IL RISORGIMENTO
nel 150° dell’unificazione d’Italia
di Elena Bianchini Broglia
nel 150° dell’unificazione d’Italia
di Elena Bianchini Broglia
L’Italia compie centocinquant’anni. O così ci dicono. A noi pare sia troppo giovane. A noi pare che sia stata dimenticata troppa parte della nostra storia. La storia gloriosa di un’Italia faro di civiltà, centro della Cristianità, splendida fucina d’arte, culla del Rinascimento. Dimenticata e sacrificata a un nuovo Stato fatto nascere con la forza, frutto delle illecite mire espansionistiche di un re, sorretto dalle potenze dell’epoca, a scapito degli altri. I Savoia non hanno fatto l’Italia. L’hanno conquistata, e l’hanno soppressa. Soffocando quel ricco mosaico di tradizioni e culture che formavano la penisola, omologando e uniformando regioni tra loro diverse, autonome e gelose dei propri statuti e della propria autonomia.
E chi ha fatto dell’Italia un giovane mostro malriuscito, denigrando la sua storia e la sua Chiesa, si è fregiato dell’appellativo di patriota, mentre colui che avrebbe voluto affrontare il futuro gloriandosi del passato, viene bollato come antiitaliano. Malcontento, violenza, emigrazione furono i frutti di un’unificazione che non generò mai unità, che anzi creò divisioni nuove e assai più profonde delle precedenti. Lo capì anche un agente segreto di Cavour, il “pentito” Filippo Curletti: «L’unità di una nazione non si crea. Bisogna aspettare che nasca alla sua ora. Allora solamente può essere forte e durevole», rifletteva nella sue “Rivelazioni”.
Il risorgimento è stato frutto di una triplice violenza. Una violenza militare, attuata nel momento in cui per realizzare una finta unità, uno dei regni italici ha iniziato ad espandersi a spese dei vicini. Una violenza ideologica, naturale conseguenza della prima, nata dalla necessità di farla accettare agli italiani, a popoli che non volevano saperne di cambiare patria e governo, nascondendo enormi difficoltà ed esaltando fittizie glorie. E infine una violenza politica, praticata generalizzando la legislazione piemontese a tutta la penisola, senza preoccupazione di potenziali rigetti legati a realtà locali profondamente differenti dal Piemonte, come si rivelò il caso del Sud. Senza preoccuparsi del fatto che interi paesi finissero schiacciati da una nuova miseria, che le mille tasse e gabelle imposte dai liberatori a popoli che mai le avevano conosciute, e che nemmeno non riuscivano a spiegarsele, suscitassero ovunque rabbia e scontento. Fin dal primo momento il Sud considerò i piemontesi come degli invasori. Cercò di arrestarli, ma i soldati che resistettero eroicamente a Gaeta e a Civitella dei Tronto furono deportati nei lager sabaudi, luoghi tremendi, come la fortezza di Fenestrelle, dove chi aveva rifiutato “i liberatori” finiva i propri giorni in condizioni disumane, e i cadaveri ve-nivano sciolti nella calce viva. E per molti anni dopo quel fatidico 1861 – che qualcuno vorrebbe spacciare per l’anno di nascita dell’Italia – fu necessario che metà dell’esercito sabaudo rimanesse di stanza nelle terre “liberate”, in un continuo stato di emergenza, con fucilazioni di massa, rappresaglie, stermini, incendi per reprimere quel fenomeno che fu poi bollato come brigantaggio, ma che, a ben vedere, non fu che la spontanea risposta dei popolo ai sedicenti liberatori. II vero plebiscito del Sud, l’avrebbe definito Carlo Alianello: «Il paese comincia a parlare adesso. Non parlò il cosiddetto plebiscito, no, il plebiscito issi se l’hanno fatto, issi se l’hanno cantato e se l’hanno ballato». Falsi plebisciti hanno cercato di conferire una patina di filantropismo e patriottismo a un’usurpazione che sarebbe altrimenti rimasta inaccettabile sul piano della diplomazia internazionale. Poi un’enorme campagna di diffamazione fu orchestrata contro gli antichi Stati e soprattutto contro la Chiesa, secondo le direttive segrete della massoneria: «Schiacciate il nemico a forza di maldicenze e calunnie», si leggeva nell”`Istruzione” dell’Alta Vendita. E mentre la diffamazione travolgeva l’Italia del passato e i suoi protagonisti, venivano creati ad arte nuovi eroi, falsi miti, padri della patria troppo freschi e mediocri, per non dire spesso indegni. É il caso di Giuseppe Garibaldi, avventuriero ricolmato d’immeritati onori. Per offrire agli italiani il più amato dei “padri della patria” fu necessaria, come riferisce lo storico della massoneria Aldo Mola, una «ininterrotta, capillare, imponente opera di persistente rivitalizzazione del mito di Garibaldi, opera che fu «orchestrata dalla massoneria». La vita di Garibaldi prima che la spedizione dei Mille e la servile penna di Alexander Dumas padre gli dessero notorietà, era quella disordinata di mercenario costretto a vagare per i due mondi in cerca di fortuna. Mille volte cambiò paese e divisa, dedito al commercio degli schiavi, legato a proscritti e filibustieri. Riuscì infine a guadagnarsi il successo politico con la conquista del Sud solo perché sostenuto dall’Inghilterra, interessata alla distruzione del regno delle Due Sicilie per motivi economici e commerciali e a quella di Roma e di tutti gli antichi Stati dell’Italia cattolica animata da odio anticattolico. Lo avrebbe ammesso, nella sua grossolana semplicità, lo stesso Garibaldi, accennando in vari discorsi pubblici agli aiuti ricevuti durante un soggiorno in Inghilterra nel 1884. E al Christal Palace, rendendosi improvvisamente conto dell’imbarazzo suscitato dalle sue dichiarazioni, si meravigliò e con candore spiegò di avere parlato così «perché la regina e il governo inglese si sono stupendamente comportati verso la nostra natia Italia. Senza di esse noi subiremmo ancora il giogo dei Borbone a Napoli, se non fosse stato per l’ammiraglio Mundy, non avrei mai potuto passare lo stretto di Messina».
E fu proprio questa pesante interferenza di potenze straniere la causa del fallimento dei tanti progetti che erano stati ideati per cercare di costruire un’unità vera. Sovrani, politici, intellettuali e religiosi avevano proposto idee. Idee diversissime fra loro, accomunate da una sola certezza: la necessità di preservare quel tesoro di tradizioni italiche, quell’inimitabile patrimonio di differenze che caratterizzava il paese dalle tante capitali che aveva regalato al mondo il 70% di tutte le opere d’arte esistenti.
Tutti i progetti per un’Italia federale vennero scartati a priori, perché le potenze straniere che dettavano il risorgimento esigevano la scomparsa degli antichi regni. In supina obbedienza, i sedicenti patrioti hanno così “fatto l’Italia” a immagine dei padroni, contro ogni suo vero interesse, soffocandola in quel centralismo di stampo giacobino che da allora ci paralizza. Così accadde, nel mentre si prometteva al popolo l’indipendenza! Un’indipendenza che non sarebbe mai giunta. Perché quel modo frettoloso di “fare l’Italia” secondo gli schemi massonici, di farla contro la volontà dei popoli, con la forza, ignorando appelli e idee di intellettuali lungimiranti, ha fatto sì che oggi ancora perdurino quelle ferite.
Lo avevano ben compreso anche due personaggi insospettabili, come Antonio Gramsci e Giuseppe Mazzini, categorico il primo nel denunciare che «un’Italia come quella che si è formata nel 1870 non era mai esistita prima e non poteva esistere», costretto ad ammettere il secondo che “vedere sorgere quest’ltalia servile, opportunista, cieca e immorale è stato peggio che non vederla sorgere”.
E chi ha fatto dell’Italia un giovane mostro malriuscito, denigrando la sua storia e la sua Chiesa, si è fregiato dell’appellativo di patriota, mentre colui che avrebbe voluto affrontare il futuro gloriandosi del passato, viene bollato come antiitaliano. Malcontento, violenza, emigrazione furono i frutti di un’unificazione che non generò mai unità, che anzi creò divisioni nuove e assai più profonde delle precedenti. Lo capì anche un agente segreto di Cavour, il “pentito” Filippo Curletti: «L’unità di una nazione non si crea. Bisogna aspettare che nasca alla sua ora. Allora solamente può essere forte e durevole», rifletteva nella sue “Rivelazioni”.
Il risorgimento è stato frutto di una triplice violenza. Una violenza militare, attuata nel momento in cui per realizzare una finta unità, uno dei regni italici ha iniziato ad espandersi a spese dei vicini. Una violenza ideologica, naturale conseguenza della prima, nata dalla necessità di farla accettare agli italiani, a popoli che non volevano saperne di cambiare patria e governo, nascondendo enormi difficoltà ed esaltando fittizie glorie. E infine una violenza politica, praticata generalizzando la legislazione piemontese a tutta la penisola, senza preoccupazione di potenziali rigetti legati a realtà locali profondamente differenti dal Piemonte, come si rivelò il caso del Sud. Senza preoccuparsi del fatto che interi paesi finissero schiacciati da una nuova miseria, che le mille tasse e gabelle imposte dai liberatori a popoli che mai le avevano conosciute, e che nemmeno non riuscivano a spiegarsele, suscitassero ovunque rabbia e scontento. Fin dal primo momento il Sud considerò i piemontesi come degli invasori. Cercò di arrestarli, ma i soldati che resistettero eroicamente a Gaeta e a Civitella dei Tronto furono deportati nei lager sabaudi, luoghi tremendi, come la fortezza di Fenestrelle, dove chi aveva rifiutato “i liberatori” finiva i propri giorni in condizioni disumane, e i cadaveri ve-nivano sciolti nella calce viva. E per molti anni dopo quel fatidico 1861 – che qualcuno vorrebbe spacciare per l’anno di nascita dell’Italia – fu necessario che metà dell’esercito sabaudo rimanesse di stanza nelle terre “liberate”, in un continuo stato di emergenza, con fucilazioni di massa, rappresaglie, stermini, incendi per reprimere quel fenomeno che fu poi bollato come brigantaggio, ma che, a ben vedere, non fu che la spontanea risposta dei popolo ai sedicenti liberatori. II vero plebiscito del Sud, l’avrebbe definito Carlo Alianello: «Il paese comincia a parlare adesso. Non parlò il cosiddetto plebiscito, no, il plebiscito issi se l’hanno fatto, issi se l’hanno cantato e se l’hanno ballato». Falsi plebisciti hanno cercato di conferire una patina di filantropismo e patriottismo a un’usurpazione che sarebbe altrimenti rimasta inaccettabile sul piano della diplomazia internazionale. Poi un’enorme campagna di diffamazione fu orchestrata contro gli antichi Stati e soprattutto contro la Chiesa, secondo le direttive segrete della massoneria: «Schiacciate il nemico a forza di maldicenze e calunnie», si leggeva nell”`Istruzione” dell’Alta Vendita. E mentre la diffamazione travolgeva l’Italia del passato e i suoi protagonisti, venivano creati ad arte nuovi eroi, falsi miti, padri della patria troppo freschi e mediocri, per non dire spesso indegni. É il caso di Giuseppe Garibaldi, avventuriero ricolmato d’immeritati onori. Per offrire agli italiani il più amato dei “padri della patria” fu necessaria, come riferisce lo storico della massoneria Aldo Mola, una «ininterrotta, capillare, imponente opera di persistente rivitalizzazione del mito di Garibaldi, opera che fu «orchestrata dalla massoneria». La vita di Garibaldi prima che la spedizione dei Mille e la servile penna di Alexander Dumas padre gli dessero notorietà, era quella disordinata di mercenario costretto a vagare per i due mondi in cerca di fortuna. Mille volte cambiò paese e divisa, dedito al commercio degli schiavi, legato a proscritti e filibustieri. Riuscì infine a guadagnarsi il successo politico con la conquista del Sud solo perché sostenuto dall’Inghilterra, interessata alla distruzione del regno delle Due Sicilie per motivi economici e commerciali e a quella di Roma e di tutti gli antichi Stati dell’Italia cattolica animata da odio anticattolico. Lo avrebbe ammesso, nella sua grossolana semplicità, lo stesso Garibaldi, accennando in vari discorsi pubblici agli aiuti ricevuti durante un soggiorno in Inghilterra nel 1884. E al Christal Palace, rendendosi improvvisamente conto dell’imbarazzo suscitato dalle sue dichiarazioni, si meravigliò e con candore spiegò di avere parlato così «perché la regina e il governo inglese si sono stupendamente comportati verso la nostra natia Italia. Senza di esse noi subiremmo ancora il giogo dei Borbone a Napoli, se non fosse stato per l’ammiraglio Mundy, non avrei mai potuto passare lo stretto di Messina».
E fu proprio questa pesante interferenza di potenze straniere la causa del fallimento dei tanti progetti che erano stati ideati per cercare di costruire un’unità vera. Sovrani, politici, intellettuali e religiosi avevano proposto idee. Idee diversissime fra loro, accomunate da una sola certezza: la necessità di preservare quel tesoro di tradizioni italiche, quell’inimitabile patrimonio di differenze che caratterizzava il paese dalle tante capitali che aveva regalato al mondo il 70% di tutte le opere d’arte esistenti.
Tutti i progetti per un’Italia federale vennero scartati a priori, perché le potenze straniere che dettavano il risorgimento esigevano la scomparsa degli antichi regni. In supina obbedienza, i sedicenti patrioti hanno così “fatto l’Italia” a immagine dei padroni, contro ogni suo vero interesse, soffocandola in quel centralismo di stampo giacobino che da allora ci paralizza. Così accadde, nel mentre si prometteva al popolo l’indipendenza! Un’indipendenza che non sarebbe mai giunta. Perché quel modo frettoloso di “fare l’Italia” secondo gli schemi massonici, di farla contro la volontà dei popoli, con la forza, ignorando appelli e idee di intellettuali lungimiranti, ha fatto sì che oggi ancora perdurino quelle ferite.
Lo avevano ben compreso anche due personaggi insospettabili, come Antonio Gramsci e Giuseppe Mazzini, categorico il primo nel denunciare che «un’Italia come quella che si è formata nel 1870 non era mai esistita prima e non poteva esistere», costretto ad ammettere il secondo che “vedere sorgere quest’ltalia servile, opportunista, cieca e immorale è stato peggio che non vederla sorgere”.