il saccheggio, il fuoco. Attuale e sentita ancora è quella immane tragedia. Lo scorrere degli anni non riesce a sbiadirla. Continuo è l’impegno per farne motivo di riflessione e di monito, soprattutto per i giovani. Il rammarico forte è dettato anche dalla mancata risposta da parte del Presidente della Repubblica alla petizione popolare inoltrata il 20 settembre 1973. Non chiedevamo che la cancellazione della infamante definizione di «terra dei briganti» e la riabilitazione delle vittime dell’eccidio. Voglio vivere la speranza che da lei possa venire un intervento per smuovere dall’inerzia gli uffici della presidenza della Repubblica perché riportino, dopo 32 anni, fuori dagli archivi la petizione popolare di Pontelandolfo, per le giuste determinazioni.
Giuseppe Perugini, più volte sindaco di Pontelandolfo.
Non ho udienza, caro Perugini, presso le alte sfere (e se è per questo, nemmeno presso le basse). Certo, sarebbe un bel gesto, da parte della sfera più alta, depennare dagli atti della Storia Patria quel «Terra di briganti» riferito al Meridione. E nel farlo prendere atto che la questione meridionale principia da lì. Principia dallo spocchioso disprezzo dei conquistatori nei confronti dei conquistati: «Che barbarie!» scriveva Luigi Farini1 – il consigliere di Cavour, l’ex Presidente del Consiglio e più volte Ministro – da poco insediatosi a Napoli come luogotenente di Vittorio Emanuele. «Altro che Italia! Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni sono fior di virtù civile, la provincia napolitana non ha popoli ma mandrie». «In queste regioni» gli faceva eco Nino Bixio «non basta uccidere il nemico, bisogna straziarlo, bruciarlo vivo a fuoco lento… son regioni che bisognerebbe distruggere o almeno spopolare e mandare i caffoni in Affrica a farsi civili»2. Ancora nei primi del Novecento, negli atti di una inchiesta parlamentare sul Meridione si poteva leggere che «l’inferiorità del contadino meridionale è un prodotto storico. Dato l’ambiente di miseria e di ignoranza in cui ha vissuto per secoli il lavoratore della terra, qual meraviglia se il suo temperamento si è volto al male, se l’acutezza della mente ha degenerato in frode, la forza in violenza, l’amore in libidine?».
Potremmo anche dire con Mao, che la guerra non è un pranzo di gala, caro Perugini, e con ciò se non giustificare, quanto meno comprendere Pontelandolfo e Casalduni, brutalmente immolate sull’ara dell’unità d’Italia. Ma l’odio, la denigrazione, il pregiudizio che i vari Bixio e Farini, il Parlamento stesso, trasmisero alla pubblica opinione settentrionale dando corso ad una generalizzata intolleranza che lambisce il razzismo, questo no, questo non può essere né compreso né tanto meno giustificato. Eppure ancor oggi, in un Paese come il nostro, dove i miti della Resistenza, e non solo italiana, sono assai coltivati, si seguita a definire la campagna di conquista del ’61 «Lotta al brigantaggio» e si può leggere perfino nella popolarissima Garzantina che «Francesco II, scacciato dal trono delle Due Sicilie, riunì un vero esercito di briganti (ca. 80.000 uomini) per riprendere la corona». Nessuno vuole riaprire vecchie ferite, ma concordo con lei, caro Perugini, nel ritenere doveroso dar riscontro a quella petizione popolare. Capisco gli scrupoli delle nostre alte sfere, ma qui non si tratta di revisionismo o di critica antirisorgimentale. Qui si tratta di riparare a un giudizio ingiurioso che da un secolo e mezzo affligge gl’italiani del Mezzogiorno. Si tratta, insomma, di un atto dovuto.
- Granzotto-Il Giornale, 27.8.2005.
«Lo Stato italiano» – ebbe a dire Antonio Gramsci, in Ordine Nuovo, negli anni ‘20 –«è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l’Italia Meridionale e le Isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi contadini poveri, che scrittori salariati tentarono di infangare chiamandoli briganti».
l 150° dell’Unità d’Italia è coetaneo della famigerata Questione Meridionale: una sventurata anima gemella, partorita proprio quando i Savoia subentrarono ai Borbone, che costituì (e costituisce) un gravissimo problema. La tanto agognata Unità d’Italia, quindi, si rivelò ben presto una difficilissima faccenda da affrontare per il neonato Governo, non solo per le incertezze che il processo di unificazione inevitabilmente comportava, ma anche per l’emergenza di profonde differenze sociali, economiche e culturali fra tutte le regioni del nuovo Stato. Con la scusa della fusione nazionale, il nuovo re, dopo aver scacciato i vecchi regnanti ambiva solo a svuotare le sontuose casse del Regno delle Due Sicilie, per colmare il profondo vuoto delle sue e, quindi, arricchire il suo depauperato Regno sabaudo, ormai prossimo alla bancarotta. Sicché, chi osava opporsi, o evidenziare un comportamento politico in contrasto con gli obiettivi unificanti per i quali ci si era battuti veniva messo al bando o imprigionato.
1 Luigi Carlo Farini (Russi, 22 ottobre 1812-Quarto, 1° agosto 1866). Medico, storico e politico italiano, per breve tempo Presidente del Consiglio dei ministri del Regno d’Italia tra il 1862 e il 1863. Nel gennaio del 1861, dopo l’occupazione garibaldina di Napoli venne nominato da Vittorio Emanuele II Luogotenente di Napoli. Rimase celebre il giudizio piuttosto feroce sulla città e sui suoi abitanti che riportò in uno dei suoi resoconti al Presidente del Consiglio, Cavour [NdA].
2 A Nino Bixio, “Eroe della Patria(sic!)”, furono, e sono ancora, intitolate strade, scuole, piazze, biblioteche ed altro ancora [NdA].
Fu così che in pochi anni, il Governo di Vittorio Emanuele II, re di Savoia, facendo ricorso alla Legge Pica3 scatenò l’inferno in più paesi dell’ormai ex Regno di Napoli, sprezzantemente definito Terra di Briganti, che comportò massacri, fucilazioni, incendi di paesi, saccheggi, emigrazione.
Quest’Italia che, da un secolo e mezzo, galleggia in un mare di problemi mai risolti, è di fatto divisa in due Italie dinamicamente differenti, che si muovono con due diverse economie e, persino, impostate su due diversi fusi orari, che vanno dall’estrema Porta Occidentale di Ventimiglia, all’estremo lembo orientale di Otranto.
Il Regno delle Due Sicilie probabilmente non era quella meraviglia che alcuni meridionalisti sostengono ancora che fosse, ma non si può neanche affermare che sia stato l’ultima ruota del carro, anzi era un Paese normale, posizionato ai primi posti per tecnologia, prestigio e ricchezza, che aspirava a diventare sempre più moderno e civile e che, avendo una scarsissima componente di aggressività verso gli altri popoli, non costituiva un pericolo per nessuno. Forse, il suo più grande errore è stato proprio quello di essere un Paese che desiderava vivere in pace. «A partire dal 1860 l’Italia non piemontese» – scrive Lorenzo Del Boca – «non è stata liberata, ma conquistata. Le Regioni meridionali non sono state unite all’Italia, ma annesse».
Non potremo mai sapere come sarebbero state le nostre Regioni senza l’aggressione e lo spodestamento perpetrati dal Re di Savoia, che coltivava il suo progetto di espansione dinastica, con l’appoggio di forze e potenze internazionali, sugli altri Stati italiani e, quindi, contro gli stessi italiani. Le popolazioni del Regno di Napoli avevano i loro problemi, ma è certo che le loro condizioni non migliorarono con l’Unità; non si videro debitamente prese in considerazione; non furono poste le basi per un moderno sviluppo di quelle che erano (e sono) le risorse che la natura ha regalato a questa parte d’Italia: l’agricoltura, la pesca, l’artigianato.
«Ogni tanto, inciampando in qualche testo della screditatissima storiografia ufficiale, in particolare scolastica» – scrive Paolo Granzotto – «qualche guizzo di nostalgia per i Borbone, per il Re Nasone, lo provo».
I rigurgiti nostalgici servono a ben poco, perché non si possono far tornare indietro le lancette della storia. È la storia, invece, che deve essere riscoperta attraverso il monitoraggio, la lettura e il controllo incrociato di altri testi e fonti, per stabilire quanto più possibile l’obiettività autentica. Ma questo non è ancora sufficiente. Sarebbe auspicabile che si aprissero tutti gli archivi della Storia di Stato e consentire a tutte le personalità più autorevoli, studiosi, storici, politici, critici e ricercatori, di provare tutti insieme a fare chiarezza, ossia, trovare sinergicamente il modo per giungere ad un’unica verità storica, a costo di fare ognuno un coraggioso passo indietro. Non si tratta, ovviamente, della dissacrazione storica o di un ottuso revisionismo di tendenza, ma semplicemente, di aprire i libri, leggere atti e documentazioni, per intavolare una sana e garbata discussione delle tesi, magari diverse dalle proprie, sui fatti cruciali accaduti negli ultimi due secoli di Storia Patria del nostro Paese. Sarebbe come scrollarci dal groppone, come dice Custodero, «…un pesante carico con il quale ci ritroviamo ancora a dover fare i conti…».
Sarebbe un beneficio proprio per tutti.
3 La Legge 1409 del 1863, nota come “Legge Pica” dal nome del suo promotore, il deputato abruzzese Giuseppe Pica, fu approvata dal parlamento e promulgata da Vittorio Emanuele II, il 15 agosto di quell’anno. Presentata come “mezzo eccezionale e temporaneo di difesa”, la legge fu più volte prorogata ed integrata da successive modificazioni, rimanendo in vigore fino al 31 dicembre 1865. Sua finalità primaria era porre rimedio al brigantaggio nel Mezzogiorno, attraverso la repressione di qualunque fenomeno di resistenza (con conseguenti deportazioni e reclusioni sulle montagne piemontesi, nelle ciclopiche prigioni-lager sabaude di Fenestrelle), persecuzione della Chiesa cattolica, profanazioni di edifici religiosi, fucilazioni di massa, stupri, perfino su bambine (non considerata affatto cosa infame, in quanto “figlie di briganti”).
L’apparente mite Gen. E. Cialdini
Una foto del Gen. Nino Bixio in posa spavalda
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Da: http://www.tuglie.com/unita_italia.asp
Tuglie è comune italiano di 5 199 abitanti della provincia di Lecce in Puglia. Situato nell’entroterra del versante ionico del Salento, adagiato sulle propaggini settentrionali delle serre salentine, dista 36,6 km dal capoluogo provinciale. Fa parte del gruppo di azione locale “GAL Serre salentine”. Wikipedia