Risorgimento La soap opera che fece l’Italia-ARRIGO PETACCO
Cavour? Avrebbe volentieri arrestato Garibaldi. La diplomazia sabauda? Con i francesi funzionò grazie a una spregiudicata contessa. A 150 anni dall’unità d’Italia gli storici riscrivono la nascita della nazione.
C ’è Risorgimento e Risorgimento. C’è quello ufficiale impastato nella retorica patriottarda che ne attribuisce il merito ai padri della patria che risposero all’appello di tutti gli italiani anelanti a quell’unità nazionale di cui nel 2011 celebreremo in gran pompa il 150° anniversario. E c’è quell’altro Risorgimento, quello autentico, quello veritiero, ma prudentemente censurato, che fu realizzato fra contraddizioni insanabili e dispute infuocate persino sull’impiego della parola stessa, da un movimento elitario totalmente avulso dalle masse popolari.
«Risorgimento? Ma che significa risorgimento?» si chiedeva per esempio il re di Napoli Francesco II, vulgo Franceschiello, accusando quei pennaruli di intellettuali che auspicavano l’unificazione nazionale prestando ascolto alla propaganda dei suoi «infidi parenti di Torino» (lui era figlio di una Savoia e cugino primo di Vittorio Emanuele II). «Come si può» insisteva ingenuamente Franceschiello «far risorgere una cosa che non è mai sorta? Perché l’Italia, signori miei, non è mai sorta… mentre il mio regno esiste da secoli».
In realtà, agli inizi del fatidico 1859, neppure a Torino si auspicava l’unificazione della penisola e la parola risorgimento provocava addirittura l’orticaria a Camillo Benso conte di Cavour. Perché Cavour, che in seguito la vulgata risorgimentale trasformerà nel «fine tessitore» dell’unità nazionale, neppure ci pensava al Risorgimento. Anzi, lo riteneva una «tragica corbelleria» alimentata da quel mitomane di Giuseppe Mazzini che mandava allo sbaraglio dei giovani illusi col compito di «sollevare il popolo», mentre finivano invece inforconati dai riottosi contadini. Al conte infatti, che in vita sua non si era mai spinto oltre l’Arno, interessava soltanto dilatare il Regno di Sardegna lungo la linea del Po fino all’Adriatico. Il resto dello Stivale non lo concupiva.
Pochi mesi prima infatti, a Plombières, dove si era segretamente incontrato con Napoleone III, aveva progettato con lui un piano ambizioso e bellicoso che possiamo così riassumere. Guerra all’Austria per cacciare gli austriaci dall’Italia; creazione di una federazione composta di tre stati (Regno del Nord, Regno del Centro, Regno del Sud) e liquidazione dello Stato della Chiesa offrendo al Papa, come compenso, la presidenza virtuale della stessa federazione.
Per scatenare, con l’appoggio della Francia, questa guerra, che sarà poi definita la «seconda» della nostra indipendenza e che lo scaltro Cavour riuscirà a provocare addossandone all’Austria la responsabilità, il «fine tessitore» per accattivarsi le simpatie dell’imperatore dei francesi aveva abilmente tessuto una duplice trama diplomatica. Una ufficiale, destinata a entrare nella storia, l’altra, da lui stesso definita «malandrina», destinata a essere celata nel segreto degli archivi.
Della prima fanno parte anche quei 15 mila bersaglieri mandati nel 1855 a combattere e a morire nella lontana Crimea in una guerra fra giganti (gli imperi britannico, francese e ottomano contro l’impero russo) il cui intervento non richiesto del minuscolo Regno di Sardegna al fianco degli anglofrancesi fu scambiato per un inconsulto gesto di megalomania. In effetti, si trattò invece di un cinico escamotage compiuto da Cavour per guadagnarsi la gratitudine degli alleati e per sedere fra i «grandi» d’Europa al congresso della pace a Parigi.
Ma questa è storia nota. Del tutto ignorata è invece la strategia «malandrina» concepita da Cavour che, per realizzarla, aveva bisogno di una dama, bella, intelligente e spregiudicata capace di «charmer politiquement l’Empereur, coqueter avec lui, le seduir s’il le fallait». L’incarico di trovare questa dama disponibile Cavour lo aveva affidato al suo fedele segretario Costantino Nigra, borbottando imbarazzato per ingentilire quel compito un po’ ruffianesco: «Caro Nigra, se noialtri facessimo per nostro interesse personale quello che stiamo facendo per la patria saremmo delle belle birbe. Anzi, i peggiori sporcaccioni del mondo».
La dama prescelta fu la famosa contessa Virginia di Castiglione la quale, anche se gli storici risorgimentali la ignorano, adempì alla sua missione con grande successo saldando definitivamente l’alleanza della Francia con il Piemonte. Per questo gesto patriottico la spregiudicata contessa si meriterà la gratitudine di Cavour, ma anche il titolo coniato da Urbano Rattazzi di «Vulva d’oro del Risorgimento». Da parte sua, la bella Virginia custodì gelosamente il negligé indossato in quel convegno imperiale (è conservato nel museo cavouriano di Santena) e lo esibiva agli amici suggerendo maliziosamente che meritava di sventolare al posto del tricolore.
C’è un altro episodio ignorato dalla vulgata risorgimentale che risale agli inizi della cosiddetta Seconda guerra d’indipendenza, che avrebbe potuto modificare il corso della storia e che sta a testimoniare come Cavour, sempre convinto del suo progetto federalista, cercò persino di salvaguardare il Regno delle Due Sicilie.
Nell’estate del 1859 giunse a Napoli in missione segreta il conte Ruggero di Salmour, un diplomatico piemontese che Cavour aveva incaricato di offrire a Francesco II una proposta molto allettante che solo uno stolto avrebbe potuto respingere. Se Napoli avesse rotto l’alleanza con l’Austria e affiancato i piemontesi, a cose fatte avrebbe potuto ingrandire il suo regno includendo dentro i confini del reame anche l’Umbria e le Marche che facevano parte dello Stato della Chiesa, destinato a scomparire.
Il primo a conoscere il contenuto di questo «pacchetto» fu Carlo Filangeri, che lo approvò con entusiasmo, soprattutto perché quell’offerta gli confermava che al Piemonte interessava soltanto l’Alta Italia. Purtroppo, Francesco II gelò gli entusiasmi del suo primo ministro. Invece di gioire, il bigotto sovrano al solo udire che il suo regno sarebbe stato arricchito dalle due regioni papaline inorridì come se avesse udito una bestemmia. «Vuie che dicite mai!» gridò. «Chella è robba d’o Papa! La robba d’o Papa non se tocca!». E respinse con sdegno l’infame proposta degli anticristo di Torino giocandosi in tal modo la sopravvivenza del suo regno.
Poi quella guerra finì, come sappiamo, grazie a un accordo personale tra Francesco Giuseppe e Napoleone III, raggiunto all’insaputa di Vittorio Emanuele II, che mandò su tutte le furie Cavour che vide sfumare il suo sogno di un Regno del Nord dalle Alpi marittime alla Venezia Giulia, all’Istria e alla Dalmazia. Da parte sua, Vittorio Emanuele II si accontentò invece di ricevere in dono da Napoleone la ricca Lombardia, pur dovendogli cedere Nizza e Savoia.
Frattanto, il resto della penisola era in ebollizione. Non lo era il popolo, per la verità, al quale mancava tutto, compreso l’alfabeto, ma i rumorosi gruppuscoli elitari che, dopo avere taroccato i plebisciti di annessione al Piemonte delle regioni dell’Italia centrale, ora miravano al Sud.
La spedizione dei Mille in Sicilia, osteggiata dalla Francia, ma supportata dalla massoneria britannica intenzionata a creare una «Malta più grande», venne organizzata da Giuseppe Garibaldi con l’appoggio segreto di Vittorio Emanuele. Anche Cavour ne era a conoscenza ma, in un primo tempo, non si era preoccupato. «Vadano pure a scornarsi in Sicilia» aveva preconizzato. «Faranno la fine di Carlo Pisacane». Ma quando capì che i garibaldini facevano sul serio, affrontò risolutamente il sovrano. «Bisogna assolutamente fermare Garibaldi prima che ci metta nei guai» gli aveva detto. «Se nessuno osa andrò io stesso ad arrestarlo!».
Invece Garibaldi partì da Quarto con la sua armata brancaleone: 150 avvocati, 100 studenti, una decina di medici, 50 ingegneri, 50 chimici, 100 commercianti, giornalisti, ufficiali disertori e così via. I siciliani erano soltanto 38, gli altri erano tutti settentrionali, in maggioranza bergamaschi (450) e genovesi (250). Non c’era un contadino e neppure un operaio.
L’impresa ebbe il successo che tutti sappiamo con grande disappunto di Cavour, che infatti confidava sconsolato a Nigra che gli chiedeva cosa stesse accadendo in Sicilia: «Purtroppo le arance sono già sul nostro tavolo e i maccheroni sono quasi cotti. Ci toccherà mangiarli».
Cotti i «maccheroni» e proclamata l’unità nazionale, Cavour, che aveva rapidamente modificato la sua linea politica trasformandosi in convinto unitario, ne attribuì tutto il merito al suo governo. Ma non fece in tempo a godersi il successo perché morì pochi mesi dopo fulminato da una misteriosa malattia.
E l’Italia? La piemontesizzazione della penisola, che assorbirà in seguito il Veneto e ciò che restava dello Stato della Chiesa, fu dura e spietata. I nuovi italiani conobbero la coscrizione obbligatoria, la tassa sul macinato e i tanti altri balzelli escogitati dal regno sabaudo per rifarsi delle spese sostenute. Tutto ciò darà vita al cosiddetto «brigantaggio» (ma non erano tutti briganti, molti erano partigiani borbonici) per liquidare il quale si registreranno più vittime di quelle registrate per l’indipendenza. D’altronde Luigi Carlo Farini, appena arrivato a Napoli come proconsole, non aveva esitato a scrivere a Cavour: «Altro che Italia, signor conte! Questa è Africa. I beduini, a riscontro con questi cafoni, sono un fior di virtù civili!».
Era con tali sentimenti che i conquistatori del Nord si preparavano all’integrazione con i fratelli del Sud.
«Risorgimento? Ma che significa risorgimento?» si chiedeva per esempio il re di Napoli Francesco II, vulgo Franceschiello, accusando quei pennaruli di intellettuali che auspicavano l’unificazione nazionale prestando ascolto alla propaganda dei suoi «infidi parenti di Torino» (lui era figlio di una Savoia e cugino primo di Vittorio Emanuele II). «Come si può» insisteva ingenuamente Franceschiello «far risorgere una cosa che non è mai sorta? Perché l’Italia, signori miei, non è mai sorta… mentre il mio regno esiste da secoli».
In realtà, agli inizi del fatidico 1859, neppure a Torino si auspicava l’unificazione della penisola e la parola risorgimento provocava addirittura l’orticaria a Camillo Benso conte di Cavour. Perché Cavour, che in seguito la vulgata risorgimentale trasformerà nel «fine tessitore» dell’unità nazionale, neppure ci pensava al Risorgimento. Anzi, lo riteneva una «tragica corbelleria» alimentata da quel mitomane di Giuseppe Mazzini che mandava allo sbaraglio dei giovani illusi col compito di «sollevare il popolo», mentre finivano invece inforconati dai riottosi contadini. Al conte infatti, che in vita sua non si era mai spinto oltre l’Arno, interessava soltanto dilatare il Regno di Sardegna lungo la linea del Po fino all’Adriatico. Il resto dello Stivale non lo concupiva.
Pochi mesi prima infatti, a Plombières, dove si era segretamente incontrato con Napoleone III, aveva progettato con lui un piano ambizioso e bellicoso che possiamo così riassumere. Guerra all’Austria per cacciare gli austriaci dall’Italia; creazione di una federazione composta di tre stati (Regno del Nord, Regno del Centro, Regno del Sud) e liquidazione dello Stato della Chiesa offrendo al Papa, come compenso, la presidenza virtuale della stessa federazione.
Per scatenare, con l’appoggio della Francia, questa guerra, che sarà poi definita la «seconda» della nostra indipendenza e che lo scaltro Cavour riuscirà a provocare addossandone all’Austria la responsabilità, il «fine tessitore» per accattivarsi le simpatie dell’imperatore dei francesi aveva abilmente tessuto una duplice trama diplomatica. Una ufficiale, destinata a entrare nella storia, l’altra, da lui stesso definita «malandrina», destinata a essere celata nel segreto degli archivi.
Della prima fanno parte anche quei 15 mila bersaglieri mandati nel 1855 a combattere e a morire nella lontana Crimea in una guerra fra giganti (gli imperi britannico, francese e ottomano contro l’impero russo) il cui intervento non richiesto del minuscolo Regno di Sardegna al fianco degli anglofrancesi fu scambiato per un inconsulto gesto di megalomania. In effetti, si trattò invece di un cinico escamotage compiuto da Cavour per guadagnarsi la gratitudine degli alleati e per sedere fra i «grandi» d’Europa al congresso della pace a Parigi.
Ma questa è storia nota. Del tutto ignorata è invece la strategia «malandrina» concepita da Cavour che, per realizzarla, aveva bisogno di una dama, bella, intelligente e spregiudicata capace di «charmer politiquement l’Empereur, coqueter avec lui, le seduir s’il le fallait». L’incarico di trovare questa dama disponibile Cavour lo aveva affidato al suo fedele segretario Costantino Nigra, borbottando imbarazzato per ingentilire quel compito un po’ ruffianesco: «Caro Nigra, se noialtri facessimo per nostro interesse personale quello che stiamo facendo per la patria saremmo delle belle birbe. Anzi, i peggiori sporcaccioni del mondo».
La dama prescelta fu la famosa contessa Virginia di Castiglione la quale, anche se gli storici risorgimentali la ignorano, adempì alla sua missione con grande successo saldando definitivamente l’alleanza della Francia con il Piemonte. Per questo gesto patriottico la spregiudicata contessa si meriterà la gratitudine di Cavour, ma anche il titolo coniato da Urbano Rattazzi di «Vulva d’oro del Risorgimento». Da parte sua, la bella Virginia custodì gelosamente il negligé indossato in quel convegno imperiale (è conservato nel museo cavouriano di Santena) e lo esibiva agli amici suggerendo maliziosamente che meritava di sventolare al posto del tricolore.
C’è un altro episodio ignorato dalla vulgata risorgimentale che risale agli inizi della cosiddetta Seconda guerra d’indipendenza, che avrebbe potuto modificare il corso della storia e che sta a testimoniare come Cavour, sempre convinto del suo progetto federalista, cercò persino di salvaguardare il Regno delle Due Sicilie.
Nell’estate del 1859 giunse a Napoli in missione segreta il conte Ruggero di Salmour, un diplomatico piemontese che Cavour aveva incaricato di offrire a Francesco II una proposta molto allettante che solo uno stolto avrebbe potuto respingere. Se Napoli avesse rotto l’alleanza con l’Austria e affiancato i piemontesi, a cose fatte avrebbe potuto ingrandire il suo regno includendo dentro i confini del reame anche l’Umbria e le Marche che facevano parte dello Stato della Chiesa, destinato a scomparire.
Il primo a conoscere il contenuto di questo «pacchetto» fu Carlo Filangeri, che lo approvò con entusiasmo, soprattutto perché quell’offerta gli confermava che al Piemonte interessava soltanto l’Alta Italia. Purtroppo, Francesco II gelò gli entusiasmi del suo primo ministro. Invece di gioire, il bigotto sovrano al solo udire che il suo regno sarebbe stato arricchito dalle due regioni papaline inorridì come se avesse udito una bestemmia. «Vuie che dicite mai!» gridò. «Chella è robba d’o Papa! La robba d’o Papa non se tocca!». E respinse con sdegno l’infame proposta degli anticristo di Torino giocandosi in tal modo la sopravvivenza del suo regno.
Poi quella guerra finì, come sappiamo, grazie a un accordo personale tra Francesco Giuseppe e Napoleone III, raggiunto all’insaputa di Vittorio Emanuele II, che mandò su tutte le furie Cavour che vide sfumare il suo sogno di un Regno del Nord dalle Alpi marittime alla Venezia Giulia, all’Istria e alla Dalmazia. Da parte sua, Vittorio Emanuele II si accontentò invece di ricevere in dono da Napoleone la ricca Lombardia, pur dovendogli cedere Nizza e Savoia.
Frattanto, il resto della penisola era in ebollizione. Non lo era il popolo, per la verità, al quale mancava tutto, compreso l’alfabeto, ma i rumorosi gruppuscoli elitari che, dopo avere taroccato i plebisciti di annessione al Piemonte delle regioni dell’Italia centrale, ora miravano al Sud.
La spedizione dei Mille in Sicilia, osteggiata dalla Francia, ma supportata dalla massoneria britannica intenzionata a creare una «Malta più grande», venne organizzata da Giuseppe Garibaldi con l’appoggio segreto di Vittorio Emanuele. Anche Cavour ne era a conoscenza ma, in un primo tempo, non si era preoccupato. «Vadano pure a scornarsi in Sicilia» aveva preconizzato. «Faranno la fine di Carlo Pisacane». Ma quando capì che i garibaldini facevano sul serio, affrontò risolutamente il sovrano. «Bisogna assolutamente fermare Garibaldi prima che ci metta nei guai» gli aveva detto. «Se nessuno osa andrò io stesso ad arrestarlo!».
Invece Garibaldi partì da Quarto con la sua armata brancaleone: 150 avvocati, 100 studenti, una decina di medici, 50 ingegneri, 50 chimici, 100 commercianti, giornalisti, ufficiali disertori e così via. I siciliani erano soltanto 38, gli altri erano tutti settentrionali, in maggioranza bergamaschi (450) e genovesi (250). Non c’era un contadino e neppure un operaio.
L’impresa ebbe il successo che tutti sappiamo con grande disappunto di Cavour, che infatti confidava sconsolato a Nigra che gli chiedeva cosa stesse accadendo in Sicilia: «Purtroppo le arance sono già sul nostro tavolo e i maccheroni sono quasi cotti. Ci toccherà mangiarli».
Cotti i «maccheroni» e proclamata l’unità nazionale, Cavour, che aveva rapidamente modificato la sua linea politica trasformandosi in convinto unitario, ne attribuì tutto il merito al suo governo. Ma non fece in tempo a godersi il successo perché morì pochi mesi dopo fulminato da una misteriosa malattia.
E l’Italia? La piemontesizzazione della penisola, che assorbirà in seguito il Veneto e ciò che restava dello Stato della Chiesa, fu dura e spietata. I nuovi italiani conobbero la coscrizione obbligatoria, la tassa sul macinato e i tanti altri balzelli escogitati dal regno sabaudo per rifarsi delle spese sostenute. Tutto ciò darà vita al cosiddetto «brigantaggio» (ma non erano tutti briganti, molti erano partigiani borbonici) per liquidare il quale si registreranno più vittime di quelle registrate per l’indipendenza. D’altronde Luigi Carlo Farini, appena arrivato a Napoli come proconsole, non aveva esitato a scrivere a Cavour: «Altro che Italia, signor conte! Questa è Africa. I beduini, a riscontro con questi cafoni, sono un fior di virtù civili!».
Era con tali sentimenti che i conquistatori del Nord si preparavano all’integrazione con i fratelli del Sud.