Dopo l’intervento di Bobbio parlano Lombardi Satriani Dioguardi Aquino e Consolo
AL SUD e da soli
«IL meridionalismo è morto? “Ormai una cosa è diventata ai miei occhi sempre più chiara e sempre più diffìcilmente confutabile: la questione meridionale è prima di tutto una questione dei meridionali”.
Questa affermazione di Norberto Bobbio, nell’editoriale “La democrazia a pallettoni”, sulla Stampa di sabato 5 maggio, è suonata come una campana a morto per il movimento politico e culturale nato oltre un secolo fa sulla base di una tesi esattamente opposta: la questione meridionale è prima di tutto una questione nazionale.
La disgregazione del tessuto democratico, la delinquenza mafiosa e comune hanno scavato un abisso tale da vanificare ogni politica di solidarietà? Continuare a misurare i guasti del Sud sulla base delle responsabilità della gente del Nord non è diventato un alibi per la società meridionale? Ecco gli interrogativi che solleva la dichiaraiione di Norberto Bobbio. Ed ecco come rispondono alcuni intellettuali meridionalisti. L’antropologo calabrese Luigi M. Lombardi Satriani: «lo credo che non si possa sostenere che il meridionalismo classico abbia fatto il suo tempo. Se significa che risolvere i problemi del Meridione spetta innanzitutto a chi da anni vive in quste condizioni terribili, questo è giusto. Se significa che bisogna uscire dal paternalismo, sono d’accordo. Ma se si tratta da parte del settentrionnali di chiamarsi fuori dalle responsabilità, è una posizione che nega lo sviluppo storico della società italiana. Perchè la realtà meridionale è staila resa così per un processo in cui il Nord d’Italia, innanzitutto Torino, ha grandi responsabilità».
Lo scrittore palermitano Vincenzo Consolo. «Lo capisco il senatore Bobbio, lo capisco. Più di ventanni fa presi un treno per trasferirmi da Palermo a Milano. Ma non posso condividere la sua affermazione.
Essere meridionalista, vale a dire conoscere gli annosi e atroci problemi che affliggono la parte meridionale dell’Italia e contribuire a risolverli, ciascuno secondo il proprio ruolo e col proprio lavoro, questo credo sia dovere di ogni cittadino, meridionale o settentrionale».
Meridionalismo fuori moda?
Il dibattito meridionalista ha registrato un appannamento nell’ultimo decennio e la questione meridionale non è più un tema all’ordine del giorno. A essere maligni, si dovrebbe dire che è passata di moda; non è più in testa alle citazioni di politici e sindacalisti. In verità, è diventata un problema cosi complesso che non si riesce a ingabbiarlo in uno schema e non si presta più alle semplificazioni ideologiche. Se era uno specchio deformante delle contraddizioni del nostro sviluppo, questo specchio oggi si è rotto in mille frammenti, ognuno dei quali riflette un pezzo diverso di realtà. La massa di miliardi andata al Sud ha potuto cancellare la miseria materiale, anche se il reddito pro capite è pari al 60 – 65 per cento di quello medio del Paese. Sotto l’effetto di una modernizzazione forzata, sono esplosi gli squilibri interni: Puglia e Calabria sono fra loro assai più lontane di Puglia e Lombardia; se la conurbazione di Napoli fa il paio con quella di Reggio, l’Irpinia post-terremoto si modella invece su Marche e Veneto. Ma a tali trasformazioni non corrisponde dovunque l’auspicata evoluzione sociale e culturale. La criminalità organizzata e il clientelismo politico restano cardini delle società meridionale.
Il frutto più duraturo del meridionalismo è la polemica con lo Stato, anzi la polemica sull’assenza dello Stato: un cavallo di battaglia tanto sfruttato da tradursi in un modo di essere della gente. Ma la situazione è radicalmente cambiata in seguito alla progressiva meridionalizzazione della classe politica. Sempre meno lo Stato è rappresentato da amministratori del Nord. Come si leggeva nell’editoriale di Bobbio, «non si capisce perché spesso la gente del Sud interpellata alla televisione continui a dare la colpa allo Stato, quando questo maledetto Stato è sempre più governato da uomini del Mezzogiorno». Dice Antonio Aquino, preside di facoltà all’Università della Calabria: «E’ vero che nel Sud le condizioni di vita sono migliorate, ma è necessario un impegno di tutti gli italiani pierché siano svolte anche qui le funzioni che sono proprie dello Stato unitario: assicurare, per esempio, l’amministrazione della giustizia. Riceviamo finanziamenti anche abbondanti per interventi straordinari, ma non si garantisce la normalità. E’ assurdo che non si trovino dieci magistrati per coprire l’organico dei tribunali calabresi. D’altra parte, che senso ha guardare se i rappresentanti dello Stato sono meridionali o no? Un dirigente dell’amministrazione giudiziaria è responsabile di una funzione dello Stato centrale, cosa conta andare a vedere se è nato a Cosenza o altrove».
“Non potete abbandonarci”
Gianfranco Dioguardi, imprenditore di Bari e docente universitario: “Il Meridione è sempre un pezzo d’Italia.Se vogliamo tornare all’epoca dei Comuni e delle Leghe, allora ognuno si darà la sua regolamentazione e magari viaggeremom con il passaporto da una regione allaltra. Ma se vogliamo mantenere in piedi il concetto di nazione, pur essendo giusto battere sul tasto che i meridionali devono cominciare a badare a se stessi, non si può abbandonarli”.
Detto con asprezza o con pacatezza, «non abbandonateci» è il concreto residuo del meridionalismo. Di fronte alle contraddizioni fra premesse ideologiche e cambiamenti reali in cui il meridionalismo si è di fatto impantanato, l’elemento più vivo, che affiora come un deposito della storia, è il sentimento morale, componente essenziale della denuncia e del riscatto. Ma così disancorato dal contesto oggettivo, da suonare come un rimpianto civile o un imperativo categorico.
Consolo: «Quando negli Anni Cinquanta conobbi a Partinico il triestino Danilo Dolci e vidi sulla parete del suo ufficio una lettera minatoria con su disegnata una pistola dalla cui bocca veniva fuori un rosario di pallottole; quando vidi, una notte del gennaio 1969, per il primo anniversario del terremoto del Belice, tra le macerie di Gibellina, Carlo Levi arringare i contadini e rivolgere loro parole di conforto e di speranza; quando vidi in Sicilia tantissimi altri intellettuali del Nord attivamente operare, pensavo che essi fossero doverosamente e naturalmente meridionalisti, cioè cittadini di questo Paese; e poi, se si vuole, anche persone generose».
Dioguardi: «Su un punto dell’intervento di Bobbio bisogna riflettere: è verissimo che ciascun individuo realizza lo Stato. Non ci si può etichettare con comportamenti non civili e pretendere che lo Stato sia civile. Ciascuno inizi dal proprio ambito di esperienza a costruire la società civile. Ma attenzione: vale anche per il Nord, vale anche per le Leghe. Nessuno può stare a guardare a braccia conserte, convinto di essere al riparo dal degrado, né al Sud né al Nord. Io ritengo che gli ammazzamenti della campagna elettorale non fossero mafia politica bensì regolamenti di conti; ma è verissimo che l’assassinio non fa più scandalo perché nella società non c’è il clima dell’emergenza che lo stato delle cose oggi richiede».
Detto con asprezza o con pacatezza, «non abbandonateci» è il concreto residuo del meridionalismo. Di fronte alle contraddizioni fra premesse ideologiche e cambiamenti reali in cui il meridionalismo si è di fatto impantanato, l’elemento più vivo, che affiora come un deposito della storia, è il sentimento morale, componente essenziale della denuncia e del riscatto. Ma così disancorato dal contesto oggettivo, da suonare come un rimpianto civile o un imperativo categorico. Consolo: «Quando negli Anni Cinquanta conobbi a Partinico il triestino Danilo Dolci e vidi sulla parete del suo ufficio una lettera minatoria con su disegnata una pistola dalla cui bocca veniva fuori un rosario di pallottole; quando vidi, una notte del gennaio 1969, per il primo anniversario del terremoto del Belice, tra le macerie di Gibellina, Carlo Levi arringare i contadini e rivolgere loro parole di conforto e di speranza; quando vidi in Sicilia tantissimi altri intellettuali del «Non potete abbandonarci» Gianfranco Dioguardi, imprenditore di Bari e docente universitario: «Il Meridione è sempre un pezzo d’Italia. Se vogliamo tornare all’epoca dei Comuni e delle Leghe, allora ognuno si darà la sua regolamentazione e magari viaggeremo con il passaporto da una regione all’altra. Ma se. vogliamo mantenere in piedi il concetto di nazione, pur essendo giusto battere sul tasto che i meridionali devono cominciare a badare a se stessi; non si può abbandonarli». Alberto Papuzzi ti Sotto l’effetto di una modernizzazione forzata, al Sud sono esplosi gli equilibri interni. Nella foto di Enzo Sellerio «Piana degli Albanesi»
LaStampa 16/05/1990 – numero 111 pagina 1
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