POVERO GARIBALDI….

POVERO GARIBALDI….

È  GHIUTO A GUERRA  E  HA  AVUTO ‘NA PALLA  N’CULO

 A Napoli si parla sempre più spesso di eliminare da strade e piazze il nome e la statua di Garibaldi, come se il poverino non avesse pagato abbastanza e non si fosse pentito della sua sciagurata spedizione.  Garibaldi, tutto sommato, era un noto avventuriero, un mercenario, e aveva fatto il suo mestiere, nel caso specifico ingaggiato da Vittorio Emanuele di Savoia e supportato economicamente dalla massoneria inglese e da molti “benefattori” imbambolati dalla propaganda antiborbonica e dal mito dell’ “eroe”.  Ideali?  Possiamo forse credere a quelli repubblicani e mazziniani manifestati nella gloriosa e sventurata avventura romana del 1849, traditi con le sue trame “sabaude” e con la consegna del sud a quello che lui stesso salutò come “primo re d’Italia”?

Nel settembre del 1849 era stato arrestato a Chiavari ed espulso dal Regno di Sardegna. Ricordiamo che pochi mesi prima Genova era stata bombardata da una nave inglese e dall’esercito piemontese, ed era stata presa con inaudita violenza, e saccheggiata, dai bersaglieri comandati dal generale Alfonso La Marmora, al quale Vittorio Emanuale aveva scritto una lettera di elogio per l’impresa.  E, nel mentre, la propaganda piemontese  continuava a stigmatizzare il bombardamento di Messina dell’anno precedente, da parte del borbonico “re bomba”.

“Perdonato” e “obbediente”, Garibaldi aveva partecipato alle guerre di indipendenza, facendosi onore ma vedendo,  nonostante le proteste, la sua città natia, Nizza, ceduta alla Francia anche se Napoleone III non aveva mantenuto gli impegni.  Aveva pensato seriamente di riprenderla con una spedizione, ma le pressioni che gli venivano da varie parti e un falso telegramma mostratogli da Francesco Crispi, secondo il quale l’insurrezione siciliana era iniziata bene, lo “costrinsero” alla spedizione dei Mille, organizzata segretamente dal conte di Cavour e dal siciliano Giuseppe La Farina.

Per la “liberazione” del sud aveva complottato direttamente con Vittorio Emanuele che la condannava ufficialmente e scriveva parole di sostegno e di rassicurazione al suo “caro” cugino Francesco II, re di Napoli.  Aveva dovuto accettare compromessi con i gruppi criminali antesignani della Mafia in Sicilia e con i camorristi di Napoli (pagati della massoneria inglese e convinti da emissari sabaudi). Aveva dovuto abbandonare il disegno di marciare su Roma per l’arrivo del bellicoso esercito piemontese che, gettata la maschera, si era schierato contro quel che restava delle truppe borboniche ed era stato determinante per la presa di Capua.  E aveva dovuto sottostare alla “sceneggiata” della consegna volontaria, mentre il suo “Esercito Meridionale” veniva platealmente snobbato e disprezzato da Vittorio Emanuele.  Disingannato dall’epilogo, non gli restò che il  volontario esilio a Caprera, ove completare l’acquisto dell’isola e la costruzione della sua “Casa Bianca”, con i soldi rimasti.

Intanto il re scriveva a Cavour: “…Come avrete visto, ho liquidato rapidamente la sgradevolissima faccenda Garibaldi sebbene, siatene certo, questo personaggio non è affatto docile né così onesto come lo si dipinge e come voi stesso ritenete. Il suo talento militare è molto modesto, come prova l’affare di Capua”.  Cavour, da parte sua, lo definiva “eroico ciula” (P. Granzotto, “Il Giornale.it” 11 novembre 2007).  Per chi non è piemontese (o lombardo) specifichiamo che “ciula” è uno che si fa fregare (fottere) facilmente; e spiace dover notare che, riguardo a Garibaldi, ne abbiamo illuminanti esempi, sia nelle faccende “politiche” che in quelle personali. Ricordo, in particolare, il matrimonio del 24 gennaio 1860 con la marchesina comasca Giuseppina Raimondi, appena diciottenne (lui aveva 52 anni): “Giusto il tempo d’aver pronunciato il «sì» che Garibaldi fu raggiunto da un ansimante suo devoto, palesemente seccato d’essere arrivato sul luogo in ritardo, seppure di pochi minuti. Costui consegnò al generale un biglietto”, col quale il mittente (pare uno degli amanti della marchesina) “… si’ era pregiato di informare Garibaldi che la vispa Giuseppina era in attesa di un figlio dal bergamasco Luigi Caroli, ch’ella aveva seguitato a frequentare sebbene promessa sposa…La fedifraga, interrogata, non smentì le accuse e Garibaldi la ripudiò immediatamente…:«Signora, apprendo ora che siete una puttana. Addio»” (P. Granzotto, “Il Giornale.it” 8 ottobre 2010). Nonostante la stra-dichiarata avversione di Garibaldi per i preti il matrimonio era stata celebrato con rito religioso e, benché non fosse consumato (dopo il “si”), ci vollero vent’anni di processi per farlo annullare.

Ritornato in Sicilia nel 1862, dopo l’Unità d’Italia, ed esaltato dalle adesioni, aveva passato lo stretto con i nuovi volontari, al grido di “Roma o morte”, ma fu fermato, ferito e arrestato all’Aspromonte, dai Regi Bersaglieri.  Ci riprovò ancora due volte, nel 1867, passando dal Nord, ma fu arrestato dai Regi Carabineri, all’alba del 24 settembre a Sinalunga in Val di Chiana, prima che raggiungesse il confine pontificio, e il 4 novembre alla stazione di Figline Valdarno, mentre si dirigeva in treno a Livorno dopo essere stato sconfitto, a Mentana, dalle truppe franco-papaline.

Di certo lo stesso Garibaldi si era pentito di aver contribuito all’unità dell’Italia, deluso e amareggiato dal comportamento di quelli che, nel libro “I Mille”, definisce “…i moderni Macchiavelli d’Italia” e auspica “…saranno sepolti nelle immondizie da loro stessi accumulate” (1874 pag. VI), “…quei miserabili Macchiavelli della Dora” (pag. 218), anche se è costretto a riconoscere, alle “…cime che governamo l’ItaliaGiù il cappello però, esse, le cime, hanno fatto l’Italia” (pag. 248).

E a lui si debbono le prime denunce della “Questione Meridionale”, generata dal sistematico saccheggio sabaudo di Napoli e del Sud, ridotti in pochi anni al degrado e alla miseria.  Nella lettera di risposta ad Adelaide Cairoli, che lo rimproverava per aver dato le dimissioni dal Parlamento Italiano rispondeva, il 7 settembre 1868: “…“…mi vergogno d’aver contatto per tanto tempo, nel novero d’un’assemblea d’uomini destinata in apparenza a far il bene del paese, ma in realtà condannata a sancire l’ingiustizia, il privilegio, e la prostituzione….Chiedete ai cari vostri superstiti, delle benedizioni con cui quelle infelici (popolazioni) salutavano ed accoglievano i loro liberatori.  Ebbene esse maledicono oggi a coloro che li sottrassero dal giogo d’un despotismo che  almeno non li condannava all’inedia per rigettarli sotto un despotismo più schifoso assai, più degradante, e che li spinge a morir di fame… non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale,  temendo d’esservi preso a sassate, da popoli che mi tengono complice della disprezzevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore ove noi avevamo gettato le  fondamenta d’un’avvenire Italiano”.  Nel volume “I Mille” scriverà poi, rivolto ai governati italiani: “…voi  siete i creatori del brigantaggio sempre crescente” (pag. IX), “…Troppe sono le colpe vostre e troppo l’odio che giustamente vi portano le popolazioni da voi ingannate, umiliate, depredate, tradite” (pag. 57).

Ma veniamo alla ferita.  L’episodio dell’Aspromonte è ricordato da molte interpretazioni popolari  della “fanfara dei Bersaglieri”, composta nel 1836.  L’accattivante musicalità del brano aveva consentito l’adattamento di innumerevoli testi diversi, colti e popolari, in italiano e in vari dialetti, alcuni dei quali diventati “marcia” ufficiale di alcuni battaglioni. Il garibaldino Giuseppe Cesare Abba annota, nel suo diario (“Da Quarto al Volturo”) che, in Sicilia, il 30 giugno 1860 il suo gruppo lasciò Rocca Palomba al suono “allegro e ardito” di una, tromba, “..diana dei bersaglieri piemontesi”, e che “…già i monelli la cantano come cosa loro”.  Nel 1889 i noti autori Di Capua e Cinquegrana ne fecero una canzone napoletana, “’E Bersagliere”,  che ebbe un discreto successo ma non scampò a modifiche popolari: ricordo, ad esempio, il verso “…’e bersagliere vònno ‘e vase de’ figliole”, in sostituzione dell’originale “…’e bersagliere vònno ‘e penne p’e cappielle”. Dopo l’Aspromonte, Garibaldi divenne protagonista di innumerevoli altre versioni, in  italiano e in vari dialetti; la più nota recita:  “Garibaldi fu ferito, fu ferito ad una gamba, Garibaldi che comanda, che comanda…”, “il battaglion” secondo una versione, “i suoi soldà” secondo un’altra, addirittura “i bersaglier” in una versione anacronistica ma molto popolare.  In napoletano sono note la versione che inizia con  “Garibaldi è gghiuto ‘a guerra e ha avuto ‘na palla m’pietto…”,  e un’altra, fanciullesca,  che lo accusa di aver preso le caramelle.

Io ricordo l’inizio di un’altra versione, appresa negli anni ’50 quando frequentavo la scuola Salvator Rosa, allora in Piazza del Gesù: “Galibard è ghiuto a guerra, e ‘a avuto n’a palla n’culo…”.  Cercando in Internet ho trovato lo stesso ricordo simpaticamente raccontato da Amedeo Colella che pure rimanda agli anni della “sua” scuola, venti anni dopo la “mia” (evidentemente, almeno dal punto di vista dell’aggregazione e dello scambio di  conoscenze extrascolastiche, la Scuola funziona).  Colella afferma, con solito entusiasmo e verve partenopea, che questa è la vera versione, la “verità storica” dell’avvenimento: Garibaldi fu colpito da due proiettili, uno dei quali non nella “gamba”, come per decenza e opportunità veniva generalmente riferito, ma in una natica (quindi nel culo), cosa che sarebbe stata tramandata “…dal medico personale di Garibaldi, il napoletano Ferdinando Palasciano”.

            Veramente il dottor Palasciano non fu medico personale di Garibaldi, ma uno dei tanti che lo visitarono durante la prigionia: fu però la sua precisa diagnosi a salvargli la gamba.  Andiamo con ordine.  Nello scontro dell’Aspromonte, il  20 agosto 1862, Garibaldi fu ferito da due colpi di carabina, una al piede destro, l’altra, come lui scrive, “all’anca sinistra”.  Il colpo al piede, che lo attinse nella parte anteriore della caviglia (al “collo del piede”), fu sparato dal luogotenente dei bersaglieri Luigi Ferrari (che per questo ottenne la medaglia d’oro); l’altra pallottola fu accidentalmente sparata da un garibaldino che stava alle spalle del Generale, ma fu di lieve entità, poco più che un graffio.  La ferita al piede comportò, invece, complicazioni che resero Garibaldi sofferente e storpio per il resto della vita, anche perché i tre medici che lo accompagnavano, Albanese, Ripari e Basile, non estrassero subito la pallottola, essendo in disaccordo nel diagnosticare se essa era stata ritenuta o se era rimbalzata.  Quest’ultima ipotesi fu la più accreditata, anche da numerosi altri medici, italiani e stranieri che visitarono il ferito, ma fu decisamente negata dal dottor Ferdinando Palasciano (che, ricordiamo, fu il principale “Precursore ed Ideatore della Croce Rossa”). Su suo consiglio la pallottola fu cercata con un sondino, localizzata nel calcagno ed estratta: oggi è esposta al Museo Centrale del Risorgimento di Roma (Vittoriano) assieme ad altri cimeli, compreso lo stivale forato.

            Tra i medici che visitarono Garibaldi durante la prigionia, alla Spezia, ci fu anche il ligure Giovan Battista Prandina, che aveva combattuto con lui a Roma e nella seconda Guerra d’Indipendenza, e a questo si deve, indirettamente, la diffusione della “verità storica” sull’altra ferita. Infatti, nel primo volume dell’ “Epistolario di Giuseppe Garibardi”, pubblicato nel 1885, Enrico Emilio Ximenes scrive, in nota a pag. 278: “…la palla invece di colpire il nemico investì Garibaldi nella natica destra (sic!). Questo fatto c’è stato raccontato dal dottor G. B. Prandina”.

            La posizione della seconda ferita era ovviamente nota a tutti i medici che lo avevano visitato, ed è possibile che, a Napoli, fosse divulgata dal dott. Palasciano. E mi piace credere che la versione dei mie ricordi fu adattata alla fanfara dei bersaglieri da un altro dei poeti-canzonieri dell’Otto-Novecento: penso in particolare a Ferdinando Russo, del quale è ben nota la devozione allo spodestato Franceschiello e l’avversione per Garibaldi, nonché l’umorismo e la predisposizione al linguaggio scurrile.  Purtroppo non sono riuscito a recuperare il testo completo.

 Partenopeo in Esilio, settembre 2023

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