Il posto di Anita al di là del fiume
In Italia ci sono almeno diecimila lapidi a segnare gli spostamenti del condottiero. La sua storia non è nei busti o nelle strade a lui intitolate. Tra paludi, canali e zanzare nella terra romagnola dove la donna amata da Garibaldi morì di febbre
di PAOLO RUMIZ
Ma dov’è il luogo della morte di Anita? Sono in una terra di bracconieri – paludi, canali e zanzare – ma il posto di Anita non c’è. Trovo solo una “via degli zingari” in mezzo al nulla, statuarie lucciole centroafricane nella boscaglia. C’è stato un temporale, la bolla d’afa si è dissolta. Vento e malinconia come nella Pampa, pioppi fruscianti, luce gialla oltre l’argine di Comacchio. Un cartello indica che qui combattè la ventottesima brigata del partigiano Boldrini, garibaldino pure lui. Ma anche del Generale nessuna traccia.
“La cà in do c’lè morta Anita?”. La vecchia seduta sulla porta spara una raffica in romagnolo. Sissignora, là voglio andare. “L’è d’là de fiò”, risponde indicando il Sud con un gesto della mano. Che cosa mai sarà il “fiò”, penso, qua il dialetto è peggio che a Brescia. Poi scopro che ” fiò” è “il fiume”, grigioverde e increspato nella sera. Il Reno che vien da Bologna. Sono perfettamente solo nel vento e non c’è nessun ponte. Sull’altra riva, un traghetto attaccato a un cavo d’acciaio sospeso.
“C’è qualcuno?”. Da un baracchino sull’argine esce un tipo in tuta gialla che salta sul pontone e accende il motore. “Mi godevo il fresco”, si giustifica allegramente. Si chiama Saverio e m’imbarca per un euro. La traversata da sola vale il viaggio. L’Italia stressata scompare. Niente capannoni, camion, polizia. Ecco perché Garibaldi scappò qui nel 1849, in fuga da Roma – repubblicana per pochi mesi – quando austriaci e papalini lo cercavano come il Mullah Omar.
Già, la repubblica romana. Ridotta a poche righe nei libri di scuola. Gesto blasfemo e inaudito su cui è meglio sorvolare. Meglio parlare dei Mille, che non toccarono il Papato. Ma fu a Roma che la leggenda garibaldina si consolidò nel ’49, e nell’avventurosa ritirata da Roma verso il Nord. E’ quello il capolavoro militare di Garibaldi. La conquista del Sud, al confronto, fu un gioco, aiutato da un’infinita fortuna.
Saverio spiega come arrivare da Anita, a casa Guiccioli, una fattoria. Subito oltre l’argine trovo una lapide: “Garibaldi riposò in questa casa / nella notte dal 4 al 5 agosto 1849 / e fidando nei patrioti di Sant’Alberto / fu salvo dal piombo straniero / e dal capestro sacerdotale”. La firma è di Olindo Guerrini, un grande laico bandito dalle librerie d’Italia. Mussolini, che era di queste parti, non gli fu da meno e scrisse “Claudia Particella, l’amante del cardinale”. Testo irreperibile, che fu il Duce stesso a togliere di mezzo.
Casa Guiccioli, custode in ciabatte, odore di lavanda e letame. In cima alle scale una stanza disadorna col letto dove Anita morì di febbre. “Quassù da ragazzino ci salivo col quintale di grano sulle spalle” racconta l’uomo, e spiega che Anita non ebbe pace neanche da morta. Fu sepolta in fretta poco lontano, nella “landa Pastorara” dove oggi c’è un’altra stalla, ma dopo cinque giorni qualcuno vide una mano uscire dalla terra. Vennero gli austriaci, fecero l’autopsia, poi misero il corpo nel cimitero di Mandriole, dove Lui venne a riprendersela anni dopo, da vincitore.
Lapidi. Ce ne sono almeno diecimila in Italia, a segnare gli spostamenti del Nostro. Garibaldi non è i mille monumenti in bronzo o le strade a lui titolate. È questa topografia corsara, disseminata nella provincia. Un libro sulla “trafila garibaldina” elenca le lapidi romagnole come i fotogrammi di un film. San Marino: qui Garibaldi “scioglieva la sue legione”. Sogliano: qui “giunse e sostò il 1° agosto, anelando a Venezia”, Cesenatico: qui Anita e Giuseppe “inseguiti da quattro eserciti trovarono ospitale rifugio”.
E poi Modigliana, che G. raggiunse in fuga verso il più sicuro granducato di Toscana. “Da questa porta / nella notte dal 20 al 21 agosto 1849 / passò / Giuseppe Garibaldi / scampato alle orde straniere / per trovare sicuro asilo / nella casa di Don Giovanni Verità”. Anche i preti erano anticlericali in Romagna, non ne potevano più di Pio IX, e a Modigliana ancor oggi si ricorda che “fede in Dio e idealità” convissero in don Verità, “giusto, democratico e figlio del popolo”. Ora ho il bandolo della matassa.
“Ma lei deve vedere il capanno di Garibaldi” fa il custode indicando Ravenna. Ed è già tempo di cercare un albergo e un piatto di tortelli. Sotto le stelle di mezza estate arrivo su internet ai nomi dei “curatori” del capanno; li chiamo al telefono, e rispondono subito, felici di esistere per qualcuno. “Guardi che se lui rimase vivo lo si deve a Ravenna, fummo noi a salvarlo” premette Maurizio Mari, del consiglio direttivo. Nessuno aiutò G. più dei padani. Gli stessi che oggi lo chiamano assassino e ladro di cavalli.
L’indomani appuntamento al capanno detto “del Pontaccio”, su un isolotto tra le paludi, poco oltre le ciminiere della zona industriale. Tre della confraternita mi aspettano col custode. Caldo feroce, bandiera inerte, tafani. Casetta in mattoni, tetto originale in canne. Dentro, un museo di roba. Elmetti della Grande Guerra, dagherrotipi, una lapide della massoneria d’antan che dice: “Queste sacra capanna i battezzati italiani onoreranno come quella di Betlemme a Nazareth”. In un registro del 1910, tra le firme, quella di “Virgilio Devetag, anni 8 di Fiume, italiano irredento”. E di Rachele Mussolini.
Odore salmastro, silenzio rotto dal tuffo carpiato di un pesce. Dino Ciani ha imparato ad amare G. leggendo Salgari da bambino. È repubblicano nell’anima, vedovo di un partito scomparso. Lamenta: “Un secolo fa il deputato forlivese Fratti andò in Grecia con Ricciotti Garibaldi e morì in battaglia contro i Turchi a Domokòs”. E sì, caro Ciani, oggi nessuno muore per la libertà altrui, meno che meno un onorevole. Mettiamo una panca sul lato in ombra, stappiamo un sangiovese fresco. Non capisco se sono io a reclutare i garibaldini o loro a reclutare me. Ennio Dirami, bibliotecario, mi spinge ad andare lontano: “Lo sai che in Russia c’è una giacca che si chiama Garibalda?”.
Capisco che so poco o niente del Nostro, ma posso andar d’istinto. Le facce di quelli che lo sputtanano non mi vanno giù. Tristi figuri. I garibaldini invece mi stan simpatici. Non basta, per partire? Chiedo se esiste una foto di Garibaldi con l’orecchio mozzo, quello di cui si favoleggia la mancanza. Rispondono che non ci hanno mai pensato; alle orecchie di G. loro ci credono per fede. Allora giuro che glielo troverò io quel pezzo di cartilagine, ma attaccato al suo testone. A costo di andare in capo al mondo.
E’ tempo di partire, c’è aria di temporale. Vado a Trieste, a casa, a fare i bagagli e comprare una bella camicia rossa. Dopo mezz’ora passo il Po color piombo e allora, non so cosa mi prende, sarà forse il sangiovese in corpo, in terra serenissima l’urlo per Roma capitale si trasforma in “Rovigo o morte!”, gridato con insana allegria ai campi di mais della secessione.
2. continua
(02 agosto 2010)
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