Tramonto della donna più bella del secolo
L’amicizia coi Rothschild e le reazioni epistolari contro Crispi
Fantasie la volontaria clausura e l’orroree per gli specchi: usciva con i suoi cani, e leticava sempre col padrone di casa.
Su quali redditi fosse impostato il bilancio della gran vita conotta dalla Contessa di Castiglione a Parigi od altrove può essere spiegato per i quattro anni della sua missione diplomatica, cioè fino al ’59,dal filo diretto che la legava al Cavour. In seguito a tale sua posizione ed ancor più in seguito al favore di cui godeva presso Napoleone III, non le fu difficile legarsi d’amicizia coi Rothschild la cui potenza finanziaria in quell’epoca era incontrastata. Non v’era prestito francese o straniero che non fosse trattato dalla casa Rothschild, ed è evidente che la contessa di Castiglione, per la sua doppia posizione di fiducia, era in condizione di poter fornire notizie utili e tempestive.
Aiuti finanziari
L’amicizia che la legò ad Alfonso di Rothschild, dopo che al Gustavo, fu di quelle che resistono anche alle giornate buie. Rileviamo dallo studio del Loliée, che già citammo come il meglio documentato, che la contessa di Castiglione, quando il suo bilancio cronicamente caotico fu ridotto dagli usurai ai sussulti preagonici, si rivolse appunto ad Alfonso di Rothschild. Gli proponeva l’acquisto dei suoi beni in Italia, case in abbandono, terre infruttifere, il tutto largamente ipotecato. Alfonso di Rothschild la lasciò parlare a lungo, sempre ascoltandola con cordiale deferenza. L’affare era buono, disse paternamente, ottimo, anzi. Ma egli non si sentiva di incaricarsene. Scoraggiata e triste, prosegue il Loliée, ella si disponeva ad andarsene dopo questa risposta, quando il Rothschild, coll’intenzione di toglierla almeno da imbarazzi momentanei con un aiuto immediato, le disse: — Vi sono vicino, cara contessa, e vorrei provarvelo. Perchè non mi fate il favore di accettare questo po di carta? (dieci biglietti da mille franchi). Potrebbero servirvi per un periodo di riposo di cui mi sembra abbiate bisogno… e non parliamo più di affari.
— Ma il volto della Castiglione ncn si era rischiarato. Il banchiere, come per gioco, finse di riporre il denaro, poi lo riofferse, silenziosamente. Ma la Castiglione ebbe un gesto di sdegno.
— Stracciateli — disse nervosamente. — Oh no, oh no, — replicò il barone. E li ripose con cura nel cassetto dal quale li aveva tolti richiudendo a chiave lo scrigno. Questo fu l’ultimo incontro fra la contessa di Castiglione e il barone Alfonso di Rothschild. Ma il banchiere, per interposte persone, fu ancora di valido aiuto al bilancio di codesta spensierata sperperatrice.
Disgregazione intellettuale
Sulla soglia della vecchiaia, ormai, la contessa di Castiglione trepidava che l’unico suo reddito sicuro, la pensione che il governo italiano le corrispondeva, la pera per la sete, non venisse a decadere, travolta nel turbine di complicazioni politiche. Nella sua corrispondenza confidenziale si trovano ampie tracce di codesto stato d’animo che tanto la rendeva ostile al Crispi al quale non lesina parole dure, specialmente nel luglio dell’anno 1889. Per questo episodio conviene rifarsi alle concise Memorie del Giolitti, il quale racconta: Io mi trovavo, d’estate, in campagna a Cavour, quando egli (il Crispi) mi telegrafò di venire senza indugio a Roma. Arrivato; quando fui nel suo gabinetto, egli mi disse senz’altro, ex abrupto, che dovevamo aspettarci un colpo di mano sulla Spezia da parte della Francia. — Come? — esclamai io. — Siamo in guerra colla Francia? — No — mi rispose egli — è la Francia che si prepara ad attaccarci d’improvviso, con un colpo di mano che è imminente. — Il Crispi visse infatti per qualche anno sotto l’incubo di una aggressione francese. L’anno precedente, ritenendo senz’altro, nel febbraio, imminente una improvvisa apertura di ostilità, ne diede notizia all’Inghilterra. Ed ecco che la notte del dodici febbraio la Home Fleet si allinea davanti ai porto di Genova, dove l’ammiraglio Hevett chiede urgentemente notizie intorno alla dichiarazione di guerra. Le reazioni epistolari della contessa di Castiglione a codesti paradossali abbagli politici del Crispi sono crude e violentissime e non risparmiano nessuno: ella giunge a profetizzare un colpo di pugnale pel Re Umberto, qualificandolo di duro, ingrato ed ignorante, aggiungendo per sopramercato che la Regina Margherita è destinata a «fallire in tutto ciò che intraprende ». Ma da questo periodo in poi ciò che fluisce dalla sua penna di grafomane va letto con molta cautela. Affiora nel carteggio che proviene da lei in questi primi anni del suo ultimo decennio un dissolvimento spirituale cui segue presto, e di galoppo, una forma di, disgregazione intellettuale. Sono anni tristi. Ma si deve, per la verità, osservare ohe anche in questi anni tristi la miseria non bussò mai alla porta della Castiglione. Il bisogno si, con alterne frequenze, tanto che ella fu, talvolta, costretta a mandare in pegno (chez ma tante, ella scrive, usando il gergo) la sua argenteria. Ma questa faceva recapitare e ritirare da due suoi domestici. E sempre le rimaneva, oltre ai beni ipotecati, dei quali per interessamento personale del Crispi era stata sospesa la vendita giudiziale, un complesso di gioielli che una stima d’oggi valuterebbe circa trecento milioni di franchi. Da dove provenivano questi gioielli? Ricordi di una donna bella, specchio della sua vita facile negli anni migliori.
Si è voluto circonfondere di leggenda e di romantica malinconica poesia amarissima questo periodo della vita della contessa Virginia di Castiglione. Si e scritto largamente ohe ella si chiuse nella sua casa d’affitto dalla quale erano banditi gli specchi, quasi intendesse seppellire il tramonto della sua bellezza, affinchè questa sola sopravvivesse nel ricordo. Sono fantasie senza costrutto. Usciva spesso, coi suoi cani, leticava sulle scale o sotto l’atrio col padrone di casa, che era arcistufo delle sue manie, aveva specchi a iosa, ma era affetta, questo sì, da una forma di mania di persecuzione, aggravata dal ricordo dello splendido passato cui faceva tristamente riscontro lo squallore spirituale del presente. La solitudine stessa, che si vuole fosse di sua elezione, nella parte di sepolta viva che le si attribuisce, non è voluta da lei, che affannosamente scrive, a destra ed a manca, (quelle sue lettere sconclusionate invocando che le si venga a rendere visita, anche se una incipiente infermità la trattiene a letto. E scrive a tutti coloro che ella pensa dovrebbero esserle rimasti fedeli, a quei principi imtorno all’avvenire dei quali aveva tessuto i suoi sogni, pei quali ha tanto brigato, di sua iniziativa, vero, ma, comunque, dai quali ha motivo di sperare riconoscenza.
Tutto alle fiamme
E verrà ancora, una volta, l’ultima, quel grande gentiluomo che fu il duca d’Aumale, al quale ella scriveva indirizzando commossi appelli. Verrà nella casa in cui sui mobili si addensa la polvere, dov’è odor di chiuso, e i cani la fan da padroni sui divani ricoperti di raso stinto.
Il duca d’Aumale venne, un’ultima volta, si sedette su una poltrona bassa ai piedi del letto nel quale ella giaceva, ormai inferma. Non si tolse neppure i guanti grigi, il duca, e per tutta la durata della visita tenne il cappello a staio sulle ginocchia. Parlò con distacco e soltanto di politica. La sua era la visita di dovere ad una inferma. Usci silenziosamente, dopo mezz’oretta, con un ultimo inchino riguardoso.
Altri giorni anche più tristi seguirono; litigi coi domestici, che la derubano e l’abbandonano, noie coi fornitori, che reclamano. Muoiono i due cani; si fanno impagliare, e restano lì, guardia muta all’inferma, sul divano Secondo Impero, il divano di Passy, preferito da Napoleone III.
La bella di un tempo, lesa nella spina dorsale, sdentata, squilibrata, si assuefà al pensiero della morte, si crogiola in esso, riscaldando in un caos di ricordi e di rimpianti e, forse, di scrupoli, la fantasia malata. E scrive, scrive, tutto,, minuziosamente esponendo come la si dovrà comporre nella bara, coi cani impagliati ai piedi, la collana di perle jeune fille, di nove fili, tre neri, tre rosa, tre bianchi al collo, e colla chemise de nuit de Compiegne. E nessuno, scrive, si azzardi a scrivere di lei. Si diano alle fiamme tutti i documenti e tutto ciò che di carte ella lascia dietro di se.
Si brucia tutto, tutti si affannano a dare alle fiamme carte e carte.
E, vedi ironia, ne vengonp alla luce ora ottantaquattro chilogrammi.
Rupigné – FINE-
StampaSera 30/03/1951 – numero 76 pagina 4
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