CONTINUA PARTE TERZA
Firenze, 30 marzo 1876.
NOTA.
Quando furono pubblicate queste Lettere, un ufficiale dell’esercito che trovavasi ancora nelle Province meridionali, dove aveva fatto la campagna del brigantaggio, mi mandò le sue Memorie, cominciate a scrivere in Viggiano (Basilicata) l’anno 1861, e continuate fino al 1868. Egli non volle che io rendessi noto il suo nome, avendo mandato quel manoscritto, diceva, solo per farmi conoscere i resultati della sua personale esperienza, e quale era la opinione sua e quella di molti uffiziali dell’esercito intorno alle vere origini del brigantaggio. Io perciò riporto qui in nota solo qualche brano di quelle Memorie, nella loro forma originale.
Il brigantaggio antico e contemporaneo, a mio debole vedere, trae unicamente origine dalla triste condizione sociale delle popolazioni, non dagli avvenimenti politici, che se possono aumentargli forza, non basterebbero mai a dargli vita; e neppure da cattiva indole o nequizia degl’indigeni, che in verità hanno dalia satura vivezza d’ingegno, carattere dolce e sommesso, ed in alcune province, come nell’antico Sannio, negli Abruzzi e nelle Calabrie, a queste naturali disposizioni uniscono una robustezza ed un’energia invidiabili.—
— Errerò, ma secondo quello che io penso, il brigantaggio in sostanza altro non ò, che una questione ardente agraria e sociale. —
— Fa maraviglia il trovare in quasi tutti i centri popolosi soltanto quattro o cinque famiglie ricche, spesso fra loro imparentate, ed il resto nullatenenti. E così, ad eccezione di pochi soddisfatti che imperano a lor talento e dispotizzano, ovunque si volga lo sguardo non si vedono che miserie e guai, quasi a derisione, illuminati dal più bel cielo. —
— La banda di Chiavone colla corona in mano cantava il Rosario, ed il capo ne dava l’esempio coll’intuonare l’Ave Maria. Tutti i briganti portano al collo Scapolari e Santi di carta dentro una piccola borsa.—
— Vive ognora, per inveterato costume tramandato dal feudalismo, il diritto nei proprietarii di pretendere in determinati giorni dell’anno l’opera gratuita del lavoratore. E non è raro il caso nel quale, invece di retribuire la mercede in cereali o denaro, la si paga con una data misura del più abbondante prodotto della terra, come sarebbero frutta, agrumi, cedri, ec. , ec. , generi tutti che, pel difetto di esportazione o per mancanza di vie, discendono a vilissimo prezzo; per il che il povero subisce una nuova perdita sul già magro salario. —
— Il lavoratore della terra guadagna ordinariamente poco più di un carlino, Il carlino vale circa 42 centesimi. altrettanto un manovale muratore, e così in proporzione tutte le altre classi di lavoratori.
Nei mesi di giugno e luglio, tempo delle mèssi, molti lavoratori si recano da lontani paesi nelle Puglie o nella Terra di Lavoro, per segare il grano e guadagnare due lire al giorno, quando lavorano, e il pasto. Ma per ottenere così abbondante e straordinaria mercede, oltre gli stenti e le spese di disastrosi viaggi, sovente ritornano ai loro paesi malati, per effetto delle grandi fatiche sopportate sotto la sferza del sole, o per causa della malaria.
In tal modo le famiglie lottanti giorno per giorno colla fame e coi più stringenti bisogni, abbrutite da tutti questi guai, non conservano che una ben debole affezione per la loro prole, e cercano ogni mezzo per alleggerire il peso della miseria e trovare qualche sollievo. In molti paesi mandano i bambini fuori ad accattare, a suonare chitarre ed arpe, a ballare tarantelle, a cantare romanze. Cedono per pochi ducati a vili speculatori le loro creature, e questi mercanti di carne umana vivono e lucrano sui sudori d’innocenti, che trasportano nelle più lontane contrade, in Francia, America, Germania, Malta, Algeria.
Per le medesime cause, e per uno dei più abominevoli usi feudali, vi sono alcuni ricchi che si credono qualche volla padroni anche delle figlie dei loro coloni, e le acquistano sin dalla puerizia dai degradati genitori, come fiore a loro serbalo, per pochi ducati. E dopo averne a loro capriccio abusato, obbligano o persuadono qualche infelice che le sposi, mediante il dono di pochi scudi e di una piccola dote, che in realtà poi questi sultani non sborsano mai del proprio, ma colla loro influenza e colla loro ingerenza nelle amministrazioni pubbliche fan pagare dai Comuni dagl’Istituti di beneficenza, di cui sono gli arbitri. —
— Tutte queste angherìe, tutte queste prepotenze ed abusi creano e alimentano quell’odio che separa le due classi; spingono ad atroci vendette o alla volontaria emigrazione: non quella feconda, lucrosa e intraprendente dei Genovesi e Biellesi; ma bensì quella che non ha altra mira che di sfuggire alle miserie e soperchieiìe, che spopola ed isterilisce intieri paesi, vi fa mancare le braccia robuste, e priva le famiglie dei loro cari più vegeti e più atti al lavoro. —
— Il brigantaggio, ripeto, è solo la conseguenza dell’odio vicendevole fra oppressi ed oppressori, cioè fra quelli che possiedono ed i nullatenenti, odio tanto più intenso, quanto meno progredita è la civiltà. —
— Nè è a credere che pei danni e per le stragi che fa il brigante sia egli dalla generalità esecrato: tutt’altro. Anco i più tranquilli ed i più onesti del basso popolo hanno Io spirito talmente pervertito, ed il livore contro il signore così vivo, che inclinano a vedere nel bandito la personificazione gloriosa e legittima della resistenza armala verso chi li tiranneggia. Non ò dunque da meravigliare se trovansi facilmente tanti manutengoli, non essendo l’orrido mestiere del brigante aborrito. Per le plebi banditi sono anzi eroi, e questo universale favore fa sì che qualche volta anche i maggiorenti, i quali naturalmente non possono vedere nei briganti che i loro più acerrimi nemici, li temono, li accarezzano, e invece di cercare il rimedio nell’educare e nel trattare meglio le plebi, non sdegnano passare nelle file dei manutengoli, largamente sovvenendo e mai tradendo il brigante. —
— Allorché il capobanda Mansi ricattava il ricco… a Giffoni, nell’interno del paese, entrando coi suoi in sull’imbrunire d’un bel giorno d’estate, ed operandone l’arresto presso un tabaccaio e caffettiere, egli tradusse seco il malcapitato proprietario, e appena fuori dell’abitato, un’onda di campagnuoli, anziché prestarsi alla liberazione del loro padrone, proruppero in un’ovazione al bandito, gridando a squarciagola: — Evviva il capitano Mansi! —E fecero cortèo alla banda.
I terrazzani di Postiglione, Serre, Persano e luoghi limitrofi, parlano tuttodì con religioso rispetto di quella buon’anima di Don Gaetano, che in vita fu il famigerato Tranchella. —
— È certo che la calma materiale, come abbiamo al presente, si potrà sempre ottenere colla severa repressione; ma questa per se stessa non ò che un’operazione violenta, di sangue e di terrore; è il tagliare del chirurgo, senza l’opera curativa del medico, dell’igienista e del moralista. Perciò è mestieri che le due azioni vadano di conserva, e i mezzi preventivi e d’incivilimento prevalgano. —
LA SCUOLA E LA QUESTIONE SOCIALE IN ITALIA.
Questo scritto fa pubblicato la prima volta nella Nuova Antologia di Firenze, il novembre 1872.
Chi paragona l’Italia che sognammo a scuola con l’Italia che vediamo intorno a noi, resta colpito da una grande differenza. Ci pareva che a toccare la mèta noi dovevamo lungamente lottare contro difficoltà enormi; ma una volta riusciti a costituire la nazione, noi la vedevamo, nella nostra immaginazione, circondata di gloria. Invece una serie di facili e fortunate, rivoluzioni ci ha_condotti al fine de’ nostri desiderii; ma l’Italia unita, indipendente e libera si direbbe che ha lasciato il tempo che ha trovato. Dapprima mancava la Venezia, e questo pareva che impedisse il pensare ad altro, e progredire. Poi mancava la capitale Roma, e bisognava distruggere il potere temporale dei Papi, il che avrebbe aperto un’èra novfìllajifìl mondo. Ma ora s’è avuto tutto, e l’orizzonte, invece d’allargarsi, sembra ristringersi dinanzi a noi. Siamo come uomini disingannati e sfiduciati, per non sapere che altro fare, né che altro desiderare.
L’aver costituito la nazione è certo un grandissimo fatto, e ci onora assai. Ma noi non abbiam fatto l’Italia, perché l’Italia non facesse nulla. La grandezza di un’opera si misura da’ suoi risultati.
Accanto a noi, sospinta dal nostro esempio, abbiamo veduto costituirsi la Germania. Ma il giorno in cui è sorto il nuovo Impero, il centro dell’equilibrio politico è subito passato da un lato all’altro del Reno. E mentre l’Europa, compresa d’ammirazione, imita le istituzioni tedesche, la Germania piena di nuova giovanezza e di speranza, agitata dalla questione religiosa e dalla questione sociale, s’è data ad una serie infinita di riforme che procedono rapide e si moltiplicano per via. In presenza di questi fatti noi sembriamo uomini esauriti, che cercano invano stimolo alla vita. E vien fatto di domandare a noi stessi: perché mai la vecchiezza ci assale, prima che la gioventù incominci?
Si credette risolvere il problema col dire: abbiam fatto l’Italia, ora bisogna fare gl’Italiani, ed è questo l’ufficio delle scuole. Ma son frasi che contengono un’assai piccola parte del vero, perché in sostanza l’Italia è composta d’Italiani, e poco o punto può differire da essi; e però sarebbe stato assai più giusto il dire che l’una vai quanto valgono gli altri. Le scuole s’aprirono a migliaia, ed ora si leva già un lamento generale che grida: gli analfabeti non diminuiscono, gli scolari non profittano punto, la scienza non si ridesta; abbiamo le scuole e mancano i professori; la questione è sempre questione di uomini. Sicché a fare gl’Italiani ci vogliono le scuole, ed a fare le scuole ci vogliono gl’Italiani. Siamo dunque in un circolo vizioso?
Ma di certo, se credete che tutto il problema stia nel trovar la miglior forma di scuole, il migliore ordinamento e regolamento scolastico, voi siete in un grossolano errore. Infatti si disse che ci volevano il greco ed il latino a formare la gioventù, e furono subito introdotti ne’ Licei; ma dopo dieci anni i resultati non soddisfano punto. Si disse che il greco ed il latino erano inutili, e gl’Istituti tecnici, senza greco e senza latino, mutano e rimutano ogni giorno, perché non riescono meglio. Si è detto che bisognava cominciare la riforma dalle Università, dove i liberi docenti avrebbero infuso la scienza e la vita. La legge permise i liberi docenti, e questi non si fanno vivi. Abbondano però a Napoli, dove fiori sempre l’insegnamento privato; e già si dice ora che essi sono appunto 1 ostacolo principale al buon andamento di quella Università. Alcune voci si levano oggi e dicono: gli scolari debbono pagare i corsi, le propine salveranno le Università, e faranno ridestare la scienza. Può essere; ma io noto che le propine furono introdotte a Torino ed a Pavia dalla legge del 59, e furono tolte in fretta come dannose. Si disse allora che i professori erano pagati meglio, ma l’insegnamento andava peggio, perché 1 avidità dei maggiori guadagni suscitava gare funeste. Io non giudico, ma ricordo i fatti. Noi abbiamo tentato tutti i sistemi e siamo scontenti di tutti.
Egli è che la rigenerazione d’un popolo è un vasto problema morale, sociale, intellettuale ad un tempo, e noi non possiamo riguardare la scuola come un meccanismo che, trasferito da un paese ad un altro, porti dappertutto i medesimi resultati.
Essa è un’istituzione feconda solamente quando stende le sue radici in un suolo fertile, da cui raccoglie la forza che trasmette moltiplicala. E neppure la scienza stessa possiamo riguardare come se fosse isolata e indipendente dalle altre attività dello spirito umano. Le nazioni sono come gli uomini; e un uomo culto e dotto può essere un cittadino dannoso, destinato a popolare le prigioni. La storia d’Italia ci offre a questo proposito esempii istruttivi e chiari assai. Vi fa un giorno, fu anzi un secolo intero, in cui noi eravamo il paese più culto del mondo. L’Europa pendeva estatica dalle labbra dei nostri professori; nelle lettere, nelle arti, nelle scienze, in tutto eravamo noi i maestri, e nessuno osava emularci, tutti volevano imparare da noi. Ma allora fummo anche un popolo guasto e corrotto, che venne calpestato e messo a brani da’ suoi ignoranti vicini. Avevamo le scuole, e nelle scuole si studiava e s’imparava. Ne uscivano pittori, scultori, scienziati, i primi del mondo; ma non ne usciva l’uomo. E questo bastò a corrompere e far decadere rapidamente arti, lettere, istituzioni, ogni cosa. E i germi che s’inaridirono sul nostro suolo, fecondarono le terre straniere, ove insieme colla forza morale e politica fiorirono le lettere e le scienze. Se voi esaminate una facoltà sola dello spirito umano, senza tenere alcun conto delle altre, non vi riesce di comprendere più nulla; perché essa riceve il suo vitale nutrimento dalle altre, cui, a vicenda, lo trasmette. Voi avete immaginato non un uomo, ma un’astrazione o un mostro. Se voi esaminate nella società una sola istituzione, un’attività sola, e volete farla progredire, senza tenere alcun conto del resto, i vostri sforzi non possono ottenere alcun resultato.
Siamo ben lontani dal volerci qui fermare per ragionare a lungo di scuole; dobbiamo cominciare da esse solo per vedere in che relazione si trovano colla società, e cosi farci strada a cercare la sorgente del male comune. Gettando, dunque, uno sguardo generale sullo stato presente delle scuole in Europa, le vediamo subito sorgere, progredire, alterarsi insieme colla società. Una vera rivoluzione scolastica ha avuto luogo nel nostro secolo. L’antica unità del sistema s’è spezzata in due grandi ordini di scuole, classiche e tecniche o reali, le quali mettono capo alle antiche Università da un lato, ai nuovi Politecnici dall’altro. Cominciando da deboli ed oscuri principii, combattuti dapprima e mal visti, le Scuole e gV Istituti tecnici hanno preso un così rapido incremento, che formano oggi tutto un sistema, il quale si è schierato di fronte all’antico, e si contrastano fra loro il dominio della società. Perché ciò? Perché la società stessa s’è divisa e lotta. L’industria è sorta gigante, per le applicazioni della scienza e l’invenzione delle macchine. Una divisione pericolosa di ordini nuovi sembra volersi formare nella società, se non si è già formata, e le scuole rendono immagine della stessa lotta, in un campo fortunatamente assai più pacifico e tranquillo. L’economista ed il politico si sforzano di conciliare questi interessi avversi, i quali minacciano venire ad aperta guerra. Ed il legislatore non è tranquillo, quando vede i due ordini di scuole tendere a mettersi per opposti sentieri. Le cure, infatti, sono adesso rivolte a ricostituire la spezzata unità, ponendo, senza distruggerli, i due sistemi in armonia fra loro; facendoli mirare al loro vero scopo, che è quello di formare lo spirito nazionale, il quale nelle sue infinite varietà deve pur sempre restare uno.
Cosi la Scuola reale in Germania s’è andata sempre più rialzando, divenendo sempre più una scuola di cultura generale. Le scienze vi s’insegnano senza mirare ad alcuna applicazione, lo studio delle lingue è fatto scientificamente, ed anche il latino vi ha una parte grandissima. Il Politecnico poi, sorgendo di grado in grado insieme coll’industria, ha talmente svolto e moltiplicato coi corsi pratici quelli puramente scientifici, ha talmente voluto corsi di lettere e di scienze morali, liberi docenti e libertà universitaria d’insegnamento, che oggi si può dire una vera Università politecnica. Se una parte importantissima della società moderna ha bisogno di cognizioni nuove e diverse, non v’è ragione alcuna perché il suo spirito sia educato, e la sua cultura formata secondo opposti principii. Qui si vede che le scuole seguono e secondano il naturale progresso della società, ed il legislatore, con uno stesso concetto politico, cerca scongiurare i pericoli sociali ed il disordine delle scuole.
Che cosa facciamo noi? Abbiamo subito creato i due ordini di scuole, e gli abbiamo svolti, non secondo i bisogni mutabili e nascenti della nostra società; ma logicamente, come se si trattasse di portare a compimento due sistemi filosofici. Affidate a due Ministeri diversi, con due burocrazie divenute subito gelose l’una dell’altra, queste scuole si son messe per due vie sempre più divergenti fra loro. Basti ricordare che la Scuola e l’Istituto tecnico sono come due parti della stessa scuola; ma perché l’una è restata all’Istruzione, l’altro è andato all’Agricoltura, si sono subito allontanati fra loro,
lasciando nel mezzo un vuoto, contro cui i due Ministri gridano, senza colmarlo. E dove non provvedono i Municipii, l’alunno deve saltare. Ed hanno imparato cosi bene a saltare, che assai spesso l’alunno respinto all’esame finale di Scuola tecnica è ammesso nell’Istituto, questo non occupandosi punto di quella. Sono fatti noti e provati, che dureranno ancora un pezzo; perché le piccole passioni degli uomini fanno spesso grande ostacolo ai progressi sociali.
Il Liceo dava un’istruzione affatto generale, e l’Istituto tecnico s’avviò subito a darne una affatto speciale e pratica. Esso fu perciò diviso in sezioni, che mirarono a professioni diverse. Una di queste sezioni, è ben vero, apparecchiando a studii più alti, dovette di necessità avere un carattere generale; ma molti de’ suoi corsi dovevano servire per gli alunni di tutte le sezioni, e così lo spirito che dominò l’intero Istituto fu sempre quello che chiamano speciale, pratico, positivo. 0 per meglio dire, lo speciale ed il generale si sono confusi per modo, che esso non è abbastanza pratico da educare, senza officine, all’industria, né abbastanza scientifico e letterario da dare una cultura generale. Lasciamo il latino, che non s’insegna; ma le lingue moderne s’apprendono con lo scopo pratico del parlarle, ed anche lo studio dell’italiano deve essere speciale. I nuovi programmi vogliono che si cominci da Galileo, e, venendo sino ai nostri giorni, si preferiscano sempre autori d’argomento scientifico.
Solo negli ultimi anni si permette timidamente qualche Canto della Divina Commedia. Assai competente era la persona che dettò questi programmi; ma dovè pure uniformarsi al concetto generale degl’Istituti, che io credo errato. Non basta, dunque, che i nostri futuri Sommeillier ed i successori di Michelangiolo e di Leon Battista Alberti, se ne avremo, ignorino il latino; ma essi debbono anche con un certa cautela avvicinarsi alla Divina Commedia. A questi alunni s’è aperto non solo l’adito ai Politecnici ed alle Scuole d’applicazione, ma anche alle Facoltà di matematiche pure e di scienze naturali, nelle quali si possono addottorare, e potranno un giorno insegnarle nelle Università stesse. Siam poi andati cosi innanzi nella logica del sistema, da credere che negl’Istituti tecnici debba insegnarsi una matematica, una fisica speciale, diversa da quella che s’insegna ne’ Licei e nelle Università, e che i buoni professori si possano formare solo nei Politecnici e nelle Scuole d’applicazione. In alcune di queste scuole speciali si deve insegnare non l’italiano, ma l’italiano commerciale, che per verità non esiste. Ed ho più volte ricevuto lettere di professori disperati, i quali non sapevano né donde cominciare né dove finire. Non trovavano pei loro alunni argomento che potesse soddisfare le Autorità superiori; perché la lettera di cambio ed il conto corrente non fanno parte d’alcuna letteratura. Si sono poi moltiplicate le scuole pratiche, prima assai che la nostra industria lo richiedesse. Abbiamo in buon numero scuole di navigazione, di commercio, di capitani di lungo, di capitani di piccolo corso, scuole di agricoltura, forestali e perfino di caseificio.
Ed in esse non s’insegna veramente l’industria; ma si cerca di specializzare in diversi modi le materie d’insegnamento, che nel più gran numero di casi sono le stesse. Volendo svolgere il sistema fino all’assurdo, bisognerebbe trovare un italiano per i capitani di lungo, ed un altro per i capitani di piccolo corso, un alfabeto per chi si dà all’agricoltura, ed un altro per chi si dà al caseificio.
Ma, lasciando da parte un linguaggio che mi son permesso di usare solo per dare maggiore evidenza al mio pensiero, osserverò che uno de’ Commissa rii del Ministero di Agricoltura e Commercio, il professor Colombo, incaricato di esaminare i disegni degli alunni, mise, con molta autorità e grandissima precisione, il dito nella piaga. Egli disse: — La base dell’insegnamento del disegno doveva essere per tutti il disegno geometrico ed il disegno d’ornato. Invece si è subito voluto il disegno speciale, pratico, industriale, e così manca la base; perché, senza una buona cultura generale, neppure nel disegno si può venire allo speciale. Noi abbiamo, egli aggiunse, troppe scuole speciali, industriali; ne abbiamo una varietà maggiore delle nazioni che hanno un’industria assai più progredita della nostra; ne abbiamo infinitamente più di quel che comporti la nostra debole istruzione secondaria. Gl’Istituti tecnici in Italia, pag. 496 e seg. Firenze, Barbèra, 1869. (Pubblicazione fatta dal Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio.) — E poteva aggiungere, che esse si popolana d’alunni che spesso, solo per risparmio di tempo, vanno nelle scuole professionali a formare la loro istruzione generale. Con quale vantaggio della propria cultura e di quella del paese, lo lascio considerare ad ognuno.
Di certo questo è precisamente il contrario di ciò che si raccomanda da tutti coloro che hanno esperienza delle scuole. Il Ministero di Agricoltura fr Commercio si è occupato di una tal quistione, ed ha riformato i programmi, migliorandoli in molte parti. Ma non basta modificare i programmi. E quando si vede che, secondo essi appunto,l’insegnamento dell’italiano, cui a ragione si è data grande importanza, deve cominciare da Galileo, e, preferendo sempre autori d’argomento scientifico, venire sino ai nostri giorni; e solo negli ultimi anni si consiglia qualche Canto della Divina Commedia; e dei secoli più grandi della nostra letteratura si fa uno studio men che secondario, è chiaro che si cerca sempre un italiano speciale, e che il peccato d’origine è sempre lo stesso. Nè le piramidi di carta (monumento davvero colossale), che stampa il Ministero di Agricoltura e Commercio, basterebbero a provare il contrario.
Ho avuto molte dispute su questi argomenti. Mi è stato anche detto che l’insegnamento tecnico era materia estranea ai miei studii, e che non potevo comprenderne tutto il valore, e che a Zurigo, a Monaca, ec., si faceva cosi e cosi. E mi si citava l’autorità dei professori di quei Politecnici. Io confesso che un giorno presi un foglio, e formulai tutte le questioni su cui avevo disputato. Mi posi in viaggio, e stetti quindici giorni a Zurigo, interrogando sino alla petulanza quei professori gentilissimi sempre; andai a Monaco, a Vienna, ripetendo la stessa operazione: ero stato a Berlino. Ho notato nel mio taccuino le risposte avute, e le cose che dico ora sono il resultato di quel viaggio.
La questione, del resto, si discute adesso pubblicamente dalla stampa tedesca, e le opinioni degli uomini più autorevoli possono esser lette da ognuno. A me è seguito molle volte di vedere introdotte da noi, coll’autorità dei Tedeschi, riforme che essi condannano ed abbandonano, perché provate fallaci dalla esperienza anche colà; ed ho veduto spesso i professori ridere delle idee che noi loro attribuiamo, e consigliarci essi stessi di non perdere di vista le condizioni proprie del nostro paese.
Non voglio ora parlare dei Ginnasii e dei Licei; mi fermo solo ad una osservazione che riguarda piuttostol’andamento generale degli studii letterarii, e dimostra come non solo il Governo, ma noi tutti teniamo pochissimo conto delle vere condizioni in cui siamo. I vecchi maestri delle nostre scuole secondarie, molti dei quali erano preti e frati, avevano insegnato a comporre sonetti ed a scrivere distici colla grammatica patavina e colla prosodia. La scuola del Padre Cesari gli aveva istigati a correggere il loro italiano, studiando i Trecentisti. Venne l’unità d’Italia, e fu subito imposto un programma imitato da quelli dei Ginnasii tedeschi. Si scopri che erano nate la scienza del linguaggio e la filologia comparata, che le grammatiche avevano preso una forma scientifica, e lo studio delle lingue classiche era divenuto una specie di filosofia applicata; e subito il Governo e la pubblica opinione imposero i nuovi metodi ai vecchi professori, e i libri degli autori più recenti e qualche volta più audaci, furono adottati con una singolare facilità, senza pensare che non di rado nella Germania stessa trovavano difficoltà ad essere introdotti nelle scuole.
Il guazzabuglio che s’è formato in alcune teste, per questo istantaneo innesto del Blair, del Padre Soave, della Regia Parnassi col Max Muller, col Bopp, col Curtius, col Madwig, è cosa da non si descrivere. Lo dimostrano gli opuscoli che vengono alla luce. La testa dell’autore somiglia qualche volta ad un sacco, in cui si sieno chiusi un gallo, una scimmia ed una serpe. Che cosa segua nella testa dello scolare, si può immaginare. GÌ’ ispettori ripetono ogni giorno: i buoni metodi fanno progresso; e i padri di famiglia rispondono: i nostri figli non capiscono il latino e non sanno scrivere l’italiano. Si è dimenticato che la filologia moderna è nata in mezzo ad un popolo che aveva già una grande cultura classica, la quale apparecchiata da uno straordinario progresso di studii storici e filosofici fu un mezzo potente a farli progredire ancora di più. Separata da essi, perde la sua importanza; insegnata troppo presto o troppo esclusivamente, può anche essere dannosa assai. Noi siamo entrati in un’officina, abbiamo preso una ruota che comunicava il suo moto a cento altre, l’abbiamo isolata dal resto, e, girandola intorno al suo asse, restiamo maravigliati, perché non pone in moto più nulla. Se gli uomini di buon senso biasimarono una volta coloro che credevano essere di buona scuola, perché dicevano male dei Tedeschi, e chiamavano ostrogota la loro grande cultura; essi non possono lodare oggi quelli che si credono al corrente, perché citano dieci autori tedeschi.
In fondo tanto vale ristampare un Trecentista dimenticato, e di tanto in tanto scrivere a piè di pagina: nota bel modo! quanto ristampare una vecchia leggenda, che non ha neppure il pregio della forma, e dire: da questa s’impara più che da molti Trecentisti per la storia di nostre lettere. Tutte le scuole, tutti i metodi hanno i loro parassiti, e questi hanno sempre lo stesso valore, a qualunque scuola appartengano. La nuova gioventù porta nei Licei e nei Ginnasii nuovo impulso e nuova vita. Ma il fatto riscontrato più volte, che è difficilissimo trovare un buon professore d’italiano, e che gli alunni scrivono in generale assai male, merita di essere considerato, perché accusa un disordine intellettuale, che non va diminuendo.
Tutto questo deriva principalmente da due cagioni. V’ è da un lato la inesperienza giovanile d’una nazione che vuol riformare prima di riflettere, e vuoi legiferare a vapore. Ma v’è anche una falsa tendenza del nostro spirito, venula da una lunga educazione, per la quale diamo spesso troppa importanza alla forma e troppo poca alla sostanza; e ci pare di aver già progredito, quando copiamo sulla carta le leggi dei popoli che sono più innanzi di noi, e di avere le scuole tedesche, quando ne abbiamo adottato i programmi. V’è poi l’altro errore, forse più grave di tutti, che noi ancora non siamo persuasi abbastanza, che la rigenerazione d’un popolo è un vasto problema sociale e morale; che la cultura non si ridesta, se non si commuovono e pongono in moto tutte le forze sociali; che le scuole non servono a nulla, se non cercano migliorare tutto l’uomo.
E questo ci conduce ad un’altra questione. In Londra v’è un ricco Collegio, nel quale da molto tempo s’insegna latino e greco, senza ottenere alcun resultato soddisfacente. I tentativi di riforma riuscirono vani, e molti Ispettori cercarono la causa d’un male tanto più notevole, quanto più l’Inghilterra possiede altri Collegi, nei quali i resultati sono eccellenti. Uno degl’Ispettori disse un giorno: — Io credo di avere scoperto la radice del male; sostengo che non si profitta nel greco, perché non s’insegna la ginnastica. Per riuscire ad avere una buona cultura classica ci vuole energia di volontà e fermezza di carattere;l’alunno che non esercita il suo corpo, diviene fiacco, cade in abbandono, e non sa affrontare e superare le difficoltà degli studii. Ad Eton e ad Oxford si esercita il corpo, e si profitta nel greco; introducete anche voi il cricket, e gli alunni spiegheranno meglio Omero. — Non voglio di certo dar troppa importanza a queste parole, che pur furono seriamente ponderate in Inghilterra, dove si crede che la scuola debba nello stesso tempo educare la mente ed istruirla, fortificare il corpo e formare il carattere. Ma che cosa facciamo noi per formare il carattere? Si potrebbe rispondere: semplicemente nulla. Il maestro elementare che ha fatto la sua lezione di leggere e di scrivere, il maestro di ginnasio che ha insegnato il suo greco e latino, hanno adempito il proprio dovere, pigliano il cappello e vanno a casa tranquilli.
Il Preside pensa all’esattezza dell’orario ed all’ordine. Ed il Rettore del convitto? Tiene tranquilli i ragazzi, e provvede che non manchi loro il cibo. Quando ad Eton si nomina il nuovo Rettore, cui si dà uno stipendio maggiore delle 100,000 Se si tien conto di tutti i proventi del Rettore o, come dicono, Capo Maestro (Head Master) di Eton, si ha una somma assai maggiore. Il prof. G. Piechioni, che insegnò molti anni in Eton, ha dato una bellissima descrizione di quel Collegio. Dopo avere enumerato le varie tasse scolastiche e i diversi proventi dell’Head Master al suo tempo, dice: «Tutto calcolato, coll’addizione della tassa scolastica ch’egli ricevo pure dagli scolari della sua classe (il Settore colà è anche insegnante), il Capo Maestro dottor Hawtrey, senza avere pupilli (o sia alunni) in casa sua, avea, quando io ero in Eton, un provento annuale di più che 42,000 lire sterline (300 mila franchi). Da ciò potrà facilmente vedere il lettore, com’egli in dieci o dodici anni potesse benissimo spendere alquanto più che un milione e 200 mila franchi perla sua Biblioteca. Parlando di questa Biblioteca, il Picchioni aggiunge: Mi mostrò egli stesso una copia dell’edizione prinreps dei poemi di Omero, con alcune postille credute di mano di Colbert (l’avea pagato 50 lire sterline), e l’autografo di una tragedia di Alfieri, se ben mi ricordo, Antigone.» Io non credo però che l’Head Master guadagni sempre 300,000 lire italiane. Vedi il Politecnico di Milano, vol. II, anno 1866, pag. 509 e seg. lire, il Times, in un articolo di fondo, narra la vita, giudica il carattere del nuovo eletto, e riguarda l’ufficio affidatogli come più importante di quello d’un Ministro di Stato, perché si tratta dell’avvenire civile e morale della gioventù inglese. Noi diamo ai nostri Rettori vitto e alloggio con qualche migliaio di lire, e non v’è ufficio più oscuro e meno considerato del loro. Un uomo che fra noi si proponesse, per scopo principale della sua vita, d’essere un educatore, ci parrebbe quasi un uomo senza professione.
Ma siamo adesso sopra un terreno assai spinoso e bisogna andar oltre. La più parte delle nazioni civili hanno adoperata la religione come il mezzo più efficace alla educazione morale del loro popolo. La nostra condizione è, a questo riguardo, assai difficile e strana. La Chiesa e lo Stato sono in lotta aperta. Noi siamo persuasi che il clero è nemico dei principii coi quali l’Italia si è fondata, e su cui la società moderna riposa. Vogliamo escluderlo dalle Università, vogliamo che si chiuda ne’ suoi Seminarii, né c’importa di sapere se e come studia e s’educa. Il medico deve avere un diploma, il maestro elementare una patente, il prete faccia quel che vuole. Ed esso non desidera di meglio; è questo il solo punto su cui siamo perfettamente d’accordo. Se il Ministro chiude una scuola secondaria o elementare di frati o di monache, se propone di sopprimere gli avanzi delle nostre Facoltà teologiche, un’aura popolare si leva in suo favore, e la pubblica opinione sembra unanime nell’approvarlo. Ma se i Barnabiti o altri dei soppressi Ordini religiosi aprono una scuola, un convitto, gli alunni s’affollano subito, e i pretofobi vi mandano i loro figli, disertando le scuole laiche. Conservo sempre la lettera assai singolare d’un uomo culto, che si trova in un ufficio importante. Si raccomandava caldamente, perché io facessi dare una solenne lezione a certi frati, egli diceva, perfidi, oscurantisti, nemici della patria e d’ogni bene, che davano una educazione funesta alla gioventù.
La prova di quel che asseriva, e la ragione del suo furore erano poi singolarissime. Aveva messo suo figlio nel convitto appunto di questi frati, ed essi non volevano permettergli che passasse l’ottobre nella casa paterna, sotto pena di non riprenderlo nel novembre. Io mi permisi di chiedere: — Ma se sono così perfidi questi frati, perché affidate loro vostro figlio? Non sarebbe più logico ritirarlo affatto? — E d’allora in poi non ebbi più alcuna risposta.
Quel padre è un onesto cittadino, ed io lo credo simile a moltissimi altri. Uno dei discorsi che più spesso si ripetono tra noi, è questo: — Io ho fede nella ragione e nella scienza solamente; ma se dovessi avere una religione, non vorrei mutare quella de’ miei padri. Se un’autorità ci deve essere, piglio quella assoluta del Papa, perché almeno è la più logica di tutte. Per ora non sento il bisogno d’averne alcuna. — Discutere la propria fede, volere una fede ragionevole sembra a noi Italiani una contraddizione ne’ termini. Ammettere che vi sia un senso religioso, anche indipendentemente da ogni religione positiva, questo ci pare un assurdo. Coloro che credono e coloro che non credono vi sbadigliano in faccia, se voi entrate sul serio in una discussione religiosa. E la riprova di questo la trovate nel fatto, che, ad eccezione dei libri che i preti scrivono per i preti, noi manchiamo d’una letteratura teologica. Opere sulla interpretazione della Bibbia, sulla storia dei dommi, sulle origini del Cristianesimo, non ne abbiamo. Se nell’esame di laurea l’alunno ignora la mitologia greca, egli non passa all’esame; nessuno però s’occupa di sapere se conosce i principi! o i miti della religione cristiana.
Ma il discorso qui sopra da noi riferito ha una seconda parte che dice: — Quantunque io non ci creda, pure voglio che mio figlio sia educato nella religione, perché una volta almeno nella vita bisogna aver creduto. Verrà bene l’età della ragione, e allora capirà che queste cose sono tutte imposture di preti. Quanto a mia moglie ed a mia figlia, però, la cosa è assai diversa. Io lascio che vadano alla Messa ed al confessore, perché amo la tolleranza, e perché non mi fiderei d’una donna senza religione. —Può essere che tutto questo sia a rigore di logica. Intanto però voi che dichiarate il prete ignorante, nemico della patria e del bene, gli affidate l’educazione di vostro figlio; e desiderate che vostra moglie e vostra figlia ricorrano a lui nei momenti difficili della vita, e gli confidino quel che non confidano a voi. Volete che credano ciò che dichiarate assurdo, perché la loro coscienza vi pare sostanzialmente diversa dalla vostra. Aggiungete la poca ed insufficiente istruzione che date alle donne, e vedrete quale abisso scavate fra di voi. L’unità morale e ideale della famiglia si scompone, ed i vostri figli, che di ciò si avvedono subito, vivono in un’atmosfera che corrompe. Essi di buon’ora impa ? rano a fingere ed a non prendere nulla sul serio; entrano nella vita senza avere la forza di credere, né la forza di operare in conseguenza del loro non credere. Per ora accettano il bagaglio tradizionale, come una merce importuna, che a giorno fisso sarà gettata in mare, per essere poi ripescata di nuovo e trasmessa ai loro figli.
In questo stato di cose, se voi lasciate l’insegnamento religioso nelle scuole, siete subito dichiarato clericale. Ma se voi lo togliete, siete dichiarato pretofobo, e le scuole cominciano a disertarsi, e la concorrenza che già fa il clero diviene ancora più efficace. Riesce impossibile di sapere ciò che vuole un popolo, il quale non sa veramente se crede o non crede; non osa abbandonarsi alla fede, e non osa fondarsi sulla pura ragione. Più logico sarebbe di certo, in tali condizioni, decidersi finalmente ad una legge che bandisse dalle scuole ogni insegnamento religioso, lasciandolo, come fanno molte scuole inglesi e americane, alla cura delle famiglie. Ed i veri credenti dovrebbero, ci pare, preferire il nessuno insegnamento religioso a quello di maestri, che sono spesso costretti a mostrar di credere quello che non credono, e non possono nascondere la loro ironia. Ma una tal legge, sempre invocata, non sarebbe in questo momento approvata, e forse neppure discussa. I nostri credenti temono, e non a torto, che essi non avrebbero né la forza né la voglia di provvedere nella famiglia a quello che non trovano nella scuola. E da un altro lato, il nostro Parlamento si trova nella indifferenza stessa del paese che rappresenta. Quando la questione dominante è quella delle relazioni tra Chiesa e Stato, quando si discute il potere temporale, o si propone l’abolizione degli Ordini religiosi, voi vedete militare sotto la stessa bandiera, combattere in nome dei comuni principii, il pretofobo ed il neoguelfo.
Costretti ad una serie di sottintesi e di transazioni nelle cose in cui il transigere non è possibile, non osano mai porre il problema ne’ suoi veri termini; perché il partito andrebbe in fascio, e non vi sarebbe verso di ricostituirlo né a destra né a sinistra. E quindi dovrà sempre succedere quello che è successo cogli Ordini religiosi. Furono snella stampa e nella discussione assaliti per modo, che sembrava si trattasse di dar fuoco ad un nido di lupi. Ma poi vennero aboliti per modo che, sotto altra forma, si moltiplicano più di prima, e riacquistano rapidamente la fortuna che fu loro tolta. Cosi noi avremmo ancora sull’insegnamento religioso una legge, che lo abolirebbe per modo da lasciarvelo stare, e ve lo lascerebbe in modo, che sarebbe lo stesso se non ci fosse. Una vera questione religiosa noi non l’abbiamo ora, e non l’avremo per un pezzo; il rumore che si fa intorno ad essa nasce da ragioni politiche, nelle quali si trovano spesso concordi gli uomini dei più opposti sentimenti religiosi. Basta che venga messa ne’suoi veri termini, isolandola dal resto, perché sia subito sopita, e tutto si riduca, come spesso è avvenuto, ad una tempesta in un bicchier d’acqua.
Ma se neppure da questo lato possiamo sperare che s’inizii una salutare riforma, non ci resta dunque nulla a fare? Io credo che sia inutile battere la testa al muro, e che bisogni prendere gli uomini e i fatti quali sono veramente. L’Italiano ha il senno e la passione politica, e con essi gli riuscì di costituire la nazione. L’Italiano desidera sinceramente ed ardentemente la istruzione e la educazione morale del suo paese, ed una via deve pure trovarla.
Per trovarla, però, non bisógna guardare alla luna; non bisogna ragionare come se fossimo diversi da quel che siamo; non bisogna ogni notte sognare la Germania, come una volta si sognava la Francia. Bisogna, innanzi a tutto, osservare e studiare l’Italia. Una cosa che mi ha sempre maravigliato, e che più d’ogni altra mi pare faccia torto alla nostra presente cultura, si è il vedere quanto poco studiamo noi stessi, e quanto poco si fa in quegli studii appunto, che avrebbero presso di noi un’applicazione immediata, ed offrono un campo vastissimo d’osservazioni. Che gli esami dei Licei vadano male, che la filologia, la filosofìa non progrediscano molto, io lo spiego. Ma non capisco come, essendosi ricostituito economicamente tutto il paese, discutendosi ogni giorno leggi di finanza, avendo cosi un’opportunità d’osservare e d’imparare maggiore assai di quella che si può trovare in qualunque scuola, la scienza economica non abbia fatto alcun notevole progresso, e i nostri più celebrati economisti sien quasi sempre quelli che erano conosciuti prima del 1859. Noi abbiamo aperto migliaia di scuole, tentato migliaia di sistemi, ci siamo trovati in presenza d’una moltitudine infinita di problemi scolastici. Ebbene, se v’è una scienza che si può dire scomparsa affatto fra noi, è la pedagogia, che alcuni mettono in ridicolo, come se non fosse divenuta oggi una delle più stupende applicazioni della psicologia, e non vi fossero opere infinite d’un merito filosofico, storico e pratico grandissimo. Eravamo in assai migliori condizioni, quando il Lambruschini ed il Thouar scrivevano la Guida dell’Educatore.
Eppure l’ingegno italiano ha sempre dimostrato la sua maggiore attitudine negli studii pratici e d’applicazione. Non voglio ricordare nomi d’uomini grandi. Non dirò che il Machiavelli non aveva avuto a scuola una grande istruzione, e pure, facendo il segretario della Repubblica, divenne il fondatore della scienza politica; non dirò che Marco Polo divenne immortale, descrivendo i paesi che aveva veduti. Le eccezioni non fanno regola. Ma è infinito il numero de’ libri importanti, lasciati da mercanti italiani, i quali, anche scrivendo senza grammatica, sapevano raccogliere i resultati della propria esperienza, e fare osservazioni originali, acutissime. Non di rado troviamo Inglesi eminenti, che hanno formato la loro cultura correndo per il mondo, e fermandosi nelle scuole che hanno trovato per via. Molti Americani cominciarono col fare gli operai, e finirono col divenire uomini chiarissimi nella politica o nella stampa. Senza la scuola fecero quel che a noi non riesce fare con la scuola. Assai spesso si sente che un Tedesco o un Inglese, dopo aver viaggiato in Italia, ha pubblicato un libro assai notabile su qualcuna delle nostre province. Ben di rado succede di vedere che uno dei tanti nostri prefetti, impiegati, professori, raccolga la sua esperienza e pubblichi qualche lavoro veramente originale sull’indole della provincia e delle popolazioni fra cui s’ è trovato, e che pure darebbero cosi vasta materia di studio. Grande è, infatti, la varietà dei costumi e delle tradizioni, nella cultura e nella storia dei popoli italici; grandissima l’esperienza che possiamo trarre da un paese che si va trasformando tutto. Debbo però notare, che dal 1872, anno in cui fu la prima volta pubblicato questo scritto, fino ad oggi, qualche visibile progresso s’è cominciato a fare, quantunque in termini generali non si possa dire che lo stato delle cose sia sostanzialmente mutato.
È certo che l’istruzione e l’ingegno d’un uomo dipendono molto anche dalla cultura e dalla forza intellettuale della società in cui vive. L’energia stessa delle nostre facoltà è in parte conseguenza del lavoro accumulato dalle generazioni precedenti, che trasmettono a noi organi più perfetti, attitudini e capacità maggiori, acquistate col proprio lavoro. Tale almeno è l’opinione di molti psicologi moderni. Cosi la nostra lunga decadenza può aver dato una falsa piega al nostro ingegno, che, presa una volta e trasmessa da padre in figlio, non si perde in un giorno: forse ci vuole lo sforzo d’una o più generazioni. A molti Italiani sembra che dare una istruzione maggiore o minore non sia altro che accumulare più o meno cognizioni nella testa. Invece essa consiste principalmente nel saper educare l’alunno ad un’ azione più o meno energica ed originale della propria intelligenza, che in questo modo diviene capace di produrre nuove idee, e di assimilarsi un maggior numero di cognizioni, le quali non sono che il mezzo per arrivare ad un fine più alto. E quando diciamo che le cattive scuole sciupano la testa, crediamo di usare solo una figura rettorica, e diciamo una verità matematica. Senza avvedercene, possiamo da una falsa educazione prendere un modo artificiale e preconcetto di vedere le cose, che c’impedisce di manifestare tutta la nativa originalità del nostro genio nazionale. Il ritrovarla deve essere appunto lo scopo della nuova istruzione, e non già l’accumulare qualche materia di più nella testa.
Ma giacché siamo stati a scuola e non c’ è rimedio, spogliamoci per un momento, se è possibile, di ogni preconcetto, di ogni teorìa, e gettiamo lo sguardo intorno a noi. Facciamo, se ci riesce, come quegli ambasciatori veneti che percorrevano il mondo, e nelle loro relazioni scrivevano vere fotografie, colle quali ci fanno anche oggi conoscere cosi bene i loro tempi. Quando io, senza alcuna prevenzione, cerco nella mia testa le immagini che vi si sono a mia insaputa stampale, e vi restano profondamente impresse, vado subito col pensiero a Napoli. Dal 59 in poi sono molte volte tornato nella mia città natale, e la prima passeggiata che ho fatta, è stata sempre nei quartieri più luridi, ove s’addensa il popolo minuto, e dove la stessa borghesìa napoletana di rado s’avanza. Per anni ed anni sono tornato a Porto, al Pendino, a Rua Catalana, a Porta Capuana, ed ho sempre trovato immutabile il medesimo spettacolo d’orrore. Ho visto una popolazione immensa, gettata per le vie, cenciosa, sudicia, senza mestiere e senza occupazione. Chi vive, aspettando d’essere invitato a trasportar qualche oggetto; chi friggendo zeppote; chi impastando franfellicchi, che lecca più volte prima di vendere; chi cuoce cibi impossibili; chi sbuccia noci da mattina a sera; chi lessa castagne o spighe di gran turco; chi taglia legni per far fiammiferi, o fa altri mestieri che ricordano i popoli primitivi. E di qua e di là sparsi, come per singolare contrasto, degli artigiani abilissimi, pieni d’una intelligenza che trasparisce dagli occhi.
Mi sono avvicinato ai tugurii, dove si ricovera questa moltitudine, ed ho avuto bisogno, per entrarvi, d’una grande forza di volontà; perché il fetore che emana al solo avvicinarsi, mette spavento. Vivono nei bassi, botteghe il cui suolo è assai spesso più basso del livello della strada, e però quando piove v’entra l’acqua, se non si chiudono, e chiudendole, non v’entrano né l’aria né la luce. Ivi si raccoglie tutta la famiglia, vecchi e giovani, il marito, la moglie, le ragazze, i fratelli e qualche volta gli animali, tutti insieme. Ivi si soddisfano tutti i bisogni della vita. S’aggiunga che le fogne della città sono cosi male costruite, che le materie, se non piove molto, restano ferme, e le esalazioni si sentono nelle strade, e pei condotti rientrano nelle case, in modo che le febbri intermittenti sono ora a Napoli assai comuni, ed il chinino s’adopera come nei paesi di malaria. Si vedono perciò nel minuto popolo visi sparuti, un numero grande di storpii e di malati, di vecchi imbecilliti; il tifo, la terzana, le perniciose spesso li mietono a migliaia. Un naturalista mi assicurava che perfino i caratteri fisiologici della razza si sono alterati. E se, entrando nei vicoli più stretti, s’ha il coraggio di salire nelle case ove abita la stessa gente, si trovano nella corte, nei varii piani, nelle scale, accumulati, in diversi strati, la stessa miseria, lo stesso puzzo. È facile capire perché in ogni stagione, in ogni tempo, sono come cacciati nelle pubbliche vie, dove non solo pèrdono ogni sentimento che ispira il focolare domestico; ma, tra gli urli, le bestemmie e le oscenità, le ragazze più oneste cominciano a perdere il pudore.
E se parlate con questa popolazione, per natura cosi vivace, intelligente, affettuosa, voi trovate uno stato di abbattimento, di abbrutimento e di prostrazione morale che non vi lascia più dormire tranquilli. Alcuni anni sono, in quel grande ricovero di mendicità che il volgo chiama il Serraglio, e dove pure esso’Jia un vitto ed un alloggio migliori che a casa sua, si vollero introdurre le scuole elementari per le bambine. Dopo pochi giorni quasi tutte avevano l’oftalmia. E avendo il Direttore fatta qualche indagine, trovò che quelle di maggiore età avevano insegnato alle più giovani, che strofinandosi gli occhi assai forte con un panno di lana si sarebbero ammalate d’occhi, e in vece della scuola sarebbero andate all’infermeria. E cosi fecero.
Nel passato anno una signora forestiera, amica d’Italia e filantropica molto, dopo aver visitato i poveri di Napoli, mi diceva: — Ero stata nell’interno della Spagna, e nei tugurii dell’Irlanda, ma non avevo alcuna idea che la degradazione umana potesse arrivare a questo punto. È un’ onta, è un’ onta, ripeteva mille volte, pel vostro paese. E fino a che voi tollerate tali orrori senza mettervi riparo, non farete alcun vero progresso, e l’Italia non sarà degna della libertà. — Essa è ora in Inghilterra, e picchia di casa in casa, cercando danari pei poveri di Napoli. Io non so dire la impressione che provo, quando veggo nelle nuove strade sorgere nuovi palazzi, con i soliti bassi, che subito divengono tugurii di altri infelici. Per essi non s’ è fatto nulla, assolutamente nulla. Toledo s’abbellisce e muta i lampioni; si vedono sempre nuovi e più eleganti magazzini. Opere utili ed opere di lusso si sono fatte, ed una delle più belle città del mondo è divenuta più bella ancora.
Ho visto mutare il marciapiede alla Villa; ho visto una mezza rivoluzione di cocchieri, cui si voleva imporre di portare il cappotto di panno ed il cappello a tuba; nuove statue e nuovi giardini si vedono spesso. Ma i Consigli municipali di destra e di sinistra si sono seguiti, senza far nulla pei più poveri quartieri di Napoli. Ho chiesto mille volte: — Perché non si pensa a ricostruire le fogne, perché non si migliorano le abitazioni, e non s’allargano le vie dove la gente non vive, ma muore? Perché non si trova modo di dare un mestiere a quella gente che campa la vita, sbucciando noci e tagliando fiammiferi? — Mi si è sempre risposto: — È impossibile, bisogna conoscere la città, per farsi un! idea delle difficoltà insormontabili che vi sono. — Io non so se la volontà e le forze del Municipio e della Provincia possano bastare a correggere il male. Ma io credo fermamente, che il Governo d’un paese civile debba, in questi casi, od obbligare altri a fare, o far prontamente. Se è vero che la schiavitù dei Negri impedì il progresso generale negli stati del Sud, e fu, più che ad altri, dannosa ai Bianchi stessi che li possedevano, io credo che sarà impossibile rialzare davvero l’educazione morale e civile d’un popolo, che sopporta nel suo seno tali vergogne. Bisognerebbe che qualche anima gentile andasse in quei luoghi, descrivesse minutamente, ritraesse la vita e lo stato morale di quella gente, e lo denunziasse al mondo civile, come un delitto italiano.
Ma si dice: — Noi abbiamo aperto le scuole elementari, tecniche, di disegno, gli asili infantili! — Questa è una vera ironia.
Che volete che faccia dell’alfabeto colui a cui mancano l’aria e la luce, che vive nell’umido e nel fetore, che deve tenere la moglie e le figlie nella pubblica strada tutto il giorno? Non otterrete mai nulla. E se un giorno vi riuscisse d’insegnare a leggere ed a scrivere a quella moltitudine, lasciandola nelle condizioni in cui si trova, voi apparecchiereste una delle più tremende rivoluzioni sociali. Non è possibile che, comprendendo il loro stato, restino tranquilli. Ecco dunque un problema sociale della più alta importanza, messo dinanzi a voi. Potete vedere e toccare con mano. Non andate ai libri, non cercate teorìe e riforme scolastiche. È tempo perduto. Voi volete sapere, perché la scuola elementare non dà risultati, perché le scuole secondarie vanno male, e sopra tutto, perché non vi riesce in modo alcuno d’introdurre una buona disciplina e formare il carattere? Puramente e semplicemente, perché noi manchiamo ai nostri più sacri doveri. Se la classe media si rivolgesse davvero a sollevare questi miseri, e stendesse loro una mano pietosa, basterebbe questo fatto solo per rialzare d’un tratto la disciplina morale nel paese e in tutte le nostre scuole. Voi chiedete ogni giorno come s’insegna la morale agli alunni, yì stillate il cervello, cercate i libri, provate i metodi. Ed io vi dico, che v’è un mezzo solo e semplicissimo d’insegnare la morale, e questo sta nel fare una buona azione. Quando ero ad Eton, celebre appunto per la formazione del carattere, io chiesi ad un professore: — In che modo voi riuscite, quale è il vostro metodo? — Egli mi rispose ridendo: — Noi non abbiamo alcun metodo, lasciamo più che è possibile i ragazzi a se stessi, persuasi che son buoni e si correggono a vicenda.
Il vero educatore di Eton è un certo spirito che s’ è formato nel Collegio, che nessuno ha creato, e che tutti sentono. Io direi che è lo spirito stesso d’una parte almeno della società inglese, che è entrato qui dentro, e se lo trasmettono a vicenda; perché io vedo nella storia, che quando la società inglese decade, Eton non fiorisce. — Ed è veramente lo spirito del popolo inglese quello che anima tutte le istituzioni del paese, e per mezzo di esse moltiplica le proprie forze.
Io prevedo la risposta a tutte queste mie osservazioni. — Voi citate un caso particolare, e ne cavate una conclusione generalisima. Napoli non è l’Italia. — Ebbene, io abbandono Napoli e mi dirigo altrove. Questa estate viaggiavo, solo ed a piedi, nel Tirolo austriaco. È un paese che non ha grande istruzione né grande industria; ma uno s’accorge subito d’essere in mezzo ad un popolo serio, morale e, all’occorrenza, eroico. Non sapevo comprendere, perché non mi riusciva più di guardare, come facevo in Italia ed altrove, alla mia valigia, né di leggere il conto che mi presentavano, né di numerare il danaro che mi rendevano. Nei paesi di montagna si trova spesso un vivere patriarcale ed ingenuo; ma qui mi pareva che questa onesta semplicità dai monti fosse discesa anche nelle città. E non ricordavo più che quel popolo ci era stato fieramente avverso, e quasi gli perdonavo i suoi molti pregiudizii e la sua superstizione. Percorsa la Zillerthal, dormii una notte a Ginzling, paesetto composto d’una chiesa e poche case.
Il domani m’avviai con una guida, di cui appena comprendevo il linguaggio, per andare a Slerzing, passando il Pfitscher Joch, e facendo tredici ore di cammino, delle quali dieci di montagna. Erano le cinque del mattino, c’eravamo appena messi in via, quando una donna ci corse dietro a restituire poche monete che aveva prese più del dovere, per errore. Giunti alla cima del monte, accanto ad un laghetto circondato di neve, io che mi sforzavo di conversare con la guida, e riscontrare la verità di certe mie impressioni, gli chiesi: — Ho visto in molti paesi che gli usci non si chiudono la notte. Non ci sono dunque ladri nel Tirolo? — Ed egli, guardandomi seriamente, disse: — Da noi quando s’è finito di lavorare, la gente fa cosi, — e, gettando a terra il suo alpenstock, aggiunse: — Lasciano a terra arnesi, abiti, tutto quel che hanno, sicuri che tornando troveranno ogni cosa al posto. — Restato poi un momento sopra di sè, come chi vuol misurare la verità di ciò che ha detto, continuò: — Non debbo però darle una falsa impressione. Ella sa bene, tutto il mondo è paese. Anche da noi, di tanto in tanto, si sente o si legge nel giornale che qualche cosa è stata rubala. Ma sono fatti che paiono strani a tutti. — Io posso essermi ingannato, so quanto è difficile giudicare un paese; non voglio qui dare giudizii, ma solo riferire le mie impressioni. È certo, però, che feci quella lunga passeggiata come in un sogno. Le impressioni ricevute nei giorni precedenti s’erano accumulate, e pei discorsi ingenui della guida si ridestavano per modo, che io non potevo in alcuna maniera essere commosso dalla maestà della natura che mi circondava.
Sono per indole un interrogatore pertinace, e quantunque capissi appena il dialetto tirolese, pure domandavo e ridomandavo, per voler esser ben sicuro delle risposte. Due conclusioni riportai assai chiare da quel viaggio: che m’ero trovato in mezzo ad un popolo veramente onesto, é che questa onestà non nasce tanto da un privilegio della razza, e molto meno da qualità superiori d’intelligenza, quanto dall’essere il paese popolato tutto da contadini proprietarii. Essi si sentono felici tra i loro monti e nella loro vita semplice, ma comparativamente agiata. Alloggiano bene e si cibano bene; il vino e la carne non mancano mai; non vi sono poveri, né v’è grande differenza di fortuna. La moglie d’un agiato contadino mi diceva: — Da voi in Italia deve essere, per chi possiede, molto triste (Es muss sehr traurig sein) vedersi accanto coloro che mancano di tutto. — Ma gli uomini erano più franchi ancora, e quando parlavano dei contadini italiani, che essi conoscono, perché molli di loro vengono in Lombardia, e tutti vanno nel Trentino, dicevano sempre: — Colà sono schiavi del padrone, e non hanno per cibo che la polenta. È impossibile che non vi sieno ladri! — Tutto pieno di questi pensieri, che l’aria libera di quei monti pareva rendesse insistenti e tormentosi, presi la diligenza e m’avviai verso l’Engadina. A un tratto saltarono dentro due viaggiatori tedeschi, che da Coirà, facendo la via Mala, erano scesi in Italia a piedi, e, traversata la Valtellina, tornavano nella Svizzera. — Conoscevate l’Italia? — No. — Che impressione v’ha fatto? — Dolorosa.
Un clima bellissimo, un cielo incantevole, paesaggi stupendi; ma non c’ è mai seguito di vedere tanta miseria nei contadini. Vivono male, alloggiano male, si cibano orribilmente. Non è descrivibile. Il cuore si apre, il respiro sembra uscire più libero, appena che si passa il confine svizzero, e si rivedono il benessere e l’agiatezza degli uomini. Es lebe die Freiheit. Viva la libertà! — Ma noi siamo liberi, io dissi. — Voi si, ma essi sono schiavi. —
E che potevo rispondere? Quello che io sapeva sullo stato delle popolazioni agrarie in molte parti d’Italia, dava piena ragione ai viaggiatori tedeschi,l’Abbiamo dovuto spesso raccapricciare,scrive l’onorevole Jacini, La proprietà fondiaria e le popolazioni agricole in Lombardia. Studii economici di Stefano Jacini. Seconda edizione, Milano e Verona, 866. «nel vedere l’acqua sorgere dai pavimenti nelle povere stanze abitate, ed i coltivatori sparuti uscire nei campi in cerca di rane j che costituiscono uno dei loro cibi più sostanziosi,e le risaie giungere fino alle finestre delle case. Non è da far maraviglia se le febbri intermittenti mietono tante vittime in questa regione (la bassa Lombardia fra il Ticino e l’Adda); la vasta coltivazione ha permesso la coesistenza di due fatti che sarebbe impossibile nella piccola coltivazione: magnifica produzione e povertà dei coltivatori…
Riesce assai singolare di dover riconoscere che nelle vicinanze della ricca, della colta, della benefica Milano vivono i più poveri contadini della Lombardia.» (Pag. 265.) E dei giornalieri che s’incontrano nelle vaste praterie della stessa regione, egli dice:
«Col loro meschino salario in danaro, miserabile cibo e squallido alloggio, portano dipinta la povertà sui volti sparuti, e fanno raccapricciare ogni anima bennata.» (Pag. 262.) Queste cose erano vere nel 1856 e sono verissime oggi, perché la nostra gloriosa rivoluzione non ha avuto tempo di pensare a questi piccoli problemi. Il contadino delle più fertili e ricche terre dell’Italia libera è ancora costretto dalla miseria a cercare ranocchi. So bene che non tutta la Lombardia è in queste condizioni, e che vi sono pure molti contadini assai agiati. Ma è pur vero che grande è il numero di coloro i quali non mangiano la carne che il Natale, la Pasqua, e forse qualche altra solennità, né bevono mai il vino delle fertili vigne che coltivano. Per alcuni anche la polenta è un cibo di lusso. La pellagra, che fa stragi orribili fra i contadini lombardi, s’attribuisce al pessimo cibo. I furti campestri, numerosi tanto da far riguardare in alcuni luoghi certi prodotti come perduti per metà, sono conseguenza di questa medesima miseria. Ed il proprietario, che pure è generalmente benefico ed umano, abusa qualche volta del suo potere e del suo arbitrio sul povero contadino, in modo da ridurlo volontariamente ad una cosi disperata miseria, da far dire allo stesso Jacini: «È una tale iniquità che la sola giustizia umana non basterebbe a punirla.» (Pag. 197.) Ed invece la legge, anche in questi casi, sostiene il padrone, ed abbandona il contadino, a cui, quando l’annata è trista, vengono sequestrati perfino i mobili, e se invece la fortuna l’aiuta per. più anni, i patti già gravosi divengono più gravi ancora.
Che se uno mi venisse a dimostrare, come in Lombardia vi sono molte forme di contratto fra padrone e contadino, e che se in un luogo il piccolo affitto in danaro, condannato da tutti gli economisti, riduce il contadino alla miseria, in un altro della medesima natura e della stessa forma di coltura, altri contratti, e fra questi la mezzerìa, lo mantengono assai più agiato, contento e morale; io gli risponderei che questo prova una cosa sola. Prova che l’esperienza, fatta sulle nostre medesime terre, ci addita chiaramente la via da seguire per levare o diminuire queste vergogne, e che noi immaginiamo difficoltà insuperabili là dove non sono, per non metter mano al rimedio.
E se ciò avviene in Lombardia, che cosa deve seguire nelle Province meridionali, dove appunto il piccolo affitto in danaro, che produce i mali maggiori all’agricoltura e all’agricoltore, è la regola più generale; dove l’arbitrio del padrone non ha limiti; dove la classe media, nella stessa Napoli, adopera qualche volta il bastone contro la plebe? Può immaginarlo ognuno, può vederlo chiunque percorre anche rapidamente quelle province, dallo stato dell’agricoltura e dall’abbiezione in cui è ridotta la creatura umana. Io rammento con orrore la miseria che vidi nella mia infanzia, e che ora non è punto scemata. Il brigantaggio è una conseguenza necessaria di] questo stato di cose, e non sarà mai spento né dal carabiniere né dalle fucilazioni, se la legge non viene a proteggere i milioni di schiavi bianchi. Un Calabrese mi diceva: — Fra di noi, un atto di severa giustizia in difesa del contadino oppresso ha fatto qualche volta, pel Governo italiano, una propaganda maggiore che non farebbero dieci Statuti e dieci strade ferrate.
I nostri contadini non immaginano neppure che nel mondo esistano Governi per tutelare anche i loro diritti. — Pochi anni sono ricevei una lettera da una signora di Napoli, che aveva dovuto fare un viaggio precipitoso in Calabria, e mi descriveva ingenuamente le sue impressioni. Era una madre che aveva mandato colà sua figlia, giovanetta di diciannove anni, consumata da un male lento e ignoto, e che altra volta era stata da quell’aria guarita. Ora, invece, dopo qualche mese, un telegramma chiamava in fretta la madre ad assistere la figlia moribonda. E parti. Era ancora lontana varie miglia dal piccolo paese, quando fu avvertita da gente pratica del luogo che bisognava farsi accompagnare da venti uomini armati, perché la campagna era infestata dai briganti. Si fissò il prezzo, e si continuò il cammino. — In mezzo a quella gente, ella diceva, in una condizione tanto nuova per me, mi sentivo oppressa dal pensiero di trovarmi in una terra cosi inospitale e barbara, da esservi bisogno di tanti armati per difendere una madre che cercava la figlia. E mi pentii amaramente d’averla mandata a morire in mezzo ad uomini cosi poco umani. — Entrata finalmente nel paese, la sua impressione fu d’una tristezza assai diversa. — Avevo vista la miseria che opprime la plebe di Napoli, sapevo che in Calabria v’era allora carestia; ma ciò che io vidi passò ogni immaginazione. Le faccie sparute erano tali, che i poeti ed i pittori non potrebbero descriverle. Ma quello che non uscirà mai più dalla mia memoria, si è l’avere visto gruppi di uomini e di donne sotto le case, aspettando che s’aprisse una finestra, e si gettassero nella viale buccie delle frutta, che essi divoravano con un’avidità indicibile.
Mangiavano tutta la buccia del popone e del cocomero come un cibo delizioso. Ed in questo modo si tenevano in vita. Io allora mi maravigliai che quella gente non avesse assalito la mia carrozza, per levarmi tutto quello che avevo. Sentii per essi una pietà infinita, e per la prima volta in mia vita capii che i briganti possono anch’essi meritare più compassione che odio. —
E la scena mutò di nuovo, quando la madre fu presso alla figlia. Si può immaginare che cosa sia una giovanetta, educata da genitori culli ed affettuosi, dotata dalla natura d’un animo angelico, che nel fiore degli anni lentamente si avvicina alla morte. In queste malattie ed in quella età si vede spesso che le doti più nobili dello spirito si vanno sempre esaltando, ed il linguaggio sembra ispirato a pensieri sovrumani. Ella non voleva accostare le labbra impallidite alla tazza del brodo, se prima non le assicuravano che un’ altra tazza era stata portata ad una povera vecchia, che viveva sola in un tugurio del palazzo, istupidita dagli anni e dalla miseria. Quando la sete la bruciava, non ci era verso di farle prendere il ghiaccio che aveva chiesto, se prima non le assicuravano che una parte era già stata data alla piccola contadina colla quale aveva passeggiato pei campi, e che ora giaceva in una stalla, sulla paglia, assalita dal tifo. Domandava e ridomandava, volgendo alla madre gli occhi già divenuti vitrei, come per cercare il vero; e se dubitava d’essere ingannata, piangeva ed allontanava il ghiaccio.
È inutile provarsi a dire che cosa sentisse la madre. Ma la notizia di questi atti pietosi s’era divulgata con una grande rapidità fra quei contadini, gli aveva talmente commossi, che quella malattia era divenuta come una pubblica calamità pel paese. Si udivano quegli uomini sparuti ed oppressi dalla fame chiedere l’uno all’altro per le vie: Come sta la Signorina? Una folla era sempre alla porta del palazzo per chiederne notizie. Già nella loro immaginazione esaltata la Signorina era divenuta la Santa. E quando si fecero i funerali per accompagnare il cadavere ad una chiesetta fuori dell’abitalo, tutto intero il paese l’accompagnò con urli e pianti dirotti. — Io mi trovai, continuava la lettera, in mezzo ad una folla immensa di gente abbandonata ad un dolore senza confini. Vidi le donne che si strappavano i capelli, gli uomini che si rotolavano per terra come selvaggi inebbriati, e non sapevo io stessa se sarei restata in questo mondo, o sarei scesa nella tomba con mia figlia. Dopo qualche anno la stessa signora mi scrisse: — Sono tornata in Calabria a visitare la tomba di mia figlia, e l’ho trovata sparsa di fiori che quei contadini vi portano di continuo. — — Perché facevano tutto questo? Avevano finalmente una volta trovato pietà. Ed era quello di cui avevano bisogno. Che miracoli non potrebbe fare chi sapesse parlare direttamente al cuore di questo popolo?
Cito un altro esempio, meno pietoso, ma non meno utile, se ii lettore vorrà considerarlo in tutti i suoi particolari. Chi non conosce quei poveri giovanetti italiani, maschi e femmine, che percorrono il mondo, cantando, sonando, accattando?
Sono venduti dai loro genitori a quei padroni che usano, come dicono i giornali, far la tratta degli schiavi bianchi, e li fanno dormire sulla nuda terra; li bastonano; li prendono a calci, se la sera non portano loro la somma fissata, e dànno loro da mangiare solo tanto che possano continuare ad accattare. Nella Camera e nel Senato si levarono nobili proteste contro questi orrori; ii Governo promise una legge, e chiese informazioni ai Consoli. Questi, nelle loro risposte, rivelarono subito un’iliade nuova di vergogne italiane sparse pel mondo. Molte circolari sono partite, ordinando di prendere e rimandare a casa i bambini, punire i padroni. Ma a che cosa si riesce con ciò? Quei fatti dimostrano che in alcune parti d’Italia la miseria, accumulata per molte generazioni, ha distrutto i legami di famiglia, ed ha abbrutito le popolazioni. Rimandando a casa i bambini che furono venduti dai loro genitori, questi non li tratteranno meglio per ciò. Qualche volta anzi è il padre stesso che li porta in giro pel mondo, e li bastona. Il male non sarà distrutto nella sua radice, e piglierà altra forma. Non sarebbe forse meglio andarlo a studiare nella sua sede e prevenirlo, tanto più che esso trovasi concentrato in alcune parti d’alcune province solamente? Andando, per esempio, nella Basilicata, a Viggiano, donde escono ogni anno queste emigrazioni, non potrebbero la carità d’istruzione,
alleate fra loro, provarsi a spegnere il male? Com’è noto, una legge fu votata dal Parlamento appunto per ricondurre in Italia i fanciulli vaganti, e punire i padroni. Ma questa legge filantropica, dovuta all’iniziativa del deputato Guerzoni, non potè, per le ragioni qui sopra esposte, dar finora grandi resultati. L’Inghilterra con mezzi più efficaci si pose all’opera, e già comincia a riuscir davvero a mandare a scuola, o cacciar da) Regno Unito i nostri fanciulli vaganti. Una notizia assai precisa di quanto fu fatto a questo proposito e dei tormenti davvero strazianti cui sono sottoposti i miseri fanciulli, venne pubblicata nella Nuova Antologia del febbraio di questo anno, dal signor Catalani, addetto alla Legazione italiana in Londra. (Vedi anche la Rassegna Settimanale, del 40 marzo 1878, pag. 467) I fanciulli vaganti saranno cosi esclusi dall’Inghilterra, ma andranno altrove. Il mondo è grande, e vi sarà sempre luogo per la loro schiavitù, se in Italia non si estirpa il male dalla radice. Io non propongo esperimenti nuovi, non faccio discorsi in aria. Citerò quello che in America ha fatto un Italiano con Italiani, ed il resultato che ne ha ottenuto.
Una Società filantropica, istituita in Nuova York per aiutare i fanciulli poveri, dette incarico al signor A. E. Cerqua, patriotta italiano, ricoverato colà, di visitare nel più povero quartiere della città, chiamato Five Points, i molti Italiani che vi sono, e vedere che cosa poteva farsi per soccorrerli. Egli si mise all’opera con ardore, ed in una Relazione, che fu pubblicata, rese ufficialmente conto del suo operato. Trovò una popolazione che già il signor Brace, membro della stessa Società, aveva dichiarata la più sudicia del mondo. — Nella medesima stanza, questi aveva scritto, ho visto ammucchiati uomini, donne, bambini, scimmie, arpe, organetti, statuette di gesso, con un fetore orribile. Riconobbi le faccie di coloro che la mattina incontravo per la città, vendendo fiori, lustrando scarpe, sonando, accattando.
La loro fisonomia era cosi degradata, ed aveva perduto i caratteri nazionali a segno tale, che si distingueva appena dal celtico tipo dei più poveri Irlandesi.
Solo un occhio più languido e lucente tradiva ancora la loro origine. — Ed il signor Cerqua, fatta la sua ispezione, trovò che vi erano circa 1500 Italiani, Liguri la più parte. Per mancanza di lavoro nelle loro campagne, avevano abbandonato la nativa provincia, e saputo che l’organetto rendeva altrove più che la vanga in Italia, avevano cominciato ad andare di città in città, e molti traversarono poi l’Atlantico. I più piccoli erano inviali a Nuova York da un ufficio stabilito in Parigi, che li vendeva ad un padrone, specie di furfante che li menava in giro pel mondo, guadagnando sulla loro miseria. — Se questi uomini avessero avuto inclinazione al delitto, cosi dice la Relazione, la carità americana gli avrebbe subito conosciuti ed aiutati. Il non avere questa poco invidiabile notorietà, li fece lungamente restare inosservati. —
Nel 1855 il signor Cerqua, dopo aver fatto molte visite alle famiglie, che lo ricevettero con indifferenza o con diffidenza, aprì una scuola che ebbe trenta alunni, di cui due solamente sapevano leggere un poco. E per tre anni dovette ripetere l’esperimento, vedendosi sempre, dopo i primi mesi, abbandonato. Non valsero i consigli, e neppure la distribuzione fatta d’abiti e di scarpe. Un prete italiano, per nome Rebiccio, dal pergamo e dal confessionale lo accusava di propaganda protestante; prometteva d’aprire esso una scuola accanto ad una nuova chiesa che voleva fondare.
E quando ebbe, in questo modo, raccolto molto danaro da quegl’infelici, se ne fuggi ad un tratto in Italia. E da quel momento la scuola del signor Cerqua cominciò a fiorire. Tuttavia le sue visite alle famiglie e le sue cure dovevano essere incessanti. A prima sera egli doveva spesso, accompagnato dai più fidi alunni, percorrere le vie dei Five Points, e prendere come disertori i più indolenti, che se ne stavano nei bigliardi a veder giocare. Altra volta dovette adoperarsi a proteggere un alunno che era dal padre bastonato a morte, se non portava ogni sera quattro lire a casa. Nè bastò che il signor Cerqua désse quello che mancava; perché il padre, saputolo, volle subito cinque lire invece di quattro, dicendo: Al Maestro non farà differenza. Ad ogni modo, nel 1867 la scuola aveva 228 alunni, e già nei varii anni di sua vita l’avevano frequentata 850. Il profitto era stato maraviglioso: tutti leggevano e scrivevano l’italiano e l’inglese, conoscevano le materie delle scuole elementari. Gl’Ispettori erano poi singolarmente maravigliati vedendo con quanto sano criterio e quanta cognizione quei giovanetti, pochi anni prima cosi abbrutiti, leggevano e discorrevano fra loro. Fra tutti gli 850 se n’ erano trovati soli 40 che sapessero leggere un poco, prima di andare alla scuola.
Questa scuola però s’era proposto d istruire e Rieducare, quindi dovette superare mille difficoltà, prima delle quali fu quella di persuadere gli alunni a lavarsi il viso tutti i giorni, e non la sola domenica, come usavano. Ma la maggiore di tutte si trovò nel volerli persuadere a lasciare la vita vagabonda che facevano, suonando, lustrando scarpe, accattando.
Molti guadagnavano così fino a un dollaro (5 lire) per giorno, e però le famiglie non prestavano alcuna attenzione ai discorsi del signor Cerqua. — Io allora, così egli dice nella sua Relazione, concentrai i miei sforzi su tre famiglie meno renitenti, e potei persuaderle a mandare due giovanetti di circa quattordici anni in una stamperia, ed un altro della stessa età in un’officina Dopo due anni guadagnavano sei dollari per settimana, e d’allora in poi tutti vennero da me a cercar lavora. Una vera rivoluzione seguì subito nella Colonia, e nel 1867 quasi nessuno degli antichi residenti continuava più la vita del suonare e dell’accattare: il nome di suonatori o di pianisti era serbato con disprezzo ai nuovi arrivati dall’Italia. —
Il signor Cerqua dava poi una lunga lista degli alunni che si trovavano sparsi nei diversi Stati dell’America, guadagnandola vita con onesto e dignitosa lavoro; molti di essi avevano officine o negozii in proprio nome; altri erano tornati in Italia, migliorando la loro condizione. Anche le donne avevano trovato lavoro. Ed è ufficialmente constatato, egli diceva, che «in ogni caso, ovunque uno di questi alunni è stato impiegato, gì’ Italiani sono preferiti.» Egli divenne l’agente generale della Colonia. — Il Maestro, dice la Relazione, deve essere il loro medico, legale, astronomo, banchiere; deve risolvere i litigi di famiglia, e concludere i loro matrimonii. Il bene che si può fare a questa gente, visitandola ed amandola, è immenso, e non si può prendere per termine di paragone il resultato che s’otterrebbe, in casi simili, con uomini d’altra nazionalità.
— Un giorno egli conversava con una vedova, il cui figlio scriveva una lettera al padre di lei. Le rammentò allora i vantaggi della scuola, e la freddezza con cui aveva la prima volta ricevuto i suoi consigli. — Caro Maestro, ella gli rispose, non avendo mai ricevuto alcun bene da nessuno, ma molte ingiurie, noi non potevamo capire che ad un tratto fossimo divenuti degni di tanta bontà. Noi eravamo usati a ricevere duri trattamenti da tutti; non avevamo alcun amico; anche i nostri concittadini in migliore condizione ci disprezzavano, e, per dirle il vero, noi avevamo già’ fissato nella mente che troveremmo carità solo nell’altro mondo. The Dangerous classes of New York, any twenty years work among them, by Charles Loring Brace. Chap. XVII: The little Italian organ-grinders. New York, 1872. — Ed ora, io chiedo al lettore: Sono queste teorìe o sono fatti? Non è un delitto lasciare in cosi grande abbiezione un popolo che, in tanti modi, ci fa capire che basta la pietà a rigenerarlo?
Potrei citare molti tentativi simili fatti in Italia con lo stesso ardore, con la stessa perseveranza, e che ottennero i medesimi resultati. Ricorderò solo il giovane Alfonso Casanova di Napoli, il quale dedicò l’intera sua vita ad istruire ed educare fanciulli, dando poi loro un mestiere, e trovando per essi lavoro. Egli è morto quest’anno, pianto anche da quelli che non avevano le sue opinioni politiche, né le sue opinioni religiose; perché vedevano in lui chi aveva capito i veri bisogni del popolo. L’Italia, del resto, è stata sempre il paese classico delle istituzioni di carità e di beneficenza; oggi deve ripigliare anche in questo le sue antiche tradizioni, adattandole ai mutati bisogni del tempo.
E per riuscire deve guardare le cose come sono, esaminare se stessa, non farsi alcuna illusione, non celare né velare alcuna dura verità.
Il Quetelet, nella sua Fisica sociale, osserva che la statistica, con una costanza immutabile, dimostra come, nelle stesse condizioni d’una medesima società, i delitti si riproducono non solo in ugual numero, ma nello stesso modo, colle medesime armi, anche quelli che più sembrano prodotti dal caso e da un impeto istantaneo della passione. Questa legge è così costante, egli aggiunge, che, quando il numero dei delitti muta, si può, senza téma di errare, asserire che le condizioni sociali sono mutate. E sotto un certo aspetto si può dire, che è la società stessa quella che pone il coltello in mano all’assassino, e lo spinge al delitto. Se da un Iato questa verità è sconfortante, perché sembra limitare la libertà umana; dall’altro, invece, conforta assai, perché dimostra con uguale certezza che l’uomo può, migliorando le condizioni sociali, diminuire i delitti e crescere le virtù. Y’è quindi una grande, una tremenda responsabilità collettiva in tutto ciò che avviene nella società. Quando il brigante assassina per le vie; quando le madri vendono i figli; quando i padri li bastonano a morte, se non accattano, coloro che guardano e deplorano, non sospettano neppure che la responsabilità d’una parte di quei delitti tocca precisamente a loro stessi. Non vi ribellate contro queste logiche conclusioni della scienza. Quando uno straniero legge la tabella enorme dei delitti commessi in Italia, che cosa egli dice?
Il popolo italiano (pigliandolo in massa) non è ancora un popolo morale e civile. E se voi mi dite che egli ha torto, perché non distingue; allora io distinguo e vi dico che nell’ultima Statistica penale sta scritto, che i contadini dànno un condannato per ogni 419 individui; le professioni liberali, i commercianti, industriali, ec. , ne dànno uno per ogni 345 individui; i benestanti e proprietarii ne dànno uno per ogni 278, e i delitti dei contadini sono principalmente contro la proprietà, quelli dei benestanti sono principalmente contro le persone e contro il buon costume. Sopra le Statistiche penali del Regno d’Italia. Studio di 6. Curcio: Firenze, Stamperia Reale, 1871. Vedi pagina 408 e seg. Se dunque si deve stare a queste cifre pubblicate dal Governo, la classe agiata commette più delitti e di natura peggiore. Non si tratta più di sentimentalismo e di figure rettoriche; ma le cifre proverebbero matematicamente, che noi siamo una classe più criminosa del contadino che calpestiamo, disprezziamo e pretendiamo col nostro esempio di render più morale. Chi non ricorda con orrore quei processi seguiti, alcuni anni sono, nelle province già state sotto il Papa, dai quali, appariva perfino che gente di condizione civile faceva parte delle associazioni di malfattori; passava la mattina al caffè, e la notte assaliva la diligenza? E ciò prova ancora una volta quanto siano complessi i fatti sociali, e quanto sia fallace il cercare una sola cagione per spiegarli. Il contadino laborioso è spinto al male dall’estrema miseria, e chi potrebbe vivere assai meglio di lui, cede ad altri impulsi più funesti ancora. Le leggi di natura e le leggi sociali sono inesorabili; ma sono più giuste della nostra filosofia.
Lo schiavo è più innocente del suo padrone. Abbiamo creduto e sostenuto in faccia al mondo d’essere più onesti dei tiranni che ci opprimevano; possiamo noi pretendere d’essere più onesti di coloro che opprimiamo, solo perché essi non si ribellano?
Ma se dura la nostra indolenza, durerà questa loro pacifica sottomissione in eterno? Io ne dubito, quando osservo quello che oggi segue in Europa, tra i paesi che godono la libertà, ed hanno assai maggiore ricchezza e più cultura di noi. Vedo che la Germania sembrava il paese più tranquillo e sicuro dalle agitazioni degli operai, e, invece, dal 66 al 72, con la fortuna della guerra, con la nuova libertà, con una prodigiosa prosperità industriale e commerciale, coi milioni che da ogni parte affluiscono, l’agitazione degli operai non solo è cominciata, ma diviene ogni giorno più minacciosa, con una rapidità che maraviglia e tiene pensosi gli uomini più intelligenti del paese. I 250 economisti, politici, industriali, riuniti questo mese (ottobre) ad Eisenach, hanno dichiarato d’essere avversi al socialismo, al comunismo; di essere uomini moderati in politica, ma di essere grandemente impensieriti d’un nuovo conflitto di classi, che minaccia le società moderne, mettendo in pericolo la libertà. Presiedeva l’illustre professore Gneist di Berlino, ed il professore Schmoller di Bonn dichiarava nel Discorso d’apertura, che l’antagonismo delle classi in Germania cresce rapidamente.
— E senza ricordarvi, egli diceva, che la Grecia e Roma caddero per non aver saputo in tempo conciliare antagonismi simili a questo, si può affermare che il pericolo, quantunque ancora lontano, arriverà anche per noi, se non si provvede in tempo. Noi abbiamo bisogno, in ogni caso, di convincere le classi inferiori del nostro profondo desiderio di migliorare, la loro sorte, nei limiti del possibile. Tutto il Discorso è riportato nel Times del giorno ottobre. Questo giornale ha mandalo ad Gisenach un corrispondente speciale, che ha inviato di là una serie di lettere importanti, con un sunto dei principali discorsi. La prima seduta durò nove ore, senza tener conto di due ore e mezzo impiegate nel desinare, durante il quale, dice l’autore delle lettere, vi fu altrettanto da sentire che da mangiare.
— So che molti scrivono, e s’affaticano a dimostrare anche in Germania, che una quistione sociale non esiste. Ma questa grande premura, che si manifesta a un tratto, per dimostrare che la questione non esiste, non mi lascia punto tranquillo. Vedi a questo proposito un lavoro del signor L. Bamberger pubblicato nell’Allgemeine Zeitung (6 ed 8 ottobre 1872) col titolo: Zeitstr Ómungen in der Wirthschaftslehre. Ammiro invece quella scienza tedesca che studia profondamente la, questione, e dichiara dalla cattedra altamente che un nuovo problema economico è sorto e bisogna risolverlo, e che se le dottrine economiche già note non bastano a spiegare il fatto, è necessario far nuovo cammino e scoprire altre leggi. Questi economisti formano già una scuola assai numerosa, e cercano costituire un nuovo partito politico nel proprio paese. Gli avversarii han dato loro il nome di Socialisti della cattedra (Katheder Socialisten), che essi hanno accettato,
dichiarandosi però avversi così al socialismo come al comunismo. Una chiara esposizione di queste dottrine e del come sono sorte, trovasi in un lavoro importante che il signor Adolfo Held pubblicò nei Preussische Jarbtfcher (agosto 1872) diretti da H. v. Treitschke e Wehrenpfennig. Il lavoro è intitolato: Ueber den gegcnviirttgen Principienstreit in der Nationalokonomie. Ed ammiro ancora più la sapienza pratica della vecchia maestra di libertà, quando vedo che in Inghilterra non solo i fatti si studiano e non si negano; ma se nuovi interessi sorgono, nuove passioni si destano, invece d’affaticarsi a nasconderli o sopprimerli, si permette e si desidera che si manifestino: solamente si vuole che ciò segua in una forma legale. Invece di cercar nuove teorìe, si pigliano provvedimenti e si offrono a ciascuno i mezzi di lottare liberamente, entro i limiti consentiti, con una fede illimitata nei buoni resultati della vera libertà, con la profonda convinzione, che solo in questo modo le grandi istituzioni nascono spontaneamente come opere immortali della natura, e non come trovali ed opere artificiali dell’uomo. Così è avvenuto che le disposizioni già prese dall’Inghilterra sugli scioperi, e la istituzione degli arbitri per decidere le liti tra operai e capitalisti, sono state appunto le prime riforme che i professori di Eisenach proposero d’introdurre in Germania. La stampa più moderata usa in Inghilterra un linguaggio che a noi parrebbe sovversivo; ma che colà è giudicato prova d’un vero spirito conservatore. «Gli scioperi, i diceva giorni sono il Times (24 settembre), appariscono sull’orizzonte in ogni direzione, ed ogni volta che seguono, noi sentiamo parlare di concessioni che erano semplicemente giuste; ma che dovevano farsi prima di esser domandate.
In quasi tutti i commerci è stato istinto dei padroni il sacrificare l’operaio fino all’ultimo margine del possibile guadagno,ed è ormai ben tempo [it is high time) che questa pratica sia considerata di nuovo ed abbandonata. I padroni dovrebbero ricordarsi che essi hanno doveri con coloro che impiegano, e dovrebbero persuadersi che gli operai sentono ora desiderii ed aspirazioni, che erano per lo innanzi ignoti alla loro classe. Questi desiderii possono ancora essere guidati e sorvegliati; ma non possono più essere repressi e soverchiati.» Da noi si direbbe che questo è un eccitare i tumulti, colà si crede che questo sia un conoscere i proprii tempi.
Ma anche qui mi si può fare una giusta e grave obbiezione. — A che serve arrovellarsi tanto? Dato e non concesso che in Germania ed in Inghilterra sia cominciata una questione sociale, essa certo non esiste fra noi, perché la nostra industria è ancora troppo debole, il nostro operaio è più docile e tranquillo. Se questo pericolo dovesse pur sorgere fra noi, ciò avverrebbe quando il problema, ancora oscuro per tutti, sarebbe stato risoluto dagli altri, e noi caveremmo allora profitto dall’esperienza altrui, senza agitare adesso gli spiriti. — Ciò potrebbe esser vero, e tuttavia non muterebbe per noi la questione. Guardiamo di nuovo i fatti. L’ agitazione dell’operaio si tira dietro quella dei contadini, la quale in Inghilterra è già cominciata. È la prima osservazione che il conte di Beust ha fatta ne’ suoi dispacci al Governo austriaco. — La questione, egli dice, è sorta, e, sebbene non sia ancora minacciosa, si può prevedere che tale diverrà presto.
— Già si vedono, infatti, i proprietarii discutere coi contadini, e dir loro: — Cacciamo di mezzo a noi gli agitatori estranei, ragioniamo e cerchiamo in comune una soluzione onesta e possibile al nuovo problema che si presenta. — In fondo, anche qui il proprietario non chiude gli occhi, non si tura le orecchie; ma riconosce che ha nuovi doveri da compiere, e si dichiara pronto a cercare il modo. È questa la più vera, la più nobile prova che le libertà inglesi hanno messo assai profonde radici nel suolo britannico. Nello scorso mese (11 settembre) Lord Napier apriva il Congresso delle Scienze sociali, e diceva nel suo Discorso presidenziale: — La distribuzione della proprietà in Inghilterra presenta la più grande contraddizione con le sue libertà politiche, e ripugna profondamente al senso della giustizia. In nessun paese si trovano tanti uomini che vivano sulla terra ad arbitrio dei loro padroni, senza protezione. Le leggi sulla proprietà debbono essere fra noi rivedute,, abolendo quelle che ne impediscono la divisione, promovendo quelle che ne facilitano l’acquisto al contadino ed all’operaio, istituendo autorità e regole che obblighino il proprietario alt adempimento de’ suoi doveri, e proteggano il contadino. The Athenaeum, 44 sept. —
Una nuova Associazione si è recentemente istituita, sotto la presidenza di J. S. Hill, che ne ha formulato il programma con intendimenti assai più radicali. Si dichiara in esso che le presenti leggi sulla proprietà ebbero origine in un’età troppo diversa, dalla nostra, ed hanno quindi bisogno d’essere affatto rivedute.
E nel paese del selfgovernment, della libera concorrenza, della iniziativa individuale, si propone dal suo primo economista che lo Stato richieda o acquisti la proprietà d’una gran parte del suolo inglese, per promuovere la piccola agricoltura, la piccola proprietà, e migliorare la condizione del contadino e dell’operaio. I mezzi che sono formulati nel programma, sarebbero tacciati da noi di vero e proprio comunismo. Programm of the Land Tenure Association, with an exepla nalory statement, by John Stuart Mill. London, 1871. Si dice, per esempio, che il valqre della terra va sempre crescendo, non solo in conseguenza del lavoro e del capitale adoperato, ma ancora in conseguenza dell’aumento di popolazione e della pubblica ricchezza, e guest’ultimo aumento appars tiene allo Stato, che deve rivendicarlo, per l’avvenire, con una imposta speciale sulle terre, acquistando, al prezzo corrente, quelle dei proprietarii, che preferissero venderle, piuttosto che pagare la nuova imposta. Io cito queste proposte d’uomini eminenti, solo come segni del tempo; non posso qui esporle più minutamente, né discuterle; sono questioni che richiedono un assai largo e scientifico esame. È un fatto però che l’agitazione degli operai tira dietro a sè quella dei contadini. Ora se l’Italia può sperare di sopire la prima, per la debolezza della sua industria, deve pur riconoscere che, essendo essa un paese dove poco meno d’un terzo della popolazione è di agricoltori, se il fuoco s’appiccasse da questo lato, l’incendio potrebbe divenire spaventoso.
I moti poco fortunati degli operai potrebbero servire a trasmettere la scintilla, e allora i più miseri d’ogni condizione si commoverebbero tutti. Lo spirito di setta e di cospirazione, che non è ancora spento fra noi, respinto dal campo politico, troverebbe nelle questioni sociali un terreno fecondo per seminarvi idee sovversive. E se la lotta fra la Chiesa e lo Stato divenisse ancora più viva, il clero potrebbe trovare nel contadino un alleato potentissimo. In Germania il partito cattolico già tenta con una tale alleanza di sollevare le moltitudini. Se questo giorno arrivasse anche per noi, pagheremmo allora a ben caro prezzo tutte le colpe della nostra indolenza e della nostra imprevidenza.
Ma si può chiedere: — Perché mai deve arrivare per noi questo giorno? Stanno forse i contadini peggio di prima, non furono e non sono sempre tranquillissimi? Quali segni ci permettono di annunziare futuri danni? — Noi potremmo rispondere che le condizioni dell’Europa sono ora mutate, e possono dare stimolo ed eccitamento nuovo alle nostre plebi; che la persistenza del brigantaggio è una prova patente, che c’ è fra di noi una questione sociale, e di pessima natura; che i primi segni degli scioperi sono seguiti quando nessuno gli aspettava; che la grande emigrazione manifestatasi improvvisamente in alcune province è un segno chiaro che già le popolazioni cominciano a cercare un modo qualunque per sfuggire alla miseria. Ma vogliamo piuttosto osservare che certi pericoli il dispotismo li sopprime, e la libertà li ridesta.
Abbiamo visto in Germania come la questione è sorta rapidissimamente, insieme con la nuova libertà e con la subita fortuna del paese. Il progresso risulta solo dal libero svolgimento di tutti gl’interessi, di tutte le passioni legittime che lottano fra loro. Le opportune e continue riforme pongono un argine a questo fiume impetuoso, che pur deve correre; e solo così può impedirsi che si cada, per troppo impeto, nell’anarchia, o si torni, per troppa inerzia, nel dispotismo. Senza dunque voler punto esagerare, si può dire che siamo in presenza di un grave problema. Una parte troppo grande della popolazione italiana è quasi abbrutita dalla miseria, dalla oppressione e dall’abbiezione in cui si trova. E questa medesima abiezione la mantiene tranquilla. Ma il suo stato presente costituisce una debolezza enorme pel paese. L’industria, l’agricoltura, il commercio non possono progredire; la ricchezza non aumenta come dovrebbe, e, quello che è più, lo stato intellettuale e morale del paese non si solleva: questa è una macine ai nostri piedi. Se un giorno noi fossimo trascinati in una guerra, la sorte delle battaglie dipenderebbe assai meno dal buono ordinamento militare, che dalla forza intellettuale e morale che avremmo saputa infondere nelle nostre campagne. Noi perciò siamo tutti concordi nel voler mutare questo stato di cose,, sentiamo ogni giorno più vivo il bisogno e il dovere di diffondere l’istruzione, ed apriamo le scuole; ma esse non giovano punto in mezzo ad un popolo, di cui una parte è cosi abbrutita, un’ altra resta indifferente dinanzi a tanta miseria.
Se le cose persistono in questo stato, avremo fatto degli sforzi vani, e non vedremo mai trasformarsi il paese. E se, invece, aiutati dalla nostra persistenza e dalla naturale intelligenza del nostro popolo, riuscissimo pure ad istruirlo, senza, averlo educato, senza aver migliorato le sue condizioni; allora da un tale disequilibrio di forze morali, intellettuali e sociali, nascerebbero inesorabilmente i pericoli di cui abbiamo parlato. Ricordiamoci della storia di Roma, e vedremo che l’Italia non è nuova a questi pericoli; guardiamo agli Stati d’Europa, e vedremo che la società moderna non è libera da queste minacce. 0 noi dunque dobbiamo lasciare il popolo nella sua ignoranza, o, per istruirlo davvero, dobbiamo anche educarlo, e migliorare le sue condizioni economiche e sociali. Ed è in questo senso che io dico: la questione delle scuole è per noi anche una questione sociale.
Io comprendo la enorme difficoltà del problema; ma quando leggo quel che poterono fare nel passato secolo, per migliorare le città e le campagne, i Principi riformatori, aiutati dai nostri scrittori; quando ricordo che Pietro Leopoldo in poco tempo mutò le condizioni della Toscana, non capisco davvero, perché ad un popolo libero debba riuscire impossibile continuare l’opera già iniziata, e fare di più. Nella stessa Italia noi vediamo, accanto a popolazioni che vivono nell’abbiezione, altre che sono comparativamente agiate. E se abbiamo nel contado forme di contratto che opprimono l’agricoltore, e rovinano l’agricoltura, ne abbiamo pure altre (e fra queste citammo già la mezzerìa) che ci fanno vedere l’agricoltura pròspera ed il contadino agiato.
L’esperienza dell’enfiteusi, per creare la piccola proprietà, ha dato e dà i resultati che tutti conoscono. Dev’egli dunque essere impossibile chiedere al nostro medesimo paese i suggerimenti per ricominciare una riforma tanto necessaria, e chiedere alle nostre tradizioni stesse, alla scienza ed alla esperienza dei secoli, le cognizioni necessarie a continuarla e perfezionarla ancora di più? Una nuova legislazione rurale, una magistratura che tutelasse il contadino contro gli arbitrii del padrone, non furon chieste in Italia prima che in Inghilterra? Non le chiedeva per la Lombardia l’onorevole Jacini fin dal 1855, e non sono oggi necessarie quanto allora? Basta che si cominci a metter mano all’opera, riflettendo che se, nella soluzione degli ardui problemi economici e sociali, il cavare dalla terra e dall’industria il maggiore prodotto possibile è uno scopo essenziale, v’è pure un prodotto più prezioso di tutti, che si chiama tiomoy e che non bisogna dimenticare, come facemmo troppo spesso. Noi abbiamo la grande fortuna d’avere un popolo buono, docile, quieto. Se ci vedesse solo occupati seriamente a cercare il suo bene, e desiderarlo davvero, basterebbe ciò a sollevarlo, a darci un’ immensa autorità morale sopra di esso, ed a difendere la nostra società dagli assalti di pericolose idee, che una propaganda assai attiva già diffuse altrove e cerca diffondere fra noi, con vane speranze e più vane promesse.
Ed ora concludo. Io non ho voluto negare l’importanza delle riforme scolastiche, che credo anzi grandissima ed urgente. Dico solo che il Governo deve mirare ad un sistema scolastico, che stia innanzi a tutto in armonia con se stesso, e non si contraddica nelle sue varie parti.
Questo sistema deve anche essere in armonia coi bisogni del paese, e mutare con essi. Ma aggiungo che una vera e proficua riforma della istruzione non sarà possibile, fino a che essa non diverrà una parte integrante del programma di tutto un Ministero; fino a che non se ne farà, come si dice, una questione ministeriale; fino a che tutti i Ministri non saranno persuasi che, nelle loro varie leggi, nessuno può del tutto perdere di vista questo scopo. Io vedo che la legge sulla istruzione quasi obbligatoria, che gl’Inglesi, dopo averla tanto combattuta, hanno adottata, è venuta in conseguenza della riforma elettorale, ed ambedue hanno reso sempre più necessario il migliorare la condizione dell’operaio e del contadino, di che ora si occupano tutti. Ricordo che quando a Berlino, non ha guari, si discusse la riforma dell’esercito prussiano, vi fu una tempestosa discussione, quasi una vera battaglia parlamentare, solamente perché si disputavano le conseguenze che avrebbe potuto portare nella cultura del paese il tenere gli uomini in caserma un anno di più o di meno. Chi oserebbe fare da noi una tale osservazione al Ministro della guerra, e chi piglierebbe sul serio una tal questione? Noi andiamo ricostituendo le finanze del paese, votiamo leggi sopra leggi, imposte sopra imposte, senza mai chiedere a noi stessi, se una imposta invece di un’altra può essere più dannosa alle condizioni economiche, intellettuali e morali del popolo. Per noi è stata solo questione di entrata ed uscita; il pareggio finanziario ci ha sempre fatto dimenticare il pareggio morale.
Tutto il vasto ed immenso problema della istruzione e della educazione morale dv un popolo uscito appena da una schiavitù secolare ci è sembrato un problema tecnico da affidarsi ad un uomo speciale, e da lasciarlo risolvere solo a lui. E così il Ministro della Pubblica Istruzione rende immagine d’un moscone chiuso sotto una campana di cristallo, che crede di far gran cammino, perché si agita molto. Egli deve, in questa posizione, cercare la nuova legge che non si trova mai, e quando crede d’esservi riuscito, s’accorge subito che essa lascia il tempo che trova. Il suo officio è ogni giorno meno considerato, e le sue cure incessanti ottengono il resultato stesso che ottiene più d’un professore d’italiano nei nostri Licei, il quale, dopo essersi dato gran pena a correggere lo stile de’ suoi alunni, s’accorge che i colleghi pensano a sciuparlo, non potendosi occupare di ciò che non è la loro materia.
Ma perché si muova una volta il Governo, bisogna che cominci a muoversi il paese; giacché nel Governo costituzionale il Ministero segue la pubblica opinione, e le leggi sono fatte dalla rappresentanza nazionale. Bisogna che la classe agiata e intelligente cominci a sentire fortemente, che ii suo primo dovere è di dare non solo l’alfabeto ed il pallottoliere al povero lazzarone ed al contadino; ma un tetto, ma l’aria pura e la luce, un tozzo di pane, un mestiere. E più di tutto bisogna che dimostri di volere con amore occuparsi di loro, e li sollevi da quella miseria che gli opprime, da quel pensiero di cui parlava la povera vedova di Nuova York:
— Ci eravamo persuasi che nessuno pensasse a noi, e che avremmo trovata carità solo nell’altro mondo. — L’occuparsi di questo problema avrebbe sul paese intero, e principalmente su di noi stessi, un effetto intellettuale e morale più benefico d’ogni riforma scolastica. Il bene giova più a chi lo fa che a chi lo riceve. Il bisogno di studiare le vere condizioni delia nostrà società ci condurrebbe all’esame d’un numero infinito di problemi economici, sociali, morali, intellettuali; ci condurrebbe a tentare mille esperimenti che solo i privati possono iniziare, perché v’è bisogno di un’azione diretta dell’uomo sull’uomo, perché la vera carità non può essere l’opera d’un ente impersonale come lo Stato, il quale può seguire i dettami sicuri dell’esperienza e della scienza, ma non può darsi a fare quegli esperimenti che pur sono necessarii a trovarli. Questo studio promosso dallo stimolo sempre potente del bene ci farebbe, io credo, ritrovare nella nativa forza del genio italiano quella originalità che il voler sempre imitare ci ha fatta smarrire, ma non perdere le più grandi scoperte, i più grandi genii sono nati spesso da questo ardore del bene; sorgono quando sono divenuti necessarii, quando il mondo ne ha bisogno, ed il nostro bisogno è ora grandissimo e sentito da tutti.
Io non m’illudo a segno da credere che in Italia i privati possano fare le veci del Governo, o che questo, una volta sospinto da noi, non troverebbe difficoltà enormi se volesse proporre una serie di leggi, che portassero una generale riforma nel paese. La redenzione d’un popolo è stata sempre un’ opera lunga, difficile, non senza pericoli.
L’egoismo ignorante, sostenuto dai pregiudizii di teorie decrepite, farebbe una guerra atroce, perché i sacrifizii non piacciono a molti. Ma se l’ora dei sacrifizii non incomincia, quella della vera libertà non può sonare. Potremmo avere di essa solo un’ ombra effimera e fittizia: le leggi, i codici, i regolamenti, tutto quello che si scrive sulla carta, nulla di ciò che è nello spirito, e che solo può redimere. E saremmo sempre a chiedere: Perché ancora restiamo immutabili, dopo aver tutto mutato? Ma io ho fede grandissima nei destini del nostro paese. La società e la scienza si commuovono intorno a noi; nuovi pericoli appariscono, sebbene ancora lontani, sull’orizzonte; ed il buon senso pratico non è mai mancato agl’Italiani, spesso anzi, quando più sembràva sopito, s’è destato a un tratto, per fare miracoli da maravigliare il mondo. La speranza quindi deve essere tanto maggiore, quanto più s’avvicina e stringe il bisogno. Ed a chi chiede ogni giorno con premura crescente: Che si può fare per meglio istruire ed educare il popolo, per renderlo più morale? possiamo, senza esitare, rispondere: Noi abbiamo un gran dovere da compiere verso questo popolo. Compiamolo. La morale s insegna coi fatti e non con le parole.
APPENDICE
(Aggiunta da Zenone di Elea – 16 Agosto 2013)
Le lettere del 1861 inviate da Pasquale Villari al Direttore de La Perseveranza di Milano
LETTERE MERIDIONALI (1861)
di Pasquale Villari
1. Disordine amministrativo e partiti
2. Le ragioni di un malcontento
3. Gli errori del Governo
1. Disordine amministrativo e partiti
Ieri e ieri l’altro sono giunte nuove forze dall’Alta Italia. Si dice che vadano a dare il cambio a quei soldati che già da tre mesi menano una vita piena di pericoli e disagi, e sono condannati ad un’opera utile e necessaria, ma certo la più ingrata che potesse mai toccare al cuore generoso del soldato italiano.
Per un momento abbiamo visto la città piena d’uniformi, il giorno appresso erano scomparsi; ognuno era già andato al luogo destinato. Ma nell’eseguire questo scambio vi sarà un momento, in cui i due contingenti si troveranno contemporaneamente nelle province meridionali, e quello servirà ad un tempo per dare l’ultimo crollo al brigantaggio e porre in atto la coscrizione. Voi vedete che il generale Cialdini non se ne resta inoperoso; e il suo nome è assai popolare fra di noi, la sua severità è giudicata da tutti necessaria; nelle province, tutti ripetono che l’ordine di ristabilisce rapidamente.
Ma se io vi dicessi che tutti sono contenti, io v’ingannerei. Il disordine amministrativo ha portato un ristagno ed una confusione grandissima negli affari. Coll’accentramento, che progredisce ogni giorno, questi affari dipendono sempre più da Torino; ed il governo centrale, per se stesso non molto rapido e ordinato, non può operare con prontezza ed energia, a cagione degli estesi poteri del Cialdini, che non è uomo da tollerare impacci alla sua volontà.
Noi certo non siamo in condizioni normali, ed è assai desiderabile che queste province comincino una volta a gustare i frutti del buon governo e della libertà. Il ministro Peruzzi si adopera a tutt’uomo per darci i lavori pubblici, che son cose per noi di prima necessità; ma finora ancora si può dire che non abbiam fatto nulla. La città e le provincie sono sempre nelle stesse condizioni.
Procede con qualche alacrità il lavoro per la divisione dei beni demaniali. Sono andate già da più tempo delle commissioni di magistrati, i quali hanno dato opera al lavoro. Le usurpazioni a danno del popolo erano state scandalose. Si temeva che i contadini non avrebbero avuto la pazienza di attendere l’onesta ripartizione e che avrebbero voluto fare una giustizia con le proprie mani: ma le cose finora procedono tranquillamente. Il popolo ne riceverà qualche sollievo, ma sarà minore dell’aspettativa. La povertà li opprime, e quando essi avranno nelle mani un fondo, che i più non potranno coltivare, e pel quale debbono anche pagare un piccolo canone, lo venderanno ai più ricchi e la proprietà ripartita sarà di nuovo cumulatat uso che la legge loro vieta; ma l’astuzia degli avvocati li aiuterà a trovare il modo d’evaderla.
La cosa veramente indispensabile alle nostre provincie sono le strade, le opere pubbliche. Potreste mai credere che Potenza, città capitale di una delle più vaste e popolose provincie, ha solo 15.000 abitanti, una sola strada in cui le acque siano incanalate e che sia ricoperta di lastre? Il grandissimo numero delle case non ha recessi d’immondizie, e quindi potete immaginarvi in che condizione si trovino le strade. Se questo avviene a Potenza, che cosa deve seguire nelle minori città?
Ma ora, tornando a Napoli, debbo dirvi che ieri e ieri l’altro si continuava a ragionar sempre della destituzione dell’avvocato Tofano, consigliere di Corte suprema, in missione di presidente della Corte criminale.
Molte sono le dicerie su questo fatto, e la lettera del Tofano, con cui chiede la pubblicazione del rapporto, che precede il decreto, non ha fatto buona impressione. E’ una calma eccessiva, troppo grande per essere vera.
Che il Tofano fosse uomo leggero, facile a parlare e a dire quello che era meglio tacere, tutti sapevano. Che non andasse a verso a molti è vero, e che avesse,mandato troppo per le lunghe il processo Cajanello è cosa che anche s’è detto. Ma tra questo e l’avere una condanna, che per un uomo di onore equivale ad una condanna di morte, c’è un abisso. Questa condanna si poteva dare senza giudizio? Qualunque fosse la colpa del Tofano, era giusto colpirlo senza prima ascoltarlo? Non poteva il governo di Torino mostrargli le carte che ha trovate, e che sono tanto a suo carico (come si dice), per udirne una risposta? Il colpire a questo modo un uomo, noto nell’emigrazione, e che aveva una delle prime cariche nella magistratura, non è porre una macchia sul partito liberale e sulla magistratura?
Questo dicono alcuni. Altri rispondono che il governo ha avuto in mano lettere del Canofari, ministro di Napoli a Torino, che rivelano i fatti d’una gravità tale che non poteva permettere alcun indugio. Si dice che queste relazioni col Canofari continuassero fino alla campagna nelle Marche; e che di più si trovi anche una lettera del Tofano a Ferdinando II, nella quale domanda di ritornare a Napoli, con termini tutt’altro che dignitosi, a molti non era piaciuto.
Dicesi che il figlio di Cajanello, non avendo potuto indurre il Tofano ad assolvere il padre, avesse per vendetta rivelato l’esistenza delle carte, di cui aveva notizia, essendo stato nella diplomazia.
Intanto il Popolo d’Italia grida che tutto quello che si è fatto non basta, che ci vogliono altre destituzioni, e la pubblica voce, esagerando, dice che v’è una lista di altri quarantadue magistrati da rimandare a casa.
Ora potete capire che, fino a quando dura un tale stato di cose, non si può dir veramente che magistratura vi sia. Potranno coloro che hanno quest’incubo sul capo esser affatto severi ed affatto imparziali nei loro giudizii? Io non voglio entrare nelle intenzioni del governo; ma se è necessario il farlo, che almeno si faccia presto, per togliere il paese da quella continua febbre che lo travaglia, lo sfibra, lo lacera.
In questo momento lo scontento maggiore è fra quelli che sono chiamati della consorteria, in gran parte gente distintissima, che ha vissuto in esilio. Voi potete accorgervene dal Nazionale, che ha cominciato a fare opposizione piuttosto vivace al governo, il quale ha già ricusato le copie che prendeva finora. Il nuovo giornale che voleva farsi, La Patria, doveva anch’esso rappresentare il medesimo gruppo che, trovandosi in una nuova posizione vorrebbe un giornale, il quale non avesse un passato, che a Certo è che la consorteria si trova fuori d’azione. Cialdini, vedendo la impopolarità in cui, a torto o a diritto, molti di essi erano caduti, ha pensato meglio appoggiarsi un poco più a quel partito che alcuni chiamano garibaldino, altri d’azione, e le nomine di Fabrizi, Tripoti, Motina, ecc., lo provano abbastanza.
Costoro, senza dubbio, son gente più attiva dei consorti o degli esuli, e per aiutare a distruggere la reazione e il brigantaggio saranno più efficaci. Ma saranno essi buoni impiegati e buoni amministratori? Potranno forse mettere il governo in nuovi pericoli, quando sarà pacificato il paese? Per ora abbiamo i moderati del Nazionale scontenti; ma i loro lamenti son sempre deboli e sottovoce. Invece v’è una massa di gente che approva, e che trova in questi fatti una compiacenza che non nasconde. Ma vorrei che il Cialdini non s’illudesse per ciò. Fra noi chiunque sale al potere diventa impopolare. La consorteria fu odiata, principalmente, perché potente. La massa del paese non parteggia né per questi, né per quelli.
Il partito d’azione, poi, non si può dire che sia veramente un partito fra noi: la sua popolarità nasceva dall’odio alla consorteria e dal nome di Garibaldi. Il popolo non chiede altro che giustizia, buona , amministrazione ed ordine. Il medio ceto di certo non parteggia per coloro che, se riuscissero veramente ad afferrate il potere, si troverebbero d’essere una consorteria più attiva, ma più incapace e meno numerosa dell’altra. In ogni modo, consorteria o no, partito dell’ordine o partito d’azione, tutti convengono in una cosa: che Cialdini adesso è un uomo necessario e che ha preso il verso per pacificare il paese.
Napoli, 1 settembre 1861
2. Le ragioni di un malcontento
Io debbo notarvi un visibile miglioramento nello spirito pubblico di queste provincie. Se altro segno non avessimo avuto che la festa di Garibaldi e quella di Piedigrotta, già sarebbe abbastanza. Popolo, governo, guardia nazionale, municipio hanno gareggiato in attività, ordine, entusiasmo. La guardia nazionale di Napoli è stata davvero ammirabile, instancabile nell’adempiere il suo dovere.
Chi ha veduto con quanta semplicità e prestezza, con quanto gusto e splendore, e con una spesa infinitamente inferiore a quella delle feste del passato anno, che il municipio condusse così male; chi ha veduto tutto questo, s’è potuto persuadere che v’è un grande miglioramento nel municipio, nel suoi architetti, nei suoi impiegati. Chi ha poi visto il popolo, e ha letto i ragguagli delle provincie, s’è potuto confermare che l’opinione pubblica e la pubblica amministrazione hanno sempre migliorato.
Queste feste però non sono l’unico segno che mi fa credere la pubblica opinione migliorata, e la fiducia nel governo cresciuta.
Io lo attingo dai discorsi che sento ogni giorno per le vie, nelle case, dal popolo minuto, dalla gente culta, dai ricchi. Alcuni mesi sono, prima della venuta del Cialdini, qui la reazione era divenuta baldanzosa in modo che andava a testa alta, e non si vergognava, né temeva di parlar chiaro.
Più tardi s’è cominciata a sgomentare; ma la venuta di molti impiegati dell’alta Italia, i quali, bisogna confessarlo, venivano con soldi e con indennità maggiori di quelli che avevano i napoletani chiamati fuori, faceva gridare contro al piemontizzare. Aggiungete che una parte della stampa, specialmente moderata, ha tanto gridato contro i vizi del popolo napoletano, che questi impiegati venivano pieni di sospetti e di paure, si tenevano lontani dal popolo, lo trattavano con poca deferenza, e perciò v’era una irritazione, vi assicuro, grandissima. I napoletani sono espansivi ed affettuosi, nulla più li irrita e li stizzisce che vedersi corrispondere con freddo contegno alle loro eccessive espansioni e soverchia familiarità.
Ma a me è avvenuto discorrere con alcuni piemontesi e lombardi (questi ultimi assai più facilmente s’avvicinano ai napoletani); e quando essi erano a Napoli da qualche mese, mi dicevano: In verità noi non vediamo poi tutta questa corruzione di cui ci hanno parlato. Pareva che dovessimo venire in un altro mondo; ma, in fin dei conti, noi diciamo il vero, noi troviamo qui un popolo buono, docile, affettuoso, chiamato ingovernabile e che è governabilissimo. Questi discorsi mi teneva fra gli altri un tale, ch’io sapeva essere stato appunto un corrispondente di giornali, che più si mostravano feroci contro i napoletani. Avevo letto i suoi articoli pieni d’accuse, sapevo che era uomo da non dire quello che non pensava; e questo mutamento che osservavo in lui era sincero e l’ho veduto ancora in molti altri.
Così è avvenuto che comincia a nascere una certa vicendevole fiducia, e questa dà luogo alla simpatia ed all’amicizia, e comincia un poco a calmarsi quella misera irritazione, in cui i giornali del partito d’azione soffiavano instancabilmente.
Essi, bisogna dire il vero, hanno fatto prova di molta accortezza; e sono riusciti ad acquistare molto ascendente sul popolo più monarchico della terra, sopra un popolo che non sogna neppure dove questi giornali lo vorrebbero condurre. IL un fatto positivo che i giornali dell’opposizione si vendono assai più dei governativi, è un fatto che qui l’estrema destra è, per dir poco, antipatica. Io lo dico con dolore, ma bisogna pur dire la verità: le dimostrazioni, che ebbero luogo contro alcuni deputati e senatori non furono punto disapprovate dal pubblico. Ve lo prova anche la lettera di Cialdini diretta ad alcuni di quei medesimi deputati e senatori.
Ora se voi mi chiedete da che nasce tutto questo, io vi dirò che v’ingannate assai se credete che ne sia causa la loro affezione al governo o all’unità italiana. La cagione è un’altra. lo son ben lungi dallo scusare le intemperanze napoletane; ma debbo confessarvi che le cagioni con le quali hanno traviato queste moltitudini non sono così vergognose come paiono a molti. Con molto piacere ho dovuto osservare che i napoletani sono assai affezionati al loro paese; essi vogliono l’Italia, ma non credono (e hanno ragione) che Italia voglia dire umiliazione di Napoli; essi-vogliono che l’Italia sia tutto, ma che Napoli resti qualche cosa.
Ora noi dobbiamo convenire che, mentre la stampa moderata ha-messo a nudo, ha esagerato le piaghe di questo paese, qualche volta lo ha anche calunniato; mentre questo faceva la stampa moderata, quella del partito d’azione, sia per convinzione, sia per opposizione, ha sempre difeso questo popolo.
Se v’è da notare qualche atto generoso, se v’è da respingere una ingiusta accusa, se v’è da dire una parola d’incoraggiamento ai napoletani, certo voi la trovate assai più facilmente nel Popolo d’Italia e nel Diritto, che nel Nazionale. Queste cose hanno fatto una grande impressione sui napoletani, essi l’hanno profondamente sentito, e bisognerebbe che la stampa moderata ne tenesse conto.
Certo bisogna rispettare il carattere di deputato come sacro e inviolabile. Ma io domando: R egli vero che alcuni di essi hanno umiliato il paese coi loro inopportuni lamenti? Non abbiamo noi udito qualche volta un rappresentante del popolo gridare nel parlamento presso a poco cos -Dateci pane e morale? A queste parole io vidi a Torino molti piemontesi fremere di sdegno; è egli strano che i napoletani abbiano concepita una grande antipatia per coloro che tennero alla tribuna o nei giornali un tale linguaggio? Credete voi che qui si giudichi Ricciardi diversamente da quello che lo giudicano tutti: onestissimo e stranissimo? Credete che gli applausi da lui riscossi fossero diretti alle sue stranezze e al suo partito?
Non già, si applaudiva in lui un uomo che volle generosamente protestare contro alcune parole che troppo umiliavano il nostro paese, parole che tendevano a porre diffidenza invece di fiducia fra tutti gli italiani. Voi potete dissentire dalle mie opinioni; ma io credo d’essere un interprete fedele delle opinioni napoletane.
Che poi il popolo, trascorrendo, sia andato in eccessi riprovevoli, che abbia commesso atti indegni verso uomini per ogni.lato rispettabili, chi lo può scusare? Ma questo vi spiega come mai qui è nata una confusione di lingue, e perché voi vedete così spesso uomini moderatissimi parteggiare con gli uomini che si dicono del partito &azione.
Inoltre qui v’è stata per un tempo una spaventosa furia di distruggere senza riedificare: e quel che è peggio non è ancora finito. Pareva che si volesse levar tutto a Napoli.
Oggi per esempio, noi abbiamo sciolta a riordinarla; chiuso l’Accademia delle scienze, senza che ancora si pensi l’Istituto di Belle Arti, mentre si pagano tutti i professori; per l’istruzione secondaria, in una città di 500.000 anime, non abbiamo che un liceo di circa 60 o 70 alunni, e questo con un ministro della pubblica istruzione napoletano intelligente e pieno di buon volere. Voi potete da ciò immaginare quello che s’è fatto nel resto. La colpa non è certo dell’abile ministro, ma nell’andamento generale delle cose.
Che vi può dire quello che oggi avviene nella magistratura? Io non voglio entrare nei particolari, non voglio nominare alcuni magistrati destituiti, tenuti generalmente uomini onesti e capaci non solo, ma che furono certo fra quelli che si adoperarono molto, nelle condanne politiche, a salvare la vita a più d’uno fra i quali lo stesso Pironti. Ma sia pure che la magistratura deva essere tutta mutata, sia pure che chiunque ha preso parte nei processi politici, o ha firmato la petizione per togliere la costituzione debba essere destituito. Sia pure.
lo vi domando questo: sono quindici giorni che si parla seriamente di una lista d’altri 42 magistrati da destituire, e si aspetta sempre. Ieri l’altro camminavo per Napoli, ed incontrai un amico, un uomo dei più onesti, dei più probi che abbia mai conosciuti in vita mia, un emigrato che non ha impiego, ma fa l’avvocato. L’incontrai per via, e pareva oppresso da qualche recente sventura. “Che hai? ” gli diss’io. ” Cosa vuoi vengo dal tribunale, ove difendevo una causa, ed il procurator generale s’è accostato a me col cappello in mano, e quasi piangendo mi si raccomandava. Egli ha sette figli, nessun bene di fortuna, ed è minacciato d’esser nella nota dei 42. lo ti domando: Fino a che duriamo in questo stato, potremo noi avere amministrazione della giustizia? Che facciano una volta quel debbono fare, e smettano di travagliare questo misero paese di mutatazione in mutazione”.
In verità, noi abbiamo mille volte letto, nei giornali esteri, che le condizioni presenti delle provincie meridionali sono una prova che esse erano poco mature all’unità nazionale, che esse non comprendono e non vogliono l’Italia. Ma se quegli scrittori avessero avuto la bontà di venire qui a studiare il paese, e se avessero visto quanti errori si sono commessi dai governanti; se avessero – visto in che modo queste popolazioni sono ignoranti, che non vedono oltre il presente, che non possono indovinare i futuri beneficii del governo italiano;
se avessero visto in che modo sono state travagliate, sconquassate, lacere da una serie continua di mali inevitabili sì, ma pur gravissimi, venuti dalla rivoluzione in poi; se avessero visto che sperpero del pubblico erario, che miseria, che fame li ha travagliati; quanti luogotenenti, governatori, generali si sono mutati, quante, dirò ancora, forme di governo abbiamo avute in un anno solo senza che ancora abbiamo finito; se tutto questo avessero veduto, e fossero poi andati nei più umili tugurii, ove per la prima volta in vita sua, il lazzaro napoletano canta canzoni italiane in lode dell’unità d’Italia; e se avessero un bel giorno interrogato tutto questo popolo come s’è fatto il 7 settembre, e per tutta risposta avessero udito, come abbiamo udito noi, un grido unanime: Italia e Vittorio Emanuele, a Roma, a Roma; forse che allora le conclusioni di codesti giornali sarebbero alquanto diverse.
Per ora pongo fine a questa lettera, già lunga. In altra mia cercherò d’esaminare più da vicino le cagioni dello scontento, che ancora non è cessato.
Napoli, 13 settembre 1861.
3. Gli errori del Governo
Le cagioni del continuo scontento nelle provincie napoletane sono molte e diverse; ma si possono ridurre principalmente sotto due capi: cagioni che vengono di fuori, cagioni che muovono dalle condizioni interne delle provincie stesse.
Se ci venisse chiesto quale era il carattere principale del passato regime borbonico? Noi diremmo: il governo, anzi il Re deve fare e volere tutto, il popolo non deve fare e non deve voler nulla, se non per mezzo del braccio e della volontà del governo. Se poi ci si chiedesse: quale è il carattere più notevole in questo popolo, dopo che il regime borbonico è caduto noi diremmo: la mancanza di fiducia in se stesso, la mancanza di una opinione pubblica ben determinata.
Il governo che, uscendo dalla rivoluzione, veniva a governare queste provincie, doveva assumere l’indirizzo di tutta la cosa pubblica; giacché sperare che un popolo, il quale s’era abituato a credere che il governo era tutto, potesse, persuadersi che il popolo è tutto, che esso deve provvedere a se stesso, era per lo meno strano. Questa è la cagione per cui tante di quelle leggi, di quei provvedimenti utili a Torino, a Milano, a Firenze, sono riusciti non solo inutili, ma funesti a Napoli. Questa è la ragione per cui tanti di quegli uomini, che erano così felicemente riusciti nell’alta Italia, vi sono fra di noi logorati in ventiquattr’ore.
Ma di ciò non bisogna muover grave accusa al governo, giacché il reggere, non dirò con ordini, ma con modi liberi queste provincie, è cosa d’una difficoltà spaventevole, ancora quando il governo si fosse deciso ad assumere l’indirizzo d’ogni cosa.
La difficoltà vera non sta nella intemperanza, nella rozzezza, e nella poca morale, tanto predicata; ma sta appunto in quella mancanza di pubblica opinione, di cui abbiamo parlato. Questa immensa città di Napoli (e com’essa è, così le provincie) non forma per così dire un corpo solo. Essa è frazionata in mille gruppi, che hanno pochissimi rapporti fra loro, che non si vedono, non si conoscono, e, se si conoscono, son fra di loro gelosi come le antiche corporazioni. Gli abitanti d’un quartiere vivono diversamente da quelli d’un altro, e un popolano di Monte Calvario si distingue uno di Porto o Mercato dal modo suo di vestire. Così non vi sono partiti politici, ma piuttosto gruppi o, per dir la parola consorterie. Nella gran massa è penetrata l’idea d’Italia, v’è un amore frenetico per Garibaldi: essa non chiede altro che tranquillità e giustizia, ma d’altro non si cura.
Ogni volta che è giunto un nuovo luogotenente, esso veniva sempre con le migliori intenzioni del mondo; voleva contentare il paese. Ma qui è stata sempre la difficoltà. Si è detto: dunque il paese è incontentabile. Ma non è precisamente così.
Appena veniva, il nuovo luogotenente incerto, dubbioso, diffidente per le tante cose udite o lette, pei tanti naufragi che lo avevano preceduto, cercava con scrupolosa coscienza esaminare quali erano i veri bisogni, i veri desiderii del paese. Ma come fare a saperlo? Qui non vi sono nomi conosciuti e stimati nella universalità, non solo di tutte le provincie, ma neppure della stessa città di Napoli.
Vi sono molti uomini, probi, onesti, capaci: ma conosciuti solo nella loro consorteria. che li eleva alle stelle; mentre forse un’altra consorteria, senza conoscerli abbastanza, li disprezza e li accusa. Ne seguiva quindi che, non appena il caso, o una conoscenza personale, o informazioni ricevute a Torino ponevano il luogotenente in rapporto con alcuni di questi uomini, essi menavano seco quelli che più stimavano, cioè i loro amici, e non appena li avevano presentati tutti, cercavano chiudere il cerchio ed evitarne studiosamente l’ingerenza di altri. Questa non era malafede, ma è l’indole di tutte quante le consorterie del mondo. Qui il nome di consorteria si dà per antonomasia a quella della luogotenenza Farini, quasi tutti emigrati; ma si fa loro un torto, perché se essi girarono gl’impieghi fra i loro amici, lo stesso hanno fatto gli altri; e ripeto, era quasi una necessità portata dalla condizione stessa delle cose.
Quando adunque, questo cerchio di amici si era chiuso, cominciava lo scontento; gli altri uomini politici, che si vedevano messi da parte, gridavano; gli errori della consorteria cominciavano, ed allora il pubblico si univa ai gridatori, e si formava un’apparenza di opinione pubblica, che gridava la croce addosso ai governanti. Il luogotenente era richiamato, ne veniva un altro, che si affidava ad altri; ecco subito una seconda consorteria, coi medesimi errori, e le stesse conseguenze.
Perché cessi questo stato di cose, ci vuole del tempo: noi manchiamo non solo di strade ferrate e di strade comunali, ma nella città stessa l’andare da un quartiere all’altro è qualche volta un’impresa. La libera stampa, e soprattutto le riunioni dei consigli comunali e provinciali gioveranno moltissimo.
lo già posso assicurarvi che, a chi sa bene osservare, e non si lascia ingannare dalle prime apparenze, v’è un progresso infinito. Ma ci vuol tempo.
San Martino fu il primo luogotenente che s’accorgesse di questo stato di cose; egli volle vedere e ricevere tutti ugualmente. Questo lo rese subito l’uomo più popolare di Napoli. Ma egli era forse venuto troppo presto, e, amico della legalità in tempi anormali, fece sì che la reazione alzasse la testa. Ma lasciamo l’esame di un fatto che qui è fuori luogo. Se noi vogliamo avere una conferma di quello che abbiamo detto, dobbiamo osservare ciò che avviene adesso.
Cialdini è fra di noi assai popolare, egli ci ha salvato sul Volturno, a Gaeta, ora ci ha salvato dal brigantaggio. I nostri obblighi sono infiniti, il popolo li sente, ed ha grande simpatia pel cavalleresco generale. Pure vi sono molti che gridano, e sono scontenti, e sparlano del presente modo di governare. Chi sono, cosa vogliono, perché gridano?
Non appena il generale è venuto a Napoli, egli s’è avveduto di quella simpatia che la massa aveva per il partito esaltato, senza averne le opinioni.
Egli vide che molti erano irritati contro parecchi deputati e senatori della destra, perché credevano che essi non avevano saputo difendere nel Parlamento la dignità del loro paese. Per queste ragioni il partito moderato, che di sua natura non è molto operoso ed ardito, si trovava assai indebolito; mentre che la reazione alzava audacemente la testa.
Fu per queste ragioni che Cialdini pensò valersi del partito d’azione e del nome di Giuseppe Garibaldi, che ha tra di noi una portentosa popolarità. Ma cosa è mai avvenuto? Non appena Nicotera e i suoi furono bene accolti dal generale, non appena qualcuno di loro fu favorito ed impiegato, che anch’essi si sono accorti di essere una consorteria. E’ un fatto che, mentre a parecchi del partito d’azione s’apre la porta del palazzo di luogotenenza, essa è chiusa a molti della maggioranza parlamentare.
La lettera del generale ai signori Pisanelli, Vacca, Niutta e Bonghi può darvene una prova. E’ naturale perciò che alcuni gridino, si lamentino, si scandalizzino.
Quello che è peggio, non sono neppure compatiti; gli allontana il governo, e molti troppo ingiustamente li accusano.
Ma ciò che vi dimostra il gran progresso del paese, è appunto il poco interesse che si piglia a queste lotte di amor propri offesi. Il paese si avvede che non è col partito d’azione, che non è neppure con la consorteria dei moderati, e nondimeno è col governo. E invero Cialdini non si lascia poi gran parte dominare, sa quel che vuole, e va dove vuole. Tutto quello che ho detto finora vi spiega i fatti di certi clamori esagerati che sembrano annunziare la fine del mondo, mentre poi non ci siamo tanto vicini.
Ma se voi mi chiedete: al di sotto di questi clamori esagerati v’è una cagione vera di scontento e di malessere generale, oltre le conseguenze inevitabili dei mutamenti di governo e delle rivoluzioni? Allora io sarò costretto parlarvi di quelle cagioni di malcontento che partono dal governo. E quelle si possono ridurre a due.
1) Il governo ha avuto pochissima iniziativa, non ha compreso che bisognava, fin dal principio, assumere per qualche tempo l’indirizzo di ogni cosa, di ogni attività. Ha cominciato col credere questo paese simile affatto al resto d’Italia, ha preso delle misure che riuscirono dannosissime, come, per esempio, l’abolizione immediata di molti dazii, il rispetto ad una legalità troppo esagerata, il tenere in impiego un gran numero di borbonici, ecc.
E’ poi venuto, per reazione, ad altro eccesso; e s’è dimostrata una diffidenza strana verso i napoletani. Non solo si è creduto ma s’è anche avuto la poca accortezza di ripetere ogni ora che il Piemonte doveva moralizzare i napoletani, coll’infonder loro il rispetto di loro stessi. Invero, se ciò si doveva e si voleva fare, bisognava cominciare col rispettare, col dimostrare fiducia.
Non s’è fatto. Io posso assicurarvi che nei ministeri sono avvenute scene, per lo meno, indecorose. Sul principio s’è avuto forse troppo riguardo alle pretensioni napoletane: s’è finito poi col non averne alcuno. S’è distrutto, e non s’è mai edificato.
Voi fra poco sentirete una crisi commerciale. Moltissime fabbriche, che hanno tirato innanzi finora, sospenderanno i loro lavori per mancanza di commissioni. Speriamo che il municipio darà presto mano ai suoi lavori, e che le vie ferrate ci porteranno qualche aiuto.
2) La seconda serie d’errori governativi potrebbe dar materia ad una lunga dissertazione, che sarebbe inutile, perché sono quei medesimi errori che, in proporzioni infinitamente più piccole, avvengono, ove più, ove meno, in tutta l’Italia. Voglio dire il disordine amministrativo. Qui non v’è quasi impiegato che conosca le sue attribuzioni. I consiglieri di luogotenenza si lamentano di avere le mani legate, di non sapere quel che possono e quel che non possono. Il governo centrale grida che oltrapassano i loro poteri. Per ogni affare vi mandano da Erode a Pilato, e finalmente siete costretto andare a Torino, dove vi dicono che spetta al governo locale. In questo modo il governo si discredita, perché apparisce come poco serio agli occhi della moltitudine, e i suoi stessi funzionari sono sfiduciati e lo criticano. Ogni giorno incontrate, per via, gente incaricata di missioni indefinibili, incomprensibili. Ogni giorno si sente il nome di nuovi impiegati e di nuovi impieghi.
Andando di questo passo, le pensioni finiranno col mangiarsi le rendite dello Stato. Il ristagno degli affari è portentoso. L’altro giorno la cassa non pagava i vaglia postali; parecchi impiegati non hanno ricevuto i loro soldi, per mancanza di denaro sebbene avessimo ancora più milioni di moneta coniabile, che però non si conia.
Nondimeno, credete ad un osservatore imparziale, il progresso che si trova al disotto di sì gran disordine è grandissimo, e cresce ogni giorno.
Per queste ragioni mi duole assai di sentire che siamo alla vigilia di nuovi cambiamenti. Tra Cialdini e il governo centrale non pare vi sia perfetto accordo, e la conseguenza di ciò dicesi che sarà una più pronta cessazione delle luogotenenze.
Vorrei che misure politiche di tanta importanza non si pigliassero in conseguenza di mali umori. A quest’ora avrete letta la lettera del Cialdini al municipio di Napoli. Non ha fatto a tutti una bella impressione. Il municipio ha lavorato con molto zelo, è riuscito nell’operazione di un prestito, del quale il paese s’era mostrato prontissimo a concorrere.
Se il consiglio provinciale ha messo inopportuni ostacoli, non era colpa del municipio. Molte delle cose che il generale consiglia erano già fatte. E se, a proposito degl’indirizzi al Re, ed allo stesso Cialdini si sono perduti in questioni di lingua, e hanno voluto discutere se bisognava dire guardie da fuoco, o vigili, o pompieri, come si diceva fra noi, non era poi da farne gran caso. Ma io credo che lo scopo vero di quella lettera, sia stato piuttosto un rimprovero al consiglio provinciale. Del municipio finora dobbiamo lodare lo zelo, l’attività e la pratica degli affari.
Napoli, 14 settembre 1861
INDICE DEL VOLUME
PREFAZIONE Pag. I
Lettere meridionali al Direttore dell’Opinione (Marzo 1875). 1
I. La Camorra 3
II. La Mafia 20
III. Il Brigantaggio 39
IV. I rimedii 64 64
Lettera alla signora Jessie White Mario 77
Nota 85
La Scuola e la Questione sociale in Italia 89
Appendice 151
Ciò che gli Stranieri non osservano in Italia 174
Di chi è la colpa? 0 sia la pace e la guerra 199
Discorsi 253
Lettera all’avv. G. Scaravelli 313
APPENDICE (Aggiunta da Zenone di Elea – 16 Agosto 2013) 318
Lettere al Direttore della Perseveranza di Milano nel 861 319
1. Disordine amministrativo e partiti 319
2. Le ragioni di un malcontento 323
3. Gli errori del Governo 328
FINE