Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da: “IL MONDO ILLUSTRATO” Giornale Universale-Anno IV Gennaio-Dicembre 1861
N.50 del 14 dicembre 1861
pag 372 – 374
PAGINE DELLA VITA DI G. GARIBALDI
L’ultimo giorno di Anita.
Da due anni havvi recrudescenza di biografi di Garibaldi.
Dal pavone Dumas al tacchino Ricciardi si crederebbe non esservi periodo, episodio, dettaglio di quella vita sì burrascosa e sì piena, che non sia stato minuta mente narrato. Eppure avvien tutto il contrario, e sonovi scene di essa, in cui sulle pagine istesse dettate od ispirate dal Garibaldi i precisi ragguagli del fatto sono surrogati da un paragrafo magniloquente, da una perorazione entusiasta.
Una di tali lacune verificasi nella narrazione del commovente episodio presentato dall’ultima parte della precipitosa marcia di Garibaldi da Roma, dopo l’ingresso dei Francesi, cioè dal momento in cui, sbandati i men che duemila volontarii che ancora il seguivano, il 1° agosto 1849 usciva il Garibaldi da San Marino colla moglie, affranta dalle fatiche nei suoi avanzati mesi di gravidanza, Ugo Bassi e Ciceruacchio, non avendo voluto sottostare al patto offerto loro di prendere un passaporto austriaco per l’America.
Oggi noi siamo in grado di colmare codesto vuoto, dando dettagli minuziosi, e per quanto è possibile precisi di cotesta dolorosa catastrofe, accompagnandola da disegni i quali vennero presi sui luoghi da persona che, colla religione istessa con cui un devoto intraprende un pio pellegrimaggio, si die’ a ricalcar le orme stampate da Garibaldi sulle sponde dell’Adriatico nei funesti dì d’agosto 1849, nei quali ei videsi morir fra le braccia la sua Anita; e toltagli ogni speranza di potere introdursi in Venezia, volse di nuovo il piede all’esilio, fermandosi sei mesi a Tangeri, sul lido barbaresco, e quindi vagando a Nuova-York, a Lima, nella Cina sino al 1855, in cui gli fu dato riedere in Sardegna e fabbricare il suo nido di Caprera.
Noi non esporremo sennonchè sommariamente li incidenti di quei giorni di prove dolorose, ma dal breve cenno nostro rileverà il lettore se essi non costituiscano una delle più interessanti e commoventi pagine della vita del gran condottiero.
E qui è debito notare come in una Strenna pubblicata nel decorso anno a Milano, col titolo: Un pensiero a Venezia, una scrittrice ferrarese, la quale celasi sotto le iniziali C. M., toccava questo episodio, ma il facea con inesattezze e lacune, che siam lieti oggi di poter rettificare e riempire.
Incominciamo impertanto a rilevare come e’ non fosse tra Magnavacca e Primaro che approdò Garibaldi partito da San Marino, sottraendosi agli Austriaci. Il dì 1° agosto (il Carrano, d’altra parte diligentissimo, nel suo bel libro I Cacciatori delle Alpi ( È un nitido volume di oltre 800 pagine con carte e ritratto, pubblicato dalla Società l’Unione Tip.-Editrice Torinese.) pone la data del 2) Garibaldi, co’ figli e la moglie, con Ugo Bassi, col popolano Angelo Brunetti e i costui figliuoli, insieme a circa un centinaio di volontarii che avevano voluto a forza seguire il destino del loro generale, s’imbarcarono su tredici navicelli pescherecci detti bragozzi, condotti da Chiozzotti a Cesenatico, affine di potere approdare a Punta-di-Maestra, donde speravano poter giungere a Venezia, bloccata da 14 mesi dall’Austriaco e da più di 3 mesi stretta da pertinace assedio.
All’alba del 2 (il Carrano erroneamente dice invece la notte) quei navicelli scontraronsi con quattro legni nemici, tre dei quali a vapore. E questi, accortisi della preziosità della preda, si fecero tosto addosso ai fuggitivi e li cannoneggiarono. Otto dei bragozzi caddero in mano dell’Austriaco, quattro, più vicini a quello in cui trovavasi Garibaldi, che ne aveva preso la manovra, dieronsi a remeggiare a furia verso il lido, ove ai legni nemici più grossi era impossibile il navigare, e riuscirono tutti e cinque a gettarsi sulla spiaggia. Era codesto un sito deserto, sulla sponda comacchiese, fra Magnavacca e Volano.
Nino Bonnet, il quale trovavasi villeggiante in quella sua campagna, aveva udito il cannone rintronar sul mare, e addatosi del fatto, corse incontro al Garibaldi per salvarlo dal pericolo in cui versava, essendo li Austriaci a Magna Vacca.
Il Bonnet trovò il generale, colla moglie, il Bassi e li altri sovraccennati, i quali avevan cercato temporario ricovero in una capanna, detta la Cavallina, nelpodere Felletti, luogo malsicuro , in quanto che rimanen do sulla via maestra i Tedeschi potevan colà sopraggiungere ad ogni istante, senzachè vi fosse speranza di sottrarsi alle loro indagini (*).
(*) Costà, nella fretta della fuga, lasciò il Garibaldi parecchie carte e un pacco di carta-moneta, la quale, il diappresso, venne bruciata dai Bonnet nella tema di compromettersi ritenendola.
Il Bonnet trasse sollecitamente quei malcapitati fuori dal podere, e traversando la folta e grande foresta, li condusse in un sito molto fuori dimano, detto la Casa Bianca, nei possessi d’Antonio Patrignani, ove allora villeg giava la moglie del proprietario. Codesta signora si fece un piacevole dovere di ospitare la illustre brigata, e già questa confortavasi alquanto, allorquando ecco giungere da Comacchio il Patrignani, portatore della trista novella, una masnada di Austriaci starsi per imbarcare onde invadere la spiaggia e scorrazzar la campagna in traccia del prezioso profugo. ll Bonnet e il Patrignani provvidero tosto allo scampo. Una piccola barca in uso per le gite di piacere sulla laguna venne approntata, e Garibaldi vi prende posto colla sua Anita, la quale, malgrado le vive preghiere della Patrignani, non volle restare presso di lei. Era la sera, e la laguna assai burrascoso. Ugo Bassi non seguì i fuggitivi.
Forsa troppo fidente nel rispetto che suole incutere l’abito sacerdotale, egli si recò sull’imbrunire a Comacchio, ma riconosciuto colà da un tal Fabri, gendarme pontificio, venne arrestato e messo a disposizione del Consiglio di guerra.
Tutta notte i fuggitivi serenarono nelle valli comacchiesi, e sul far del giorno dai loro conduttori scoraggiati vennero deposti in una deserta cascina.
Celeste Bonnet, fratello di Nino, risaputo al mattino il volger degli eventi, sollecito di quelle care vite, subitamente provvide acciò fossero raccomandate a mani più animose. Infatti il bravo Michele Guidi, pescatore, assunse sopra di sè la responsabilità di condurre in salvo Garibaldi ed Anita sino alla casa dei coniugi Ravaglia, sul cui patriottismo e sulla evangelica carità dei quali i Bonnet erano sicuri di poter fare assegnamento.
Il Guidi ebbe dappoi a narrare come durante tutto il tempo che seco navigò il Garibaldi – giacchè quel tragitto faceasi pur sempre sulla laguna procellosa – il generale non si mostrò nè tristo, nè preoccupato fuorchè per la moglie, la quale aveva perduti i sensi. Finalmente, battendo le vie d’acqua più remote, verso il tramonto potè il Guidi afferrare la chiavica Passopedone, che è sopra il Reno: quivi lasciò il prezioso pegno alla custodia d’un suo fratello che seco remigava, e procedè ad avvertire i Ravaglia. Ma il Ravaglia non era nella sua fattoria (ha questa il nome di cascina Guiccioli, e fa parte della piccola borgata di Mandriolo), e solo vi si trovava la moglie, Maria, gravemente inferma. Nel tempo che i custodi del profugo andavano ad avvertirla, la povera Anita agonizzante era tratta d’in sul carro ove le guide avean dovuto deporla, e che, temporariamente, veniva riposto nel cortile interno della fattoria. La infelice
era oramai giunta al termine de’ suoi travagli. Ella non riprese più i sensi, e mentre il Garibaldi la saliva fra le proprie braccia per la scala che conduce alle stanze più segrete della casa Ravaglia, ella esalava l’ultimo fiato. –
Garibaldi, a tale spettacolo, uscì quasi fuori dall’intelletto. Ma ad un tratto odesi lo stridulo tamburo austriaco. Ognuno freme all’inevitabile sovrastante pericolo, ad ognuno il terrore inchioda il piede e la lingua. Garibaldi non pensa, non vuole involarsi. Gli Austriaci si avvicinano, sono alla cascina. Era una numerosa pattuglia che, avvertita da una spia italiana della presenza di Garibaldi a Primaro, correva là difilata, senza occuparsi di praticare indagini lungo la via. E questa dimenticanza austriaca fu la salvezza di Garibaldi!
Intanto giugneva il Ravaglia dal villaggio di Sant’Alberto, ove gli Austriaci erano già installati (cioè a due sole miglia da Mandriolo). Esso prodigò ogni cura più affettuosa al generale, e forzatolo a rifocillarsi, a prender breve riposo, pensò a metterlo in sicuro fra i suoi nemici istessi, cioè a Sant’Alberto. Di colà, di nottetempo, ei tornò a Mandriolo, donde, sotto scorta sicura, il Ravaglia lo fece pervenire, traverso ai pantani ed alle macchie più folte, nella immensa pineta di Ravenna, città la quale dista da Mandriolo circa 16 miglia. Nelle prunete e nei segreti avvolgimenti di quella che il Garibaldi chiama la sacra selva, egli errò quattro giorni e quattro notti. Il Ravaglia
stesso portavagli il cibo, lasciandolo in una capannuccia che trovasi celata fralle piante della foresta, al lato destro di colui che rimira la veduta da noi qui offerta, presa nell’unico sitoove la selva è rada e praticabile.
Siamo accertati che costì, in una di quelle notti in cui Garibaldi errava per la pineta di Ravenna, ei vide passare in mezzo alle baionette austriache l’infelice Ugo Bassi condotto alla morte.
Quali fossero allora i suoi pensieri, ben si rileva dal frammento delle sue Memorie che qui ci piace riferire:
“A Sant’Angelo in Vado e a San Marino Anita arrestava i fuggenti colti dal panico terrore. La parola codardi scagliata dalla sdegnosa non colpiva più l’orecchio del pauroso. Anita! se tu non avessi veduto i tanti conflitti di Montevideo, il tumulo delle ossa raccolte sui campi di Sant’Antonio, i combattimenti del 30 aprile in Roma e quelli di Palestrina e di Velletri, con quale disprezzo pei miei compatriotti non saresti discesa nella tomba!
Intanto passeggia lo schiavo la infelice terra che ti copre, e forse non ardisce spargere un fiore sul sepolcro di chi tanto patì, e morì sì miseramente ! Io perdonerò agl’Italiani la tua morte il giorno in cui il servo non passeggerà più sul tumulo che racchiude le tue reliquie….. I tuoi orfani a me solo chiederanno allora della genitrice!…..
In San Marino io la scorsi affralita da tanti stenti e già inferma, e insistetti acciò si fermasse in quella città; ma inutilmente. Aumentavano i pericoli, non scemava la risoluzione di proseguire….. A Cesenatico faticammo una intiera
notte per effettuare la sortita del bragozzi che dovevano condurre la gente a Venezia. Anita, seduta l’intiera notte su d’un sasso, contemplava dolorosamente gli sforzi da me fatti per ottenere l’intento. C’imbarcammo, e il suo soggiorno a bordo fu un pati e continuo. Sbarcò sfinita sulla spiaggia della Mesola, e già si reggeva a stento, Invano lusingavasi, poverina, che la terra le ridarebbe le perdute forze! La terra non aveva più per essa che una fossa !… Figli di Sant’Alberto, uomini della sacra selva, Ravennati, deh ! raccogliete le ossa dell’americana guerriera, della martire della nostra redenzione !… Compirete opera pia, magnanima! Ognuno che la conobbe, ogni amante della patria vi benedirà, e vi benediranno gli orfani figli! E quando il vecchio avvoltoio dell’Italia sarà pasto dei cani, ed essi potranno avvicinare il materno avello, non più proscritti, essi imploreranno riconoscenti su voi la gratitudine dell’Italia non solo, ma quella del libero mondo che loro fu cuna. Intanto, o terra di Ravennati, terra di generosi – e lo so ben io! – sii lieve sulla salma dell’Anna mia! ” . . . .
Anita, che il marito non voleva lasciare cadavere in balia di stranieri, fu da esso dopo vive istanze lasciata alle cure del Ravaglia, che promise provvederla di inviolata sepoltura.
Parve per altro che il destino congiurasse a render vana questa promessa. Scavata in tutta fretta una fossa presso la cascina, il cadavere vi venne deposto con sì poca cura, che alla domane, passando di là un cacciatore col suo cane, questo si addiè del corpo mal riposto a fior di terra, e con poco zampettare n’ebbe tratto fuori una mano.
Grande fu il rumore che allora s’alzò per Mandriolo. La folla accorse sul luogo, e comunque il Ravaglia potesse a sua difesa ripetere esser egli a Sant’Alberto quando passarono i fuggiaschi che colà doveano aver deposto il cadavere, ei venne poco dopo arrestato e condotto a Bologna, ove, dopo lunga prigionia, pendeva sul suo capo sentenza di morte, se per le indefesse premure delli amici e per gli sforzi della moglie, che, gravemente ammalata, si trascinò in mezzo al pretorio, e cadde tramortita ai piedi dei giudici, questi, commossi, non lo avessero lasciato andare incolume.
Ma nol lasciarono incolume gli assassini che infestano tutte quelle campagne. Era corso voce che il Garibaldi, passando, aveva lasciato depositario di vistose somme il Ravaglia, perciò, appunto un anno dopo quel passaggio, e nel giorno
anniversario, cioè il 2 agosto 1850, una banda di malandrini invasero la cascina, e introdottisi nella casa, avendo il Ravaglia in un col fratello voluto oppor resistenza, stesero morto quest’ultimo, fe rirono quasi mortalmente il primo, e lo lasciarono esanime, dopo avere orribilmente maltrattata la moglie e compiutamente svaligiata la casa.
Il cadavere d’Anita Garibaldi, dissotterrato dall’angolo della cascina, venne di nuovo sepolto nel piccolo cimitero di Mandriolo, del quale pure qui offeriamo la veduta. . . . . . . . . .
In Ravenna, ove Garibaldi s’introdusse con varii amici, travestito da taglialegna, abbenchè tutta brulicante di Austriaci, ei potè trovare al bergo sicuro nella casa d’uno dei più furibondi reazionari, comunque, sino all’ultimo momento,
all’insaputa di costui. Sennonchè, geloso della moglie ch’erasi fatta custode del profugo, insospettito delle mosse e degli andirivieni di lei, egli, nella certezza di scoprire un rivale, volle sapere il nome di quegli che si ascondeva sotto il suo tetto. E la moglie animosamente gliel disse, ma nel tempo stesso gli fe sacramento ch’ella di sua mano lo immolerebbe, se si facesse denunciatore dell’illustre ospite, la cui vita erale sacra.
Nel 1859, venuto il Garibaldi a Ravenna per recuperare le ceneri della moglie, appena lo sgombro degli Austriaci gli permise il riscatto, egli si recò coi figli alla modesta chiesetta di Mandriolo, dopo avere con grande giubbilo riveduto li amici ed abbracciati affettuosamente i coniugi Ravaglia.
Costà furono celebrati solenni funerali alla salma della intrepida Americana, e meglio che trecento carrozze ne scortarono il carro funebre, che il marito fece trasportare a Nizza, ove adesso la salma è tumulata sotto semplice marmo e sotto la salvaguardia , ahimè! delle baionette francesi.
E qui porremo fine alle note, per la più parte inedite, che potemmo raccogliere su questo episodio della lunga epopea garibaldina, le quali abbiam fede sieno per riuscire utili a quanti raccolgono materiali sì per la storia de tempi che per quella di codesta vita meglio unica che singolare.
E. M.