CONTINUA PARTE SECONDA
III.
IL BRIGANTAGGIO
Mio caro Dina,
Io suppongo il lettore persuaso già che la mafia abbia le sue radici principali nella campagna, e che a distruggerla sia necessario veramente migliorare la condizione delle migliaia d’agricoltori, che lavorano nell’interno dell’Isola i 77 % del suolo siciliano. E allora vedo subito nascere uno spavento e una diffidenza grandissima. Da un lato sento dire: Sono mali a cui non può rimediare che il tempo, la forza generale delle cose. Da un altro lato sento con maggior insistenza affermare: Volete dunque sollevare in Italia una quistione sociale? Fra i tanti nostri guai questo ci mancava ancora. Avevamo la pace interna, e voi vorreste ora scatenare su di noi cosi terribili calamità. Sarebbe davvero un gran delitto contro la patria, l’alimentare nei contadini speranze che non possono mai essere soddisfatte. Essi sono la classe di gran lunga più numerosa e meno civile; se si sollevassero, chi potrebbe loro resistere?
Prima di tutto bisogna bene intendersi su di ciò, perché queste opinioni molto diffuse hanno davvero impedito che la quistione venisse finora seriamente e chiaramente discussa.
Se per quistioni sociali s’intendono quelle che vediamo travagliare cosi crudelmente le altre nazioni, allora di certo ne siamo per fortuna liberi. Perché esse sorgano occorre che siasi già fatto un grande progresso nell’industria, nell’agricoltura e nel commercio; progresso che fra noi non esiste, e meno che mai in quelle province di cui ora più particolarmente ci occupiamo. Ma quando noi domandiamo che si porti qualche aiuto all’infima plebe di Napoli, che vive senza mestiere, vogliamo solo spingerla fino al lavoro ed all’industria; quando domandiamo che il contadino esca dalla sua condizione di schiavo, in cui trovasi in alcuni luoghi, vogliamo solo condurlo fino alla sua indipendenza. Là dove si cominciano a discutere pericolose teorie, siamo già fuori del nostro argomento. Che se per la possibilità che queste teorie sorgano, si dovesse rinunziare a promuovere il progresso morale e materiale delle popolazioni abbandonate e povere; allora solamente il tacere sarebbe dovere. Chi vorrà sostenerlo? Se però non abbiamo, né dobbiamo temere il socialismo, il comunismo e l’internazionalismo, è poi certo che non abbiamo alcuna quistione sociale, ma solo la pace interna per tutto? Non c’è quistione politica che progredisca davvero senza quistioni sociali, perché la mutazione del Governo senza una trasformazione progressiva della società sarebbe opera affatto vana.
E poi quale è la pace che abbiamo nelle province di cui si ragiona? Sono segni di ordine e di pace la camorra, la mafia ed il brigantaggio? A Zurigo, a Ginevra, in molte città della Svizzera, è ben vero, si sono più volte agitate le moltitudini con teorie sovversive, e sarebbe certo la più grande calamità se queste teorie si diffondessero tra noi. Ma nella Svizzera voi potete traversare di giorno e di notte monti, valli e boschi, senza quasi mai trovare un gendarme, e senza mai temere né per la vita, né per la vostra proprietà, se anche siete carico d’oro. Potremo proprio dire che ivi la pace sociale sia turbata, e che fra noi sia invece perfetta, quando pensiamo che in alcune delle nostre province non si può camminare senza essere circondato di guardie armate, e vi sono uomini che, in mezzo alla libertà, sono poco meno che schiavi?
E da un altro lato abbiamo noi esaminati tutti i danni di un tale stato di cose? La insurrezione è un pericolo; ma l’ozio, l’inerzia, il vagabondaggio e l’abbrutimento, sono un pericolo non meno grave, specialmente per un popolo che vuol esser libero. Il dispotismo si fonda sopra una società che lavora poco e spende poco; può quindi più facilmente tollerare l’ozio e l’abbrutimento; spesso ne ha anche bisogno per la sua sicurezza. Ma un popolo libero è invece un popolo che lavora e spende molto. Se noi avessimo prima trasformata la nostra società, per far poi la rivoluzione politica, non ci troveremmo nelle condizioni in cui siamo, appunto per aver fatto solo una rivoluzione politica, colla quale si sono mutati il Governo e l’amministrazione, non altro.
Le spese sono a un tratto immensamente cresciute, senza che la produzione cresca del pari. E questo stato di cose porta un deficit finanziario, il quale non sarà colmato neppur quando colle imposte avremo pareggiato le spese alle entrate. La più piccola scossa farà riapparire il disavanzo, e le economie necessarie, ma forzate, che faremo per alcuni anni, saranno a lungo impossibili, se vorremo accrescere il benessere materiale e morale. Ma da un altro lato neppure le spese saranno possibili, se un aumento di lavoro e di produzione non comincerà nel paese. È un circolo vizioso, di certo; ma è pur chiaro che, per andare innanzi, bisogna uscirne. E senza redimere quelle classi numerose che, nell’abbrutimento in cui sono, non lavorano punto o fanno un lavoro improduttivo, il problema non sarà mai risoluto. Questo è per noi non solamente un debito d’onore, ma è pure uri nostro interesse: noi non faremo mai davvero e permanentemente il pareggio finanziario, senza prima fare il pareggio morale.
II problema è più grave che non si crede. Se dentro o vicino alle città troviamo i mali più sopra esaminati, questi diventano maggiori nella campagna. Si pensi un poco che l’Italia è un paese agrario, e che i contadini sono più di un terzo della sua popolazione. Si pensi che la leva degli anni scorsi trovava che più del 60 °io nei coscritti erano agricoltori, e il censimento del 1861 dimostra che gli agricoltori sono assai più della metà della gente che in Italia esercita un mestiere, una professione, un ufficio qualunque, o sia più della metà della gente che lavora e produce. E allora si vedrà quanto sia importante esaminare la quistione anche da questo lato.
Il brigantaggio è il male più grave che possiamo osservare nelle nostre campagne. Esso è certo, com’è ben noto, la conseguenza di una quistione agraria e sociale, che travaglia quasi tutte le province meridionali. La Relazione scritta dall’on. Massari (Sessione 1863, N. 58 B, Atti del Parlamento) dice: «Le prime cause adunque del brigantaggio sono le cause predisponenti. E prima fra tutte, la condizione sociale, lo stato economico dei campagnuolo, che in quelle province appunto dove il brigantaggio ha raggiunto proporzioni maggiori, è assai infelice….» Il contadino non ha nessun vincolo che lo stringa alla terra. Mangiano pane «che non ne mangerebbero i cani», diceva il direttore del demanio e tasse. Nelle carceri di Capitanata, e cosi altrove, quasi tutti i briganti erano contadini proletarii. Le bande del Caruso e del Crocco, molte volte distrutte, si ricostituirono senza difficoltà con nuovi elementi; e in una medesima provincia si osservava, che là dove il contadino stava peggio, ivi grande era il contingente dato al brigantaggio; dove la sua condizione migliorava, ivi il brigantaggio scemava o spariva. Anzi nell’Abruzzo, per la sola ragione che il contadino, ridotto alla miseria ed alla disperazione, può andare a lavorare la terra della Campagna romana, dove piglia le febbri e spesso vi lascia le ossa, lo stato delle cose muta sostanzialmente. Questa emigrazione impedisce l’esistenza del brigantaggio, e prova come esso nasca non da una brutale tendenza al delitto, ma da una vera e propria disperazione.
«Il brigantaggio, conchiudeva l’on. Massari, diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie.» E nella Camera dei deputati, il 31 luglio 1863, l’on. Castagnola, che era stato pur esso membro della Commissione d’inchiesta, in un discorso assai notevole e pratico, confermava ampiamente le stesse conclusioni. Il generale Govone, interrogato sul perché le popolazioni dimostravano tanta simpatia al brigante, aveva risposto semplicemente: «I cafoni veggono nel brigante il vindice dei torti che la società loro infligge.» L’onorevole Castagnola era stato giustamente maravigliato di trovare in quelle popolose città due classi solamente, proprietarii e proletarii, o come dicono, galantuomini e cafoni. Si scende dal gran signore ai nullatenente, d’odio fra queste classi gli pareva profondo, sebbene represso. È il Medio Evo sotto i nostri occhi, esclamava egli nella Camera. Veniva poi ad esaminare le molteplici cause del brigantaggio, e concludeva: «Vi è la quistione sociale, per sciogliere la quale converrebbe promuovere il benessere delle popolazioni, fare strade, far cessare l’usura, istituire dei Monti frumentarii, far nascere il credito agricolo… Questi sarebbero i rimedii radicali.»
Per distruggere il brigantaggio noi abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi; ma ai rimedii radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in molte altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male, che certo non è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurgi e pessimi medici.
Molte amputazioni abbiamo fatte col ferro, molti tumori cancerosi estirpati col fuoco, di rado abbiamo pensato a purificare il sangue. Chi può mettere in dubbio che il nuovo Governo abbia aperto gran numero di scuole, costruito molte strade e fatto opere pubbliche? Ma le condizioni sociali del contadino non furono soggetto di alcuno studio, né di alcun provvedimento che valesse direttamente a migliorarne le condizioni. Uno solo dei provvedimenti iniziati tendeva direttamente a questo scopo, ed era la vendita dei beni ecclesiastici in piccoli lotti, e la divisione di alcuni beni demaniali. Ciò poteva ed era inteso a creare una classe di contadini proprietarii, il che sarebbe stato grande benefizio per quelle province. Ma senza entrare in minuti particolari, noteremo per ora che il risultato fu assai diverso dallo sperato; perché è un fatto che quelle terre, in uno o un altro modo, andarono e vanno rapidamente ad accrescere i vasti latifondi dei grandi proprietarii, e la nuova classe di contadini non si forma.
Il problema per noi è ora il seguente: dal 1860 ad oggi, questi contadini che ci vengono descritti come schiavi della gleba, ingiustamente, crudelmente oppressi, hanno o non hanno cominciato visibilmente a migliorare la propria condizione? A risolvere una tale quistione, senza accuse irritanti o ingiuste per alcuno, dobbiamo un momento fare astrazione dalla natura individuale degli uomini, ed indagare se le condizioni nuove li spingono al bene con una forza assai maggiore che nel passato; se obbligano i tristi, gli avidi a fermarsi nei soprusi, cui s’erano per lungo abuso educati.
Non bisogna dimenticare che quando una società ha preso il suo indirizzo, non è più in potere di alcuni uomini buoni e generosi il fermarla o deviarla dal pericoloso cammino. Si forma un’atmosfera che tutti respirano, si creano interessi collegati che resistono potentemente e violentemente. Nè è raro il caso di vedere quegli stessi, in favore dei quali si vorrebbe operare, per diffidenza o per ignoranza reagire ed anche far causa comune coi loro tiranni, combattere quelli che vorrebbero essere i loro benefattori. È un fatto che segue ogni giorno, ed è bene ricordarlo.
Con maraviglia lo straniero osserva nelle province meridionali molte città popolose, in cui si trovano poche famiglie di ricchi proprietarii, il più delle volte imparentati fra loro, in mezzo ad una moltitudine di proletari, che sono i contadini. Salvo qualche impiegato, altri ordini di cittadini non vi sono. La campagna è deserta, i suoi lavoratori formano il popolo delle città. Non v’è industria, non v’è borghesia, non v’è pubblica opinione che freni i proprietarii, che sono i padroni assoluti di quella moltitudine, la quale dipende da essi per la sua sussistenza, e se viene abbandonata, non ha modo alcuno di vivere. È ben vero che anche il proprietario ha bisogno del contadino. Ma là dove la popolazione non è scarsa, e le braccia non mancano al lavoro, o abbondano, come spesso avviene in quelle province, quale è la conseguenza di un tale stato di cose? La scienza economica lo ha quasi matematicamente dimostrato. Il salario del contadino sarà ridotto a ciò che è strettamente necessario, perché egli possa vivere per continuare il lavoro.
Se l’industria non apre una valvola di sicurezza, il contadino sarà ben presto condotto allo stato di servo della gleba. Nè questo deve attribuirsi a colpa di coloro che nelle province meridionali sono i possessori del suolo. È invece una conseguenza inesorabile di quello stato sociale, simile ad altre ben più funeste e più crudeli, che si videro in Irlanda venire da una situazione non molto diversa. Una emigrazione in massa, ed una fame spaventosa decimarono colà la popolazione in modo da non avere riscontro nella storia, sotto un Governo che nessuno vorrà credere meno civile e meno intelligente del nostro. Or si pensi al tempo che durò questa condizione di cose nelle province meridionali; s’aggiunga un Governo come quello de’ Borboni, che ridusse l’antagonismo di classi a sistema, ne fece base e fondamento della sua autorità, della sua forza; e si capirà il disordine morale e sociale che dovè seguirne. Ho sentito citare esempii di persone che avevano fatto tirare una fucilata a qualche contadino, aggiustando poi facilmente la faccenda col Governo, che in fondo alimentava gli odii. Esso fu chiamato, come ognun si ricorda, la negazione di Dio e della moralità.
Certo non mancavano gli onesti ed i nemici di un tale stato di cose, come i fatti più volte provarono. Ma chi può negare che la pubblica moralità doveva soffrirne? L’America ha dimostrato col suo esempio, che la schiavitù dei negri in molti casi no ceva più di tutto al padrone dello schiavo, perché esso veniva corrotto dal dominio ingiusto che esercitava. Non doveva corrompere un dominio illimitato, esercitato non sui negri, ma sopra uomini della stessa stirpe?
Ora se tale è lo stato in cui la rivoluzione trovò le province meridionali, quali furono le conseguenze del nuovo Governo? che cosa fece per esse?
Nessuno vorrà certo negare i grandi benefizii che portò al paese. Ma io qui mi occupo di una sola classe di cittadini. I lavori pubblici adoperarono per un momento alcune braccia, ma non crearono un’industria né una borghesia nuova. Le strade fecero rialzare i prezzi delle derrate, ma non mutarono in modo alcuno le condizioni sociali del contadino. Le città ed i borghi sono oggi pur troppo quel che erano prima, e le condizioni, le relazioni degli abitatori restarono sempre le stesse. Il Governo costituzionale è in sostanza il regno della borghesia. La classe dei proprietarii, in mancanza d’altro, divenne la classe governante; e i municipii, le province, le opere pie, la polizia rurale furono nelle sue mani. Chi circonda il prefetto, chi illumina il Governo, su chi si appoggia esso colà? E se il dominio che quella classe esercitava era dispotico, e se esso è restato illimitato, senza alcun nuovo freno, ma colla giunta di nuove forze, quali debbono esserne le conseguenze, quali sarebbero in ogni altro paese della terra, fra qualunque generazione di uomini? Ognuno può immaginarlo da sè.
Fra poco, io credo, verrà alla luce un lavoro scritto dal signor Leopoldo Franchetti, il quale ben due volte ha fatto un viaggio nelle province meridionali, espressamente per conoscere lo stato degli agricoltori colà; e, com’è naturale, fu dolorosamente scandalezzato nel vedere cose che dovevano sembrare impossibili a lui, nativo della Toscana,
dove il contadino non solo è un uomo indipendente e libero, ma è il vero socio del suo padrone, e di poco si crede inferiore a lui. Rammento che, quando seppi della sua prima gita, mi nacque un vivo desiderio di parlargli. Avendolo incontrato in un salotto, fammo presentati l’uno all’altro, e m’avvidi subito che anch’esso desiderava parlarmi, per fare a me la domanda stessa che io voleva fare a lui. Esaminando lo stato della più povera plebe di Napoli, esaminando lo stato dei più miseri contadini, io m’ero persuaso che la maggior parte di essi, se non si trovavano nella medesima miseria ed oppressione che sotto i Borboni, avevano con la nuova libertà peggiorato la lor sorte. La cosa mi pareva talmente sconfortante, talmente enorme, che cercavo un’ autorità imparziale, la quale avesse potuto smentire una opinione che quasi mi umiliava. Un Toscano che, lontano da ogni interesse personale, da ogni amor proprio provinciale, aveva, per solo fine patriottico e filantropico, fatto un viaggio in quelle regioni, mi pareva l’uomo di cui avevo bisogno. Ma ognuno può immaginare qual fu la mia maraviglia, quando m’accorsi ch’egli aveva riportato di colà la stessa penosa impressione, e cercava in me uno che sapesse persuadergli il contrario. Fui costretto a dirgli: Io non sono il vostro uomo. Ripetete piuttosto il vostro viaggio, andate in altre province, e mettete di nuovo alla prova le vostre osservazioni.
Egli era stato negli Abruzzi e nel Molise; andò, come aveva già divisato di fare, nelle Calabrie e nella Basilicata; è. tornato colla prima opinione ancora più ribadita. Il suo libro del resto verrà fra poco in luce, ed ognuno potrà vedere su quali fatti è fondata la sua convinzione. Questo libro assai notevole, Sulle condizioni economiche ed amministrative delle province napoletane, fu infatti pubblicato nel 1875 a Firenze, insieme con un bello scritto del signor Sidney Sonnino sulla Mezzeria in Toscana. I medesimi autori pubblicarono poi due volumi intitolati: La Sicilia nel 1876 (Firenze, Barbèra, 1876), dei quali moltissimi giornali italiani e stranieri fecero elogi che davvero erano ben meritati. Per ora il lettore faccia il conto che crede di questo involontario ed inconsapevole accordo di opinioni individuali, sopra una quistione tanto complessa e tanto difficile a determinare. Io mi restringo a riportare qui la conclusione d’una lunga lettera, che il signor Franchetti ebbe allora la gentilezza di scrivermi:
«Del resto, qualunque ne sia la cagione, credo che si possa affermare il fatto che, in regola generale, i contadini di quelle province (Abruzzi e Molise) sono per il loro vitto, d’anno in anno, nella dipendenza assoluta dei proprietarii, dipendenza che si manifesta non solo nella durezza delle condizioni dei contratti agricoli, ma ancora nella indeterminatezza di alcune delle loro clausole, che riportano la mente al tempo del servaggio. Il padrone, per citare un esempio, ha diritto illimitato di esigere prestazioni in opera dai suoi contadini, e ne usa largamente…
È adunque forza conchiudere che, durando le cose come adesso, la classe inferiore, per i ora ignorante della moralità, piuttosto che positivamente immorale, vedendo la classe agiata pesare cosi gravemente su di essa, acquisterà colla istruzione che gli si vuol dare, o una immoralità cosciente di sé, o un odio ancora più profondo pei signori e pel Governo, che sarà pieno di pericoli per l’ordine avvenire.» Si pensi un poco alle conseguenze logiche di queste osservazioni. Il contadino napoletano è dunque in uno stato d’abbrutimento, e quasi di servaggio. Per incivilirlo noi non abbiamo adesso che l’istruzione, e questa non darà alcun frutto, o costituirà un pericolo sociale per l’avvenire. Ciò spiega i pochi risultati che si ottengono, ciò spiega le paure che in alcuni destano le scuole.
Descrivere minutamente quale sia lo stato degli agricoltori nell’Italia meridionale, sarebbe qui opera impossibile, perché queste condizioni, e le forme dei contratti agrarii mutano non solo da provincia a provincia, ma sono infinite e diverse in una stessa provincia, non essendovi né una legge, né una consuetudine che domini per tutto. A trattare tollerabilmente il soggetto, bisognerebbe scrivere dei volumi. Io perciò mi contento di citare alla rinfusa alcuni esempii, alcune notizie avute da persone del luogo, o che ivi si trovavano.
Un giovane e pregiato economista delle Puglie, interrogato da me sulla condizione in cui erano nel suo paese i lavoratori dei latifondi, mi scriveva: «I contadini addetti alla coltivazione di questi lontani latifondi, vi stanno quasi tutto l’anno, venendo chi ogni quindici, chi ogni ventidue giorni a rivedere in città la moglie, i figli e la propria casa.
In campagna vivono in un camerone a terreno, dormendo in nicchie scavate nel muro intorno intorno. Hanno senz’altro un sacco di paglia, su cui dormono vestiti, anzi non si spogliano mai. Li comanda un massaro, che somministra ogni giorno a ciascuno, per conto del padrone, un pane nerastro e schiacciato, del peso d’un chilogramma, che si chiama panrozzo. Questo contadino lavora dall’alba fino al tramonto; alle 10 del mattino riposa mezz’ora e mangia un po’ del suo pane. Alla sera,cessato il lavoro, il massaro mette sopra un granfuoco, che è in fondo al camerone, una gran caldaia, in cui fa bollire dell’acqua con pochissimo i sale. In questo mezzo i contadini si dispongono infila, affettano il pane che mettono in scodelle di legno, in cui il massaro versa un po’ dell’acqua salata, con qualche goccia di olio. Questa è la zuppa di tutto l’anno, che chiamano acquasale. Nè altro cibo hanno mai, salvo nel tempo della mietitura,quando s’aggiungono da uno a due litri e mezzodi vinello, per metterli in grado di sostenere le più dure fatiche. E questi contadini serbano ogni giorno un pezzo del loro chilogramma di panrozzo,che vendono o portano a casa per mantenere la famiglia, insieme con io stipendio di circa 132 lire all’anno, con di più un mezzo tomolo di grano e mezzo tomolo di fave, che loro spetta secondo il raccolto.» Questi, aggiungeva il mio amico, sono i contadini che più facilmente si dànno al furto ed alle grassazioni. — E chi vorrà meravigliarsene?
Ha io non voglio tralasciar di notare che questa gente così male compensata è tra quelle che in Europa lavorano di più. Ricordo di aver letto una tale osservazione in un’inchiesta inglese fatta per ordine di lord Palmerston. Ho conosciuto anche un Tedesco, occupalo molto nella escavazione di miniere, il quale, essendo andato a passare alcuni mesi di riposo nelle campagne napoletane, mi disse un giorno a Firenze: — Il dolce far niente degl’Italiani, almeno là dove io sono stato, è una calunnia atroce. Sarebbe impossibile piegare il nostro contadino o il nostro operaio ad un lavoro così duro e prolungato, come quello che fanno i vostri contadini. — Il Franchetti, che è tornato di là con opinioni ben altro che favorevoli a noi, mi ha mille volte ripetuto: — È facile assai trovare contadini che lavorino meglio; è impossibile trovarne che lavorino di più. — Ed è questa appunto la gente che, nel paese del dolce far niente, è messa dalla società a tale disperazione da gettarsi al brigantaggio. Che lo facciano assai di mala voglia, c’è un fatto, ripeto, che lo dimostra chiaro, ed è l’emigrazione nella Campagna romana. Un contadino abruzzese, che pure aveva tirato qualche colpo di coltello, e che trova vasi in estrema miseria, fu interrogato dal sig. Franchetti: — Se le cose per te continuassero così, ti getteresti al brigantaggio? — No, anderei a lavorare nella Campagna romana, come fanno gli altri. — E quale è questa vita che preferiscono a quella che menano sui loro campi nativi? Ognuno può vederlo, per poco che s’allontani da Roma. In mezzo alla malaria, accanto ai pantani, lavorano tutto il giorno, e discendono, per dormire, in tane da lupi, dove pigliano le febbri; e poi tornano a casa ben più che decimati.
La scorsa settimana, mi raccontava un nobile romano, arrivò nella mia tenuta qualche centinaio di questi infelici. Avevano fatto otto ore di viaggio, chiusi e stipati nei vagoni delle merci, in piedi sempre, uomini, donne e bambini, col patto stipulato che a nessuno di loro dovesse essere permesso di scendere per via, neppure una sola volta. Fra non molto saranno ridotti a pochi, perché vengono qui a seminare le loro ossa, non tanto a causa della malaria, quanto a causa della vita cui sono condannati. — Io non mi fermo a descrivere questi infelici, che ognuno può andare a vedere se vuole. Basta guardarli per sentirsi arrossire.
Rammento il giorno, in cui venivo a Roma in uno dei piccoli vapori del Tevere. Fermatici in un punto per qualche minuto, si vide sopra una vicina e molto ripida altura, un povero vecchio, il quale, accorgendosi di non essere in tempo ad imbarcarsi, si gettò senz’altro dall’altura, ed arrivò rotolando insino alla riva. Era appunto un contadino abruzzese, che nei lavori dei campi si era rotto un braccio; aveva preso le febbri, ed andava a morire all’ospedale. Mi par di vederlo ancora: la sua faccia era rassegnata e tranquilla in quei tormenti; stringeva per dolore le labbra; stringeva i pugni, ma non mandò un lamento. La sua storia è la storia di migliaia d’infelici. E se questa è la vita che preferiscono, qual sarà quella che fuggono?
Ripeto che mi sarebbe impossibile di qui dare un ragguaglio esatto di tutte le forme di contratti agrarii prevalenti nelle province meridionali. E quando pur lo facessi, sarebbe poco meno che inutile.
Il contratto più diffuso è l’affitto in danaro o in generi; trovasi anche la mezzeria, e trovansi altre delle forme più note e più generalmente adottate altrove. Ma sono le condizioni speciali e varie, imposte a ciascuno di questi contratti, le molte modificazioni che essi subiscono, quelle che ne costituiscono l’essenza, e fanno si che, con qualunque di essi, il contadino si trovi quasi sempre nella stessa oppressione. Una simile osservazione fu fatta dall’onorevole Gladstone, quando egli propose la legge che modificava e vincolava a certe norme i contratti agrarii dell’Irlanda. Gli fu osservato allora, che le stesse leggi, i medesimi contratti prevalevano in Inghilterra; perché dunque. la nuova legge solo per l’Irlanda? Egli potè facilmente e vittoriosamente rispondere, che solo lo scheletro di questi contratti era identico nei due paesi; le condizioni in apparenza accessorie e le modificazioni diverse gli avevano alterati in modo, che le medesime forme portavano nell’Irlanda calamità ignote all’Inghilterra. E ciò non per le differenze che pur son sempre nella natura degli uomini, giacché il proprietario inglese in Irlanda faceva peggio degli altri; ma perché l’Inghilterra è un paese industriale, e quindi il contadino trova aperta un’altra via, per la quale può scampare alla tirannide del proprietario; l’Irlanda invece è, come l’Italia meridionale, un paese dato esclusivamente all’agricoltura, e quindi non v’6 scampo possibile.
Un amico da me interrogato raccolse molte notizie sulle province di Chieti e di Teramo. Egli mi scriveva che colà era abbastanza diffusa la mezzeria.
Il prodotto dell’ulivo va diviso in tre parti, di cui due al padrone, una al colono o soccio, come lo chiamano. Il mosto va diviso in parti uguali, e così le frutta, delle quali però il contadino deve dare in denaro il valore della parte che spetta al padrone. Pel grano le condizioni mutano; si raddoppia, si triplica la quantità che deve dare il contadino, secondo che cresce la fertilità del suòlo. Non mancano esempii di contadini obbligati a pagare al padrone il fitto della casa colonica, costruita con fieno e terreno cretaceo impastati. Nè ciò basta. Si usa eziandio generalmente d’imporre ai soci certe piccole prestazioni, come d’uova, galline, galli d’India, agnelli pasquali, allevamento di qualche maiale per uso di famiglia, ec. Queste prestazioni variano assolutamente secondo l’umore dei padroni. Sono però sempre da considerarsi come un discreto contrappelo.» Così scriveva l’amico abruzzese. Chi potrebbe paragonare questa mezzerìa con la toscana? Non hanno più niente di comune fra loro.
Ma non basta ancora. Nei tempi di cattiva raccolta il soccio non può pagare. E allora, se deve dar danaro, si fissa un interesse che ascende al 12 per cento; se deve dar grano, i padroni più benevoli esigono alla fine dell’anno la così detta colmatura, che è una mezzetta, o il sesto di più. Gli altri, e sono il maggior numero, vogliono esser pagati in danaro, e fissano il valore del grano dovuto, pigliando per norma il prezzo che ha nel maggio, che segue alla cattiva raccolta, cioè il mese in cui questo prezzo è più alto.
Il mio amico scriveva nell’aprile del 1874, quando la raccolta era stata assai cattiva, e continuava cosi: Se quest’anno, come pare, sarà buona, e se il contratto porta 10 salme di grano all’anno, si può i calcolare che il contadino dovrà darne 10 per questo anno, e 16 per l’anno passato, 26 in tutto. Piove e i contadini per la gioia non entrano nei loro panni; dicono che la terra è in ottime condizioni. Non sanno, tanto l’abitudine è l’ignoranza sono potenti, i che la terra frutterà quest’anno, ma non per loro. i Sic vos non vobis.»
E più oltre conchiudeva con queste parole: «Oggi noi a Chieti siamo, alla lettera, assediati da gente dei villaggi e da vecchi delle campagne, che vanno in giro accattando, e nei giorni di mercato il volto sparuto dei contadini dice che essi trascinano la vita a gran fatica. Non ha guari è stato trovato morto per fame un contadino di San Valentino, in territorio di Chieti, nelle pianure della Pescara, presso una cappella detta di Santa Filomena. Due mesi fa ho visto io un contadino, piuttosto vecchio,giacente per terra, estenuato dalla fame, innanzi alla i porla dell’ospedale civile. Non sono molti giorni,nella piazza detta della Cavallerizza, ne ho visto un altro disteso per terra, che sembrava morto, con l’una gran folla di gente attorno. Dimandato che fosse, n’ebbi questa risposta: Signore, la fame!E si badi che il contadino abruzzese è sobrio e laborioso. Dacché s’è introdotto il gran turco, si ciba solo di questo, che, per colmo di sventura, è salito quest’anno a 10 ducati la salma.»
E aggiungo che in alcune delle nostre province, essere messo a pane di grano, significa essere vicino a morire, spedito dai medici. Perfino nel linguaggio s’è stampata in eterno la storia delle nostre vergogne.
Un altro amico, che raccolse notizie dai soli circondarii di Sulmona, Aquila e Cittaducale, mi scriveva: «Il rischio della cattiva raccolta è per patto ordinariamente a carico dell’affittuario, il quale spesso trova il suo unico schermo nella impotenza a pagare. Nel circondario di Sulmona i contadini stipulano con frequenza affitti a lunga scadenza,per mettere le terre a vigna, impiegandovi assai più le loro fatiche che i capitali che non hanno. Spirato il termine dell’affitto, qualche volta il proprietario rimborsa al colono tutte le migliorie; più spesso ne rimborsa la sola metà. Non è però raro il caso in cui il proprietario si riserba libera facoltà di compensare in tutto o in parte le migliorìe, o d’invitare il colono a distruggerle, se vuole. Negli altri due circondarii, di miglioramenti non si tien conto, perché gli affitti sono troppo brevi per supporli possibili. Può succedere invece il contrario.»
E di queste condizioni, che sole dànno un’idea precisa dello stato in cui si trova il contadino, qualunque sia la forma generale di contralto, se ne potrebbe citare un numero infinito. Il signor Franchetti, percorrendo le Calabrie e la Basilicata, ha trovato in alcuni luoghi un contratto di miglioria, col quale il proprietario, dato in affitto un terreno incolto, dopo otto anni dava al contadino solo un terzo della differenza che si trovava fra il valore del fondo incolto e il valore del fondo messo a coltura. Altrove non si dava più di un settimo.
In altri luoghi trovò che il contadino doveva pagare al proprietario il diritto di guardia del fondo, guardia che egli volentieri avrebbe fatta da sé. La pagava in tanto grano, del quale solo una parte veniva dal proprietario data al guardiano. «E anche qui», egli dice, «immensi sono i servigi arbitrarii che rendono più duro il contratto.» La cosa va all’infinito. La società intera qualche volta sembra costituita a danno del contadino, non per volontà individuale di alcuno, ma come per legge inevitabile di natura.
La malignità umana, però, come può bene immaginarsi, non manca mai. Il Monte frumentario è destinato a dare, con equo interesse, il grano al povero coltivatore, nel tempo della semina o negli anni di carestia. Ciò farebbe concorrenza all’usura, largamente esercitata colà. Ma lo speculatore, e qualche volta anche il proprietario, trovano modo d’avere essi il grano, per darlo al povero con interesse assai maggiore. L’emigrazione in America, cominciata nella Basilicata, osservò il Franchetti nel suo viaggio, apre una nuova strada al povero agricoltore. Molti di essi tornano con qualche capitale, comprano un piccolo podere ed una casa; ma quello che è più, hanno acquistata una indipendenza maggiore, una sicurezza di loro stessi. In conseguenza di ciò, il prezzo della mano d’opera aumenta, e il proprietario subito guarda l’emigrazione come una vera calamità per la sua provincia, e, quando può, cerca d’impedirla.
Questo stato di cose, dove più, dove meno, si ritrova in tutte le province meridionali del continente, ed anche in qualche parte della Sicilia; come non mancano nei continente esempii di quel sistema di subaffitti che abbiamo osservato nell’Isola, ma non vi hanno mai la medesima importanza ed estensione. La conseguenza naturale di tutto ciò è il brigantaggio. Quando al contadino napoletano manca assolutamente il lavoro, e la fame lo assale, né trova altra via aperta dinanzi a sé, incomincia a rubare, e se è abbastanza audace, s’unisce a qualche banda di briganti. I capi sono per lo più uomini, che hanno ricevuto ancora qualche più grave ingiuria personale, e vogliono vendicarla: questa almeno suole essere l’origine o il pretesto. Vedi la nota a pagina 85.
E qui finisco la già troppo lunga lettera. Nell’altra parlerò dei rimedii.
Tuo affez. P. VILLARI.
IV.
I RIMEDII.
Mio caro Dina,
rimedii repressivi di questo stato di cose sono tanto noli, e furono da noi tanto adoperati, da non esservi bisogno di parlarne ancora. Quali sono i rimedii preventivi, quelli che l’on. Castagnola chiamava i soli radicali? L’immensità della quistione spaventa, e l’audacia manca non solo ai nostri uomini politici; ma, quello che è più, anche ai nostri uomini di scienza, molti dei quali affermano che la speranza di mettervi mano è una illusione, e delle più pericolose. Se queste opinioni trovano appoggio nell’ignoranza e nell’egoismo di molti proprietarii, è inutile dirlo. La natura umana è sempre la stessa.
Il mio amico di Chieti mi scriveva:
«Il primo proprietario, uomo intelligente ed b agiato, a cui mi rivolsi per cominciare a raccoglierele desiderate informazioni, arricciò il naso, corrugò la fronte, e non seppe e non volle nascondere il suo malcontento, quando udì da me che si volevano tutte le notizie che valessero a mettere in rilievo la poco prospera condizione dei contadini.» E in fondo non è da meravigliarsene. Il proprietario si trova isolato in mezzo ad un esercito di contadini.
La sottomissione di questi è immensa; ma è fondata solo sull’antica persuasione che il proprietario può tutto, che il Governo, i tribunali, la polizia dipendono da lui, o sono una sola cosa con lui. E però il contadino non osa far nulla senza sentire il padrone; non si presenta neppure all’autorità che lo invita,, né obbedisce agli ordini che riceve da essa, senza prima aver sentito l’avviso del padrone. Ma tutto ciò non nasce da affetto o da stima. Egli si potrebbe inginocchiare dinanzi al suo padrone con lo stesso sentimento con cui l’Indiano adora la tempesta o il fulmine. Il giorno in cui questo incanto fosse sciolto, il contadino sorgerebbe a vendicarsi ferocemente coll’ odio lungamente represso, colle sue brutali passioni. Qualche volta si sono viste quelle orde di schiavi trasformate istantaneamente in orde di cannibali. Questo ci obbliga ad esser molto cauti; ma ci obbliga ancora a meditare sul cumulo di odii che andiamo raccogliendo, e sulle conseguenze morali e sociali che possono avere. Noi del resto possiamo liberamente discutere e scrivere nei libri o nei giornali, certi che non una parola arriverà insino a quella gente analfabeta, che neppure intenderebbe il nostro linguaggio. Per parte mia posso dire, che anche a me moltissimi proprietarii non seppero nascondere il loro malcontento, quando chiedevo notizie collo scopo che non celavo a nessuno. Ma da un altro lato le risposte non mancarono mai, e molti viaggiarono, scrissero ad amici, raccolsero notizie, opuscoli, tutto quello che potevo desiderare.
La quistione preoccupa seriamente molti, sia per uno spirito di filantropia e di umanità, sia per la convinzione che sotto un governo libero l’antico stato di cose non può durare a lungo, ed è savio consiglio apparecchiarne la graduata trasformazione, piuttosto che aspettare il tempo in cui un’ improvvisa catastrofe faccia in un giorno pagare le colpe di secoli.
La quistione agraria l’ebbero i Romani, ed ognuno sa con quali terribili risultati. L’ebbero anche le nazioni moderne. Alcune ne uscirono per mezzo di sanguinose rivoluzioni, altre le prevenirono con una savia legislazione. Fra queste dobbiamo, prima di tutto, citare la Prussia, la quale, dopo le umiliazioni patite dalla Francia, si pose a ricostituire la propria potenza sopra tre basi: istruzione obbligatoria, servizio militare obbligatorio, riforma agraria. Le due leggi del 1807 e del 1811 costituiscono cip che tutti i Trattati di economia politica chiamano la legislazione classica dello Stein e dell’Hardenberg, ciò che le storie nazionali della Prussia chiamano una delle pietre angolari della forza del paese. La proprietà fu sciolta dai mille vincoli artificiali che l’inceppavano, il servaggio fu abolito, ed il servo non solo divenne libero, ma ancora proprietario d’un terzo e qualche volta della metà del suolo che coltivava, lasciando il resto in proprietà libera al padrone. Lo scopo che si voleva ottenere era chiaramente esposto nella legge stessa: creare una nuova classe di agricoltori che accrescesse forza al paese. E si ottenne. Senza quelle leggi la Prussia non avrebbe potuto fare i prodigi che ha fatti.
Se però la Prussia si fosse ristretta solo a quello che abbiamo detto più sopra, ne sarebbe seguito ciò che è avvenuto nelle province meridionali, colla divisione dei beni demaniali. Gli antichi proprietarii avrebbero ricomperata, a basso prezzo, la parte del contadino, che, privo di capitali, non avrebbe potuto coltivarla, e sarebbero divenuti padroni assoluti della terra, coltivata da proletarii ridotti ben presto alla condizione poco meno che di schiavi. Invece la Prussia aggiunse due cose di capitale importanza: una magistratura locale, che decidesse sommariamente e paternamente le liti insorte fra gli agricoltori ed i ricchi proprietarii; un’istituzione mirabile di Banche destinate ad anticipare al contadino i capitali per coltivare la terra e fare nuovi acquisti, con un interesse cosi mite che, pagando il 5 0|0, si ammortizzava il capitale in meno di 50 anni. Per fare tutto ciò occorse una serie di provvedimenti, che, incominciati nel 1807 e nel 1811, finirono solo nel 1850. Allora però la trasformazione fu compiuta, e la Prussia cominciò a sfidare il mondo, pel sentimento cresciuto della propria forza. La divisione delle terre divenne utile solamente per mezzo dell’istituzione delle Banche e delle magistrature speciali e locali.
L’impresa colossale dell’abolizione del servaggio in Russia fu condotta coi medesimi principii, pigliando cioè a modello la classica legislazione della Prussia. Ma il paese che, per questo lato, più trova riscontro con le nostre province meridionali, è l’Irlanda, fatta eccezione, ben s’intende, della quistione politica e religiosa, nella quale non v’è alcun riscontro possibile. Restringiamoci perciò alla sola quistione agraria.
L’Irlanda è un paese dedito all’agricoltura, senza alcuna industria d’importanza; un paese di proletarii oppressi crudelmente dai proprietarii, che non hanno o non vogliono spendere capitali per coltivare i loro fondi. I contratti sono in apparenza simili a quelli dell’Inghilterra, ma le condizioni e modificazioni speciali li avevano ridotti a tale, che il contadino emigrava o moriva di fame. I delitti agrarii moltiplicavano spaventosamente; i magistrati non erano sicuri; la pubblica opinione delle moltitudini proteggeva l’assassino, che riguardava come un vendicatore dei torti ricevuti dalla società.
Quando l’Inghilterra fu costretta a sospendere in Irlanda l’Hàbeas corpus, ed a venire a provvedimenti repressivi pel Fenianismo, che pigliava proporzioni gigantesche, non esitò punto ad adoperare il ferro ed il fuoco. Ma non si contentò di questo: —Noi abbiamo, ella disse, un debito d’onore verso l’Irlanda, dobbiamo pagarlo; dobbiamo riparare ai torti che essa ha ricevuti da noi. — Io lascio, per ora, da un lato, la radicale riforma della Chiesa inglese in Irlanda, e mi restringo solo alla legge agraria. L’Inghilterra affrontò coraggiosamente il primo problema che si presentava: se lo Stato cioè abbia il diritto di limitare con norme legislative la libertà dei contratti.
Il 15 febbraio 1850, il Gladstone, primo ministro d’un paese che è più di tutti in Europa contrario all’ingerenza dello Stato, diceva, in mezzo all’assenso generale della Camera dei Comuni, queste memorabili parole:
«Nessuno apprezza più altamente di noi la libertà dei contratti; essa è la radice di ogni condizione normale della società. Ma anche in quelle condizioni sociali, che noi riconosciamo come normali, non è possibile concedere illimitata libertà di contratto. La legislazione inglese è piena di queste ingerenze dello Stato, ed il Parlamento ha dimostrato una decisa tendenza a moltiplicarle. Voi non permettete nelle officine che il padrone impieghi l’operaio con tutte le condizioni che questi accetterebbe; voi non permettete che lo shipmaster trasporti gli emigrati con ogni specie di contratto che ambedue accetterebbero. Ed il caso dell’Irlanda è anco più grave, perché questi contratti, quantunque nominalmente liberi, tali non sono poi nel fatto, per le condizioni speciali del paese. Anche nei i casi in cui la legge ha lasciato l’Irlandese pienamente libero, le condizioni in cui si trova lo hanno privato della libertà; ed è però divenuto nostro stretto dovere l’intervenire per difenderlo. In un paese dove le braccia abbondano, e non v’è altra industria che l’agricoltura, il contadino non è più libero nel fare il contratto col padrone. Può essere perciò necessario di prescrivere con legge, fra certi limiti, i termini e le condizioni dei contratti agrarii.»
E la legge fu approvata. Per esporla minutamente, bisognerebbe cominciare col descrivere le condizioni speciali dell’agricoltura in Irlanda, e le forme dei contratti agrarii che sono colà diversissimi dai nostri. Ma per ora basti osservare che la legge, senza seguire alcuna teoria, prima di tutto determina e sanziona una forma di contratto, che l’esperienza di secoli ha dimostrata vantaggiosa al contadino irlandese (Ulster custom).
Sarebbe questo caso simile a quello d’un nostro legislatore, che sanzionasse le norme della mezzeria toscana, le quali ora son regolate solo dalla consuetudine. Ma il Parlamento inglese si guardò bene dal rendere a tutti obbligatoria una forma di contratto. Invece, lasciando libere quelle che esistevano, si restrinse ad annullare tutte le condizioni che giudicò contrarie alla giustizia ed al pubblico bene. I miglioramenti portati nel fondo dal contadino, che prima andavano quasi sempre ad esclusivo vantaggio del proprietario, debbono, secondo la nuova legge, essere da questo invece pagati al contadino. Il contratto con cui egli facesse rinunzia d’un tale risarcimento, è nullo. Il proprietario non può, senza ragioni giustificate e determinate, mandar via il contadino che ha preso in affitto la terra, ed è tenuto a rifarlo dei danni che gli reca, licenziandolo senza ragione. La legge tende a prolungare i termini dell’affitto sino a 30 anni, risguardando quelli a breve scadenza come dannosi, e tende a spronare il contadino a migliorare la cultura dei campi a suo proprio vantaggio. Ma anche qui il legislatore inglese capi, e il Gladstone lo dichiarò in Parlamento, che tutto sarebbe stato inutile senza una magistratura speciale, paterna, locale, che decidesse le mille liti che possono insorgere fra il proprietario ed il contadino, il quale non oserà mai chiamare innanzi ai tribunali ordinarii il suo padrone, per muovergli una lite. E a ciò si aggiunse ancora l’anticipazione fatta dallo Stato al contadino dei capitali necessarii, a condizioni non molto diverse che in Prussia.
I tre cardini della riforma erano cosi solidamente posti, e poco dopo si vide, che nell’Associazione per le scienze sociali gli stessi Irlandesi dichiaravano, che la legge avea subito cominciato a portare buoni frutti, e la loro esperienza suggeriva già alcuni modi per migliorarla. Che tutto ciò non valga a calmare gli odii e le passioni politiche, ben s’intende, perché le cagioni sono altre. Ma fra noi fortunatamente questi odii non esistono.
Certo non è solo l’Italia meridionale quella in cui il contadino soffre ingiustamente. Dobbiamo far eccezione della Toscana, là dove le antiche repubbliche intelligenti, democratiche e civilissime lasciarono tali germi, che la mezzeria è divenuta un contratto, che salva da ogni pericolo sociale nell’avvenire, e rende impossibile qualunque diffusione di teorie sovversive. Per la provincia di Venezia basta leggere il libro dell’avv. Carlo Stivanello (Proprietarii e Coltivatori: Venezia 1873), premiato dall’Istituto Veneto, per trovarvi la descrizione dei miseri casolari di canna e di loto, nei quali abita il bracciante. «Inquesti casolari, egli dice, si recluta la popolazionedei furti, necessario supplemento ai miseri guadagni, e vivono le torme dei poveri, che infestano i mercati e le città, e che sfilano in lunga processione, il sabato, dinanzi alle abitazioni.» (Pag. 151.)
Lo stesso autore ci parla di quei contratti a fiamma e fuoco, coi quali l’agricoltore è obbligato a rinunziare ad ogni ristoro contro la carestia, la grandine, la tempesta; di quelli coi quali rinunzia ad ogni compenso pei miglioramenti recati al fondo, e di molti altri contrarli alla giustizia, al bene generale, al progresso dell’agricoltura. «Il proprietario, nella stolta credenza che l’abilità dell’amministratore avveduto consista nello stipulare patti che strozzino l’altro contraente, ha inventato molte i clausole, le quali aggravano la condizione del con duttore.» (Pag. 1734.)
Il libro finisce col domandare una inchiesta agraria, la quale, secondo l’autore, metterebbe in evidenza la necessità assolata di provvedimenti legislativi in difesa degli agricoltori e dell’agricoltura, che egli chiama la povera Cenerentola del Regno d’Italia.
L’onorevole Jacini fece nel 1855 una dolorosa descrizione delle popolazioni agrarie, specialmente nella Bassa Lombardia, dove intorno alla ricca, intelligente e patriottica Milano, vivono i più miseri contadini, fra i quali le febbri e la pellagra fanno stragi crudeli; dove s’è risoluto il singolare problema d’unire la più ricca produzione colla maggiore miseria del coltivatore. E nel descrivere a quali miserie esso è qualche volta ridotto dal proprietario, esclama: «È una tale iniquità che la sola giustizia umana non basterebbe a punirla.» (Ediz. 1856, pag. 197.) Egli proponeva allora un Codice agrario e la istituzione dei Probi Viri. Ciò risponderebbe in parte alle norme sui contratti ed alla magistratura speciale stabilite dall’Inghilterra in Irlanda. Aggiungendovi le istituzioni efficaci di credito agrario, si avrebbero i capi principali della riforma inglese.
Quel libro fu assai popolare, forse perché appariva come una protesta contro l’Austria. Quando il Governo è venuto nelle nostre mani, che cosa abbiamo fatto? Nulla e poi nulla.
E quel che è peggio ancora, l’opinione di molti è contraria ad ogni riforma di questo genere. L’indifferenza sulle miserie dei milioni di uomini che lavorano la terra in campagna, e delle migliaia che si abbrutiscono nelle città, non è credibile. Eppure solo pensando ad essi si può crescere davvero la nostra produzione economica, pareggiare permanentemente le nostre finanze. Eppoi non sono essi che formano il nostro esercito, la nostra marina militare? È cosa di poca importanza renderli civili? Quali sono i giornali, quanti i libri o gli opuscoli che parlano di loro? La nostra letteratura, la nostra scienza e la nostra politica sembrano del pari indifferenti su questo problema, che racchiude il nostro avvenire economico e morale. Il male esiste in molte province, ma nelle Meridionali ha proporzioni assai maggiori.
Per parte mia sono convinto che la quistione, fra non molto, diverrà gravissima, e s’imporrà a tutti; che i provvedimenti legislativi saranno riconosciuti necessarii, se non si vorrà affrontare il pericolo d’una catastrofe sociale, la quale può nascere non solo da sommosse sfrenate, ma anche da inerzia ed abbandono prolungato.
Presto si vedrà, io credo, che in alcune province occorre proteggere l’agricoltore col fissare norme pei contratti, col dichiarare in essi nulle alcune condizioni assolutamente ingiuste e dannose. E sarà necessario ancora, colla istituzione di arbitri o di una magistratura speciale, assicurare l’applicazione di quelle norme.
Il credito agrario deve anch’esso essere istituito efficacemente, se si vuole liberare il contadino dall’usura, e rendere possibile una classe di agricoltori proprietarii.
Intanto è utile illuminare la pubblica opinione, rivelando le nostre piaghe e le nostre vergogne, senza paura del ridicolo o del discredito, che si cercherà di gettare su quelli che oseranno parlare. La libera stampa e la scienza hanno da lungo tempo imparato ad affrontare questi pericoli negli altri paesi, e debbono affrontarli anche fra noi. Quasi tutte le grandi verità sociali cominciarono coll’ essere prima dichiarate assurde, per sembrare poi probabili, e divenire finalmente evidenti e necessarie. Senza il coraggio d’affrontare il ridicolo, o di esporsi alla taccia di visionarii, molti progressi sarebbero stati impossibili, e molte calamità non si sarebbero evitate. Del resto basta parlare con gli uomini che conoscono appena lo stato delle cose, per convincersi ché la necessità di una riforma è già nella coscienza di molti, i quali ancora esitano a dirlo apertamente, quantunque convintissimi. È bene di certo che questa riforma venga dall’alto prima che sia richiesta dalle moltitudini, è bene che il Governo la inizii e la diriga. Questo è il solo mezzo, a mio credere, con cui esso potrà vincere il sentimento di crescente opposizione che si è formato in quelle province, e può nascere da ignoranza e da poco tatto politico; ma certo trascina ancora molti uomini onesti, moderati e patriotti, i quali vedono che il Governo redentore non ha il coraggio di redimere, che il Governo della libertà lascia che gli oppressi siano calpestati.
Senza l’aiuto del Governo, senza l’intervento dello Stato, non c’è virtù o iniziativa privata che basti a risolvere questi problemi colossali. Molti sono perciò coloro i quali non si peritano d’affermare che il Governo presente sia tutto a benefizio di una sola classe, e non la più numerosa, della società. E quando si dice loro: camorra, mafia, rispondono: consorteria. Queste opinioni bisogna coi fatti sradicarle.
Il Tocqueville afferma che due cose fanno ai popoli operare grandi imprese: la religione ed il patriottismo. La religione si può dire quasi spenta in Italia; dove non è superstizione, è abito tradizionale, non è fede viva. E quanto al patriottismo, che forma esso deve prendere ora, a quale nobile scopo indirizzarsi? L’Italia è unità, è libera, è indipendente; conquiste non ne vogliamo, né possiamo farne; una guerra di difesa è impossibile, perché nessuno ci assale. Che cosa dunque vogliamo? Bisogna rivolgere tutta l’attenzione all’interno, ciò è ben chiaro; ma la vita di una nazione non può restringersi tutta ai soli computi del pareggio. Noi potremmo essere uniti, liberi, indipendenti, colle finanze in equilibrio, e pure formare una nazione senza significato nel mondo. Occorre che un nuovo spirito ci animi, che un nuovo ideale baleni dinanzi a noi. E questo ideale è la giustizia sociale, che dobbiamo compiere prima che ci sia domandata. È necessario ridestare in nói quella vita morale, senza cui una nazione non ha scopo, non esiste. Ed è necessario al nostro bene materiale e morale.
Senza liberare gli oppressi non aumenterà fra noi il lavoro, non crescerà la produzione, non avremo la forza e la ricchezza necessarie ad una grande nazione. 1 uomo che vive in mezzo agli schiavi, accanto agli oppressi e corrotti, senza resistere, senza reagire, senza combattere, è un uomo immorale che ogni giorno decade. La camorra, la mafia ed il brigantaggio diventano inevitabili. Sotto una o un altra forma salgono in alto, si diffondono nel paese, ne consumano la midolla spinale, demoralizzandolo.
Con un governo dispotico le conseguenze del male non sono cosi gravi, perché gli ostacoli sono indipendenti dalla nostra volontà, perché c’è un altro nemico da combattere, un altro ideale, a cui mirare. Chiunque, infatti, oggi esamina se stesso, s’accorgerà, se è stato patriotta, che la sua condizione nella società era nel passato più morale che non è oggi. Allora c’era una guerra, una speranza, un sacrifizio ed un pericolo continuo che sollevava Io spirito nostro. Oggi è invece una lotta di partiti e qualche volta d’interessi, senza un Dio a cui sacrificare la nostra esistenza. Questo Dio era allora la patria, che oggi sembra divenuta libera per toglierci il nostro ideale. Ciò vuol dire che la libertà non ha ancora messo radici abbastanza profonde in Italia, è rimasta solo alla superficie, solo nella vita politica, ancora non è penetrata nella vita sociale ed individuale.
Si permetta a me, che sono insegnante, di citare un esempio cavato appunto dalla scuola, che infine è poi l’officina in cui si forma il cittadino. Molte volte mi è stato chiesto: — Credete proprio che con tutti questi maestri e professori, con tutti questi metodi e programmi nuovi, la generazione che sorge saprà e varrà più di quella che la precedette?
Sarebbe essa capace di far l’Italia, come l’abbiam fatta noi? — Io non dubito che la nuova generazione impari più e meglio di noi. Ma se varrà di più, è una quistione assai diversa. I nostri professori, i nostri libri eran peggiori, e s’imparava meno. Ma nella nostra scuola v’era qualche cosa di sacro che manca oggi. Il giorno in cui capitava nelle nostre mani un Berchet, un Colletta, un Niccolini, quel giorno la nostra piccola stanza s’illuminava, e uno spirito ignoto ci rivelava cose che non sono in alcun programma. Tra professori e scolari era una segreta intelligenza, per la quale ciò che si taceva valeva più di quel che si diceva. Questo incanto è oggi sparito, gli antichi Dei sono rovesciati sui loro altari, senza che alcuna nuova Divinità venga a prendere il loro posto. L’alunno non vede dinanzi a sè che una professione o un impiego; i più eletti pensano alla scienza. Ma ciò neppur basta, perché la scienza stessa ha bisogno d’essere destinata a qualche cosa di più alto, da cui possa essere come santificata. Nella nostra vita tutto ciò che non è santificato, viene profanato. Il vuoto che io vedo nella scuola, parmi che sia anche nella società, perché è nel cuore del cittadino. A noi manca come l’aria da respirare, perché dopo una vita di sacrifizii non troviamo più nulla a cui sacrificarci. Eppure l’aiutar coloro che soffrono vicino a noi, è il nostro dovere, è il nostro interesse supremo, urgente, e ci restituirebbe l’ideale perduto.
Ed ora mi resta solo di rispondere ad una obbiezione, che alcuni per patriottismo non fanno, ma che pure tengono celata nel loro cuore. — Fortunatamente, essi dicono fra sè, non tutta l’Italia è nelle condizioni in cui sono le province meridionali.
Se laggiù il contadino ed il povero sono in così pessimo stato, se la gente colta manca al suo dovere, non reagendo e non migliorando questo stato di cose, peggio per loro; resteranno ancora un pezzo nello stato di semibarbari. Nell’Italia centrale e superiore saremo, come siamo, civili. — Io lascio che molte piaghe, come ho già accennato, sono anche nell’Italia centrale e superiore. Voglio ammettere, per ipotesi, quel che non potrei discutere né combattere ora, che l’Italia cioè sia divisa nel modo che i poco benevoli oppositori pretendono. Ma per poter tirare da un tale stato di cose la conseguenza a cui essi vorrebbero giungere, bisognava avervi pensato prima, lasciando intatto il muro della China, che avevano costruito i Borboni. Dopo l’unità d’Italia tutto si è mescolato nell’esercito, nella marina, nella magistratura, nel l’amministrazione, ecc. La colpa delle province più civili che, a tutta possa, non aiutano le meno civili, è uguale a quella delle classi più colte ed agiate che, in una medesima società, abbandonano a se stesse le più ignoranti e derelitte. E le conseguenze sono le stesse. Oggi il contadino che va a morire nell’Agro Romano, o che soffre la fame nel suo paese, e il povero che vegeta nei tugurii di Napoli, possono dire a noi ed a voi:
Dopo l’unità e la libertà d’Italia non avete più scampo; o voi riuscite a render noi civili, o noi riusciremo a render barbari voi. E noi uomini del Mezzogiorno abbiamo il diritto di dire a quelli dell’Italia superiore e centrale: La vostra e la nostra indifferenza sarebbero del pari immorali e colpevoli.
Ora non mi resta che chiederti scusa delle troppe parole, e ringraziarti.
Addio.
Roma, 20 marzo 1875
Tuo Affez. P. VILLARI.
LETTERA ALLA SIGNORA JESSIE WHITE MARIO.
Questa lettera, che è in relazione colle precedenti, fa pubblicata la prima volta nel bel libro della signora J. W. Mario: La Miseria in Napoli. — Firenze, Successori Le Monnier, 1877.
Gentilissima Signora,
Ella mi scrive che è tornata ora da Napoli, dove fu per esaminare lo stato della popolazione più povera, e vedere coi proprii occhi i tugurii e le miserie che io ho descritti nelle mie Lettere Meridionali. Nessuna notizia può essermi più grata di questa. Solo vedendo e discutendo, si può sperare di giungere una volta a qualche risultato. Ho ragione di credere che altri ancora s’apparecchino a fare simili escursioni. Lo stato vero delle cose sarà noto fra poco a tutti, e non sarà più messo in dubbio da nessuno.
Ella però fa anche una domanda, scrivendomi: — So che nello scorso autunno, dopo aver già pubblicato le Lettere Meridionali, andò a visitare i tugurii, dove si trova la popolazione più povera di Londra. Io sono da molti anni lontana dall’Inghilterra, e quindi vorrei sapere da Lei se ha trovato a Londra miserie simili o peggiori di quelle vedute a Napoli. —
Perché io possa convenientemente rispondere alla domanda, ho bisogno di fare un poco di storia. Deve dunque scusarmi se non sarò breve.
Quando pubblicai le Lettere Meridionali, si sollevò una viva polemica, e ricevei in gran numero giornali che mi lodavano e giornali che mi biasimavano. Si disse, fra le altre cose, che non conoscevo Napoli, perché da molti anni ne ero lontano, e che descrivevo cose non vedute o cedute solo da molto tempo, ignorando che tutto era mutato. Si disse che non conoscevo la grande miseria di Londra, peggiore assai di quella di Napoli, ec., ec. Io che a Londra ero stato, e negli ultimi anni avevo molte e molte volte riveduto Napoli, dove pur sono nato ed ho passato la mia prima gioventù, presi nonostante nota di tutte le critiche, per potere a tempo opportuno, con nuovi fatti, tornare sull’argomento. Forse questo tempo verrà. Per ora mi contento solo di rispondere alla sua domanda; ma non posso resistere al bisogno di fare un racconto, che può sembrare estraneo al soggetto.
S’era, fra le altre cose, detto che avevo molto esagerato la misera condizione in cui si trovano i fondaci. Tutto era mutato in meglio. Non si riconoscevano più! Io avevo fatto una descrizione da romanzo! Per caso, solo qualche mese dopo di queste accuse, dovetti tornare a Napoli. Mi recai subito a visitare i fondaci, e nel primo giorno ne vidi tre a Porto. Andavo con due amici, i cui nomi potrei indicarle, se volesse essere accompagnata colà.
Ella sa come questi fondaci sono generalmente formati d’una corte quadrata, da cui per una scala si sale a diversi terrazzini o balconi, che girano intorno alle quattro mura, e dànno adito a molte camere, le quali sono per lo più senza finestre, e ricevono luce dall’unica porta che si apre sul terrazzino.
Nella prima di queste corti io vidi in un angolo una specie di stalla, in cui si lessavano teste, piedi, budella d’animali; poi si spellavano le teste e i piedi, l’acqua e il sangue venendo versato nella corte, dove restavano in gran parte fermi, per la poca inclinazione del suolo. In un altro angolo era un deposito di petrolio, che mandava un orrendo puzzo. Da un altro lato era nel muro una buca in comunicazione con un forno, il cui fumo passava la notte per essa, entrando nella corte. Cosi quando gli usci di quelle camere senza finestre si chiudevano, vi restavano dentro il puzzo delle budella, del petrolio ed il fumo. Sopra ogni cosa alle donne dava noia il puzzo del petrolio, e se ne lamentavano amaramente. In una delle camere del primo piano vidi una giovane di circa venti anni, che delirava nel letto, colpita dal tifo. Altre donne le erano intorno a guardarla, e più di tutto deploravano che fosse stato necessario tagliarle i bellissimi capelli! — Se avesse visto, dicevano, che capelli aveva! — Il fondaco che si trova in questo stato, mi fu assicurato esser proprietà d’una ricchissima Opera pia, cioè dello Spedale degli Incurabili.
Entrai in, un secondo fondaco, e là trovai che da circa due settimane la cloaca aveva dato di fuori, ingombrando tutta la corte, in modo che si passava in punta di piedi, rasente le mura. Salito al primo piano, vidi le donne appoggiate alle mura del terrazzino ridere guardando i grossissimi topi che traversavano e quasi nuotavano nella melma che la cloaca aveva versato nella corte. E mi dicevano: — Signorino, guardate i passaggieri! — Tirarono su dal pozzo una secchia, per farmi vedere che non era piena d’acqua, ma pareva invece tirata su dalla cloaca stessa, che infatti era venuta in comunicazione col pozzo!
Ho una memoria assai confusa di ciò che vidi nel terzo fondaco. Era di state, il fetore incredibile, la stanchezza di ciò che avevo veduto, ed il sentirmi ripetere dai compagni: — In questa strada vedrà dal principio alla fine la medesima scena, — fecero sì che andai via per quel giorno a cercar l’aria libera. Ma io non debbo continuare questo racconto, tanto più che ella deve aver visto cose anche peggiori, se, come sento dalla sua lettera, è andata per tutto. Rispondo dunque alla sua domanda.
Due mesi dopo la mia visita a Napoli, cioè nello scorso ottobre, andai a Londra. Mi presentai con una lettera ad uno dei capi della Polizia, e fu fissato che il giorno dopo, alle 7 pomeridiane, avrei avuto con me alcuni policemen, per visitare la sera i quartieri più miserabili della città. Di giorno mi dissero che non sarebbe stato possibile trovare e vedere i poveri nelle loro abitazioni, perché erano in giro per le vie.
All’ora fissata venne infatti al mio uscio un detective, cioè un policeman senza l’uniforme, e preso un andammo nell’Eastend, gita che durò circa un’ora e mezzo. Colà, vicino ai doccs, lasciammo la carrozza, e ci ponemmo in moto a piedi. Entrai in un ufficio di Polizia, esaminai i registri, vidi operare alcuni arresti, e poi in compagnia di due altri detectives che si unirono al primo, cominciammo le nostre visite. Io ripetevo sempre: — Fatemi vedere ciò che vi è di più orribile in Londra, desidero vedere le abitazioni della gente più misera e disgraziata. —
Fare qui, in una lettera, la descrizione di tutto ciò che vidi a Londra nel mese di ottobre, è impossibile; dovrei distendermi troppo. Ma siccome Ella non mi chiede altro che una mia opinione, ecco in breve ciò che io posso dirle.
Quando entrai nel cab, il detective cominciò il suo discorso così: — Signore, sono trent’anni che io servo nella Polizia di Londra. Posso sul mio onore assicurarle che Ella s’inganna, se crede di poter vedere in questa città quel che gli stranieri potevano vedervi trenta o venti anni fa. Tutto è mutato. Il Parlamento ha votato leggi sopra leggi per migliorare le condizioni dei poveri. — Infatti, ciò che si poteva vedere al mondo di più orribile, erano i lodging houses di Londra, dove andavano e vanno a dormire con pochi pennies i più miseri, che non hanno tetto. Or questi lodging houses, una volta abbandonati a se stessi, furono a poco a poco sottoposti a tante e così rigorose formalità, che, quantunque mantenuti da privati a loro rischio e pericolo, si possono dire pubblici stabilimenti.
Il riscaldamento, la circolazione dell’aria, la misura delle stanze e dei letti, la qualità delle lenzuola, tutto è determinato dalla legge, e sottoposto ad una continua ispezione. Alcuni di essi vengono ispezionati costantemente due o tre volte la settimana. Quelli per gli uomini sono diversi da quelli per le donne, e ve ne sono anche per marito e moglie, tutti secondo le norme stabilite.
Uscito dai lodging houses, andai dove sono i fumatori d’oppio, visitai ridotti e bagordi d’ogni specie. — Qui, mi dissero più volte i detectives, un policeman non potrebbe venir solo, perché sarebbe accoppato. — Entrai in alcune case di poveri, e mi fu detto: — Peggio di questo nessuno le farà mai vedere in Londra. — Certo io non posso affermare di avere visto ciò che v’ha di peggio in quell’immensa città, posso bensì affermare che ho fatto quanto era in me per vederlo. Ebbene, io le assicuro sul mio onore di essere convinto, che i poveri di Napoli stanno infinitamente, senza paragone alcuno, peggio di quelli di Londra. Che se a Londra qualche volta si muore di fame ed a Napoli no, oltre che questi casi non sono sì frequenti come si pretende, ciò deriva dal clima peggiore, non dalla maggiore miseria. Se a Napoli vi fosse il clima di Londra, un numero assai grande dei nostri poveri troverebbe subito pace nella tomba, cessando di menare una vita peggiore della morte.
Nei ridotti di Londra spesso mi sedetti coi detectives, e bevvi della birra e dei liquori, tanto per non parere d’andar colà da semplice osservatore. E non vidi mai nulla che si potesse paragonare al puzzo e al sudiciume di alcuni ridotti di Napoli.
Nelle case dei più poveri il detective entrava con un rispetto incredibile, e quasi sempre trovai anche nella miseria estrema una fierezza e indipendenza singolare. Più volte ricusarono di riceverci in casa, ed il detective diceva: — Andiamo oltre, il domicilio è inviolabile. Noi abbiamo tanto diritto di entrar qui, se non ci vogliono, quanto di entrare in casa sua, se non ci vuol ricevere. — A Napoli quando entrai nei fondaci, trovai insieme colla miseria un avvilimento, un abbattimento straordinario. Si entrava con un’aria di comando, quasi minaccioso, ed eravamo obbediti. — Qui, con questa gente, non si può fare a meno di usare questi modi, — mi dicevano sempre.
I miei giudizii, come tutti i giudizii umani, possono essere errali; ma io affermo con profonda convinzione, che se grande, immensa è la miseria di Londra, chi dice che i poveri di Londra sono in condizioni peggiori di quelli di Napoli, o non conosce gli uni, o non conosce gli altri.
Non dimentichi il discorso del detective: — Il Parlamento inglese ha fatto leggi sopra leggi pei poveri. — Quando le faremo noi? Per ora stiamo sempre al lasciate fare, lasciate passare.
E se qualcuno mi chiedesse ora: Perché tu che sei Italiano, dici queste cose ad una signora che è Inglese? Io gli ricorderei che se Ella è nata in Inghilterra, ha però speso la sua vita in favore della unità e indipendenza della patria nostra.
E se poi mi si ricordasse, che Ella ha sempre militato sotto la bandiera di un partito politico che non è il mio; allora io non risponderei più nulla a chi mostrasse d’ignorare che in certe quistioni tutti gli onesti appartengono ad un solo partito.
Mi creda con sincera stima ed amicizia
Suo dev. ed obb. P. VILLARI.
(Continua)