Il Sannio e i Sanniti

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RICERCA EFFETTUATA SU: GEOGRAFIA DELL’ ITALIA

CENNI STORICI — COSTUMI — TOPOGRAFIA — PRODOTTI — INDUSTRIA – COMMERCIO — MARI — FIUMI — LAGHI — CANALI — STRADE — PONTI — STRADE FERRATE – PORTI — MONUMENTI — DATI STATISTICI — POPOLAZIONE – ISTRUZIONE — BILANCI PROVINCIALI E COMUNALI — ISTITUTI DI BENEFICENZA – EDIFIZI PUBBLICI, ecc., ecc.

PROVINCIE DI AVELLINO, BENEVENTO, CASERTA, SALERNO

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IL SANNIO E I SANNITI

Il Sannio (Samnis, Samnites), una delle regioni principali dell’Italia Centrale, ed i suoi fieri abitatori, che lottarono per tanto tempo e con tanto valore contro i Romani, richiedono una
descrizione un po’ estesa a proposito delle odierne provincie di Avellino, Benevento, Foggia, Aquila, Campobasso e Caserta.
Il nome di Sannio fu adoperato in un senso alle volte più esteso ed alle volte più ristretto, formando i Sanniti un popolo numeroso e potente, il quale componevasi di parecchie tribù distinte e di altre tribù fondate da esso in vicinanza.
Ma il Sannio proprio (esclusi i Frentani e compresi gli Irpini) era una regione intieramente entro terra, confinante a nord coi Marsi, i Peligni e i Frentani, ad est coll’Apulia, a sud con la Lucania e, a sud-ovest e ovest, con la Campania e il Lazio.

I. — Descrizione generale.

Il territorio limitalo in tal modo era quasi intieramente alpestre, come quello che componevasi dei grandi massicci e delle ramificazioni degli Apennini. Ma, come l’intiera topografia del Sannio dipende dalla formazione e disposizione di questi gruppi montani, così è necessario esaminarli alquanto separatamente.

1. Nella parte settentrionale della regione adiacente ai Marsi e ai Peligni sorgeva un gruppo irregolare di montagne racchiudente le sorgenti del Sangro e stendentesi ai due lati della valle di questo fiume sino alle frontiere dei Frentani. Era questo il paese dei Caraceni, la più settentrionale delle tribù sannitiche, la cui città principale era Aufidena (ora Alfedena) nella valle del Sangro, a circa 8 chilometri da Castel di Sangro, nella provincia d’Aquila, circondario di Solmona.

2. La valle del Sangro era separata da un valico montano di media altezza dalla valle del Volturno, fiume considerato comunemente come appartenente alla Campania ; ma le sue sorgenti,
del pari che la parte superiore del suo corso e le valli di tutti i suoi primi affluenti, erano compresi nel Sannio. Aesernia (ora Isernia), situata presso uno di questi affluenti, era la città principale in questa parte del paese; mentre Venafro, più al basso nella valle, era già attribuita alla Campania.
Questa porzione del Sannio era una delle più fertili, delle più ricche e delle meno alpestri di tutta la regione sannitica. Per la sua vicinanza al Lazio e alla Campania la valle del Volturno era uno dei punti più accessibili alle armi romane e fu una delle strade maestre nel paese nemico.

3. Da Isernia un valico, praticato probabilmente sin da tempi più antichi ed attraversato da una strada ai tempi dell’Impero Romano, conduceva a Bojano nella valle del Tiferno. Questa città
era situata nel cuore stesso del Sannio, circondata da tutte le parti da alte montagne. Di queste la più importante è quella a sud-ovest, il Matese, oggidì uno dei monti più celebri degli Apennini, ma di cui non fu preservato l’antico nome. Il nome di Mons Tifernus può per vero essere stato applicato all’intiero gruppo ; ma è più probabile fosse ristretto, com’oggi quello di Monte Biferno, ad uno degli sproni o minori sommità del Matese, in cui son le fonti del Biferno.

Il nome di Matese si dà ad un vasto gruppo o massiccio di montagne, il quale riempie l’intiero spazio fra Bojano (Bovianum) e la valle del Volturno, si ch’esso manda le sue ramificazioni al basso, nella valle di quel fiume, donde circuiscono la valle del Calore e di là, per Morcone e Sepino, vanno alle fonti del Tamaro. La cresta suprema del Matese è monte Miletto (2050 m.), a sud-ovest di Bojano.
Quest’aspro accozzo di montagne, vestite di vaste selve e nevose al sommo per una gran parte dell’anno, dovette rimaner sempre inaccessibile alla civiltà e presentò sempre una barriera insormontabile alle armi di un invasore. Non vi potè mai essere una strada od un passaggio frequentato fra quella che seguitava la valle del Volturno e quella che costeggia la base orientale del Matese dalla valle del Calore a quella del Tamaro. Quest’ultima è la linea seguita dalla strada moderna da Napoli a Campobasso.

4. A nord di Bojano le montagne sono men alte e non hanno apparentemente sommità cospicue od almeno rinomate; ma l’intiero tratto da Bojano alla frontiera dei Frentani è occupato da una massa di aspre montagne che stendonsi da Agnone, nel circondario d’Isernia, e dalla valle del Sangro sino in vicinanza di Campobasso. Questo tratto montagnoso è attraversato dalle anguste e profonde valli del Trigno (Trinius) e del Biferno (Tifernus) che asportano le acque della catena centrale ma senza porgere alcun mezzo conveniente di comunicazione. I tratti montagnosi che stendonsi in tutti i lati di Bojano costituivano il paese dei Pentri, la più potente di tutte le tribù sannitiche.

5. A sud del Matese, e separato da esso dalla valle del Calore, sorge il gruppo del Mons Taburnus, detto sempre Monte Taburno, alto 1393 metri e rassomigliante nel carattere al Matese, ma meno alto e meno esteso. Formava, in un con le valli adiacenti, il paese dei Caudini, apparentemente una delle più piccole tribù sannitiche, e il celebre passo delle Forche Caudine era situato alla sua base.

Strettamente connesso al monte Taburno, e dipendente in certo qual modo da esso, quantunque separato dall’angusta valle dell’Isclero, un lungo giogo si estende da Arpaja (nella provincia e circondario di Benevento) sin presso a Capua. E di un’altezza di gran lunga inferiore, ma ergesi ardito e scosceso dalla pianura della Campania, di cui par formi il confine naturale. L’estremità di codesto giogo più prossimo a Capua è il monte Tifato (602 m.), cosi celebre nelle campagne di Annibale e da cui contemplò sì a lungo le pianure felici della Campania.

6. Alla falda orientale del monte Taburno era ed è situato Benevento, città principale degli Irpini e che, per la sua particolare giacitura, era in certo qual modo la chiave dell’intiero distretto abitato da quel popolo. Stava in una pianura od ampia valle formata dalla congiunzione del Calore coi suoi affluenti, il Sabato e il Tamaro, cotalchè valli ragguardevoli schiudevansi da esso in tutte le direzioni nelle montagne. Il Calore stesso è non solo il maggiore dei tributari del Volturno, ma alla sua congiunzione con esso, a circa 35 chilometri sotto Benevento, gli è appena inferiore per ampiezza e volume d’acque. Il Calore nasce nell’alto gruppo di montagne fra Sant’Angelo dei Lombardi ed Eboli. Codesto gruppo, detto alle volte Monte Irpino, è il più eccelso in questa parte degli Apennini e manda le sue acque a nord nel Calore e nel suo affluente il Sabato; mentre a est dà origine all’Ofanto, che mette foce
nell’Adriatico dopo aver traversato più di due terzi della larghezza della penisola; e a sud il Silaro scaricasi, con un corso assai più breve, nel golfo di Salerno. Da questo punto, che forma una specie di nodo nella catena principale degli Apennini, le montagne svolgonsi in un semicircolo a nord-est e nord, finché raggiungono le sorgenti del Tamaro e le montagne suddescritte in vicinanza di Bojano e Campobasso. In questa parte del suo corso la catena principale manda al basso i torrenti Ufita e Miscano a ovest ad ingrossar la acque del Calore, mentre a est dà origine al Cervaro (Cerbalus) che scaricasi nell’Adriatico.

7. Dal monte Irpino, verso est, tutta l’alta valle dell’Ofanto era compresa nel Sannio, quantunque la parte inferiore del suo corso appartenesse all’Apulia. Il limite esatto non può essere fissato, per essere i confini degli Irpini verso l’Apulia da un lato e la Lucania dall’altro, del pari che i confini in generale del Sannio, quasi del tutto arbitrari e non segnati da alcun limite naturale. Si può invero ammettere che in generale la regione montagnosa apparteneva al Sannio e le colline sottostanti all’Apulia; ma è evidente che siffatta distinzione è in sé arbitraria sovente ed incerta.
Per simil guisa l’aspra catena montagnosa, che stendesi lungo la sponda destra dell’Ofanto, par fosse compresa nel Sannio; ma la linea di separazione fra questo e la Lucania non puossi determinare con accuratezza. D’altra parte la staccata massa vulcanica del monte Vulture (1330 m.), con l’adiacente città di Venosa, non era al certo considerata come appartenente al Sannio.

II. — Topografia del Sannio.

 

Dei fiumi del territorio sannita, come delle catene e dei gruppi di montagne da cui pigliano origine, abbiam detto abbastanza. Di questi fiumi nessuno, tranne il Calore e i suoi affluenti, appartiene intieramente al Sannio; ma, prima di giungere al mare, attraversa i territori di altri popoli. Per tal modo il Sangro e il Trigno, dopo lasciate le montagne sanniliche, corrono, dopo solcato il paese dei Frentani, all’Adriatico; il Biferno separa il territorio di questo popolo dall’Apulia, mentre il Fortore e l’Ofanto attraversano la pianura pugliese. Dall’altra parte della catena centrale il Volturno, col suo affluente il Calore e i tributari di quest’ultimo, il Sabato e il Tamaro, trasportano al basso tutte le acque dell’Àpennino sannitico che vanno al Tirreno.

La topografia del Sannio è la più oscura e confusa d’Italia e la ragione è ovvia. Per le guerre incessanti che devastarono il paese e lo stato di desolazione a cui era ridotto al tempo dei geografi, solo poche città sopravvissero meritevoli di menzione; e molte delle mentovate da Livio e da altri autori durante le guerre primitive dei Sanniti coi Romani non ricompaiono più in un periodo posteriore. È invero probabile che alcune non fossero propriamente città nello stretto senso della parola, sì soltanto villaggi fortificati o fortezze in cui gli abitanti riducevansi coi loro averi e il loro bestiame in tempo di guerra. Quelle mentovate dai geografi come sempre esistenti sotto l’Impero Romano si possono così dinumerare:
Aufìdena (Alfedena), nell’alta valle del Sangro, è l’unica città diesi possa assegnare con certezza ai Caraceni.
Nell’alta valle del Volturno era Aesernia (Isernia), il cui territorio confinava con quello di Venafro nella Campania.
Alla base settentrionale del Matese stava Dovianum (Bojano) e nel tratto montano fra esso e i Frentani Treventum o Tereventum, oraTrivento, nella pro- vincia e circondario di Campobasso.
A sud-est di Bovianum era Saepinum, le cui rovine sono sempre visibili presso l’odierno Sepino, ed alla base meridionale del Matese, nella valle del Calore, Telesia (Telese); Alifae giaceva a nord-ovest nella valle del Volturno ed alla base del Matese in quella direzione.

Nel paese degli Irpini stavano : Beneventum (Benevento), capitale dell’intiero distretto ; Aeculanum, presso Mirabella Echino, a circa 24 chilometri a sud-est; Equus Tuticu (Sant’Eleuterio), presso la frontiera dell’Apulia; Aquilonia (Aquilonia); Abellinum (Avellino), presso la frontiera della Campania ; Compsa (Conza), presso le sorgenti dell’Ofanto, confinante con la Lucania, sì che Tolomeo gliel’assegna.

Sui confini della Campania, fra Benevento e le pianure, giaceva Caudimn (Arpaja), apparentemente già capitale della tribù caudina e celebre per le Forche Caudine; Salicula, il cui luogo preciso non fu determinato, ma che doveva essere situata in vicinanza del monte Tifato. La Calatici sannitica dall’altra parte era situata a nord del Volturno dove sorge l’odierno Cajazzo ; e Compulleria nel territorio d’Alvignano, in provincia di Caserta.

Il gruppo di colline sulla sponda destra del Volturno, verso la via Latina, doveva perciò essere compreso nel Sannio ; ma Teanum (Civitate, diverso da Teanum Sedisinum) e Cales (Calvi Risorta) erano per fermo due città campane. É però probabile che nei tempi primitivi i limiti fra la Campania e il Sannio andassero soggetti a molle fluttuazioni; e Strabone (v, p. 240) pare li consideri come fissati imperfettamente anche ai dì suoi.

Delle minori città del Sannio, o di quelle mentovate sol nell’istoria, si possono ricordare: Duronia identificata, ma con poco fondamento, con Civita Vecchia a nord di Bojano ; Murgantia, che credesi l’odierna Baselice, sulle frontiere dell’Apulia e presso le sorgenti del Fortore; Romulea, sulle frontiere dell’Apulia, fra Echino e Aquilonia; Trivicum (Trevico), nella medesima vicinanza; Plislia, presso Sant’Agata dei Goti, sulla frontiera della Campania; Califae e Rufrium, ricordate ambedue da Livio (vili, 25) in unione ad Alife e situate probabilmente in vicinanza di essa ; Cominvm, di località incertissima 5 Aquilonia, anch’essa d’incerta giacitura, ina die vuoisi distinguere dall’omonima odierna nella regione degli Irpini ; Maronea, registrata da Livio quando fu ricuperata da Marcello nella seconda Guerra Punica nel 210 av. Cristo; Sabatici, sui monti soprastanti all’odierna Volturara. Per non andar troppo per le lunghe omettiamo l’enumerazione di altre città sanniliche o poco importanti o di situazione incerta.

Il Sannio era attraversato anticamente da parecchie linee stradali. Una di esse, seguitando quasi la medesima linea stradale moderna da Napoli ad Aquila, procedeva su per la valle del Volturno da Venafro ad Isernia, donde attraversava il giogo per giungere ad Au piena (ora Alfedena) nella valle del Sangro e di là, di bel nuovo, sopra un altro valico montano, a Sulmo (ora Solmona nella pro- vincia d’Aquila). Un altro ramo conduceva da Isernia a Bojano e di là a Equits Tuticus (Sant’Eleu- terio), ove congiungevasi alla via Appia o Trajana. Un terzo ramo seguitava la valle del Volturno da Isernia ad Alife e di là per Telese a Benevento. Par vi fosse anche una linea transversale da Benevento a Sepino e a Bojano (Ititi. Ant., p. 102; Tab. Pealing.).

III. — Storia del Sannio e dei Sanniti.

Tutti gli storici antichi vanno d’accordo nel rappresentare i Sanniti quale un popolo di origine sabina e non il primo del paese che occupava, quando comparisce primamente nell’istoria, ma quale un popolo immigrato in un periodo relativamente posteriore. Questa relazione della loro origine é fortemente confermata dall’etimologia del loro nome, come si può vedere, fra gli altri, nell’opera insigne: Unter hai. Dialekte di T. Mommsen (p. 293).

Secondo Strabone (v, p. 250) l’emigrazione sannita fu una di quelle compiute per un voto fatto o per quel che chiamasi ver sacrimi o Primavera Sacra. Stava, al solito, sotto la protezione di Marte e si suppone fosse guidata da un toro (Strab., /. e). È probabile da ciò che gli emigranti non fossero numerosi e che si stabilissero nel Sannio piuttosto come conquistatori che come coloni. La popolazione preesistente era probabilmente Osca. Dice Strabone ch’eglino stabilironsi nel paese degli Osehi e ciò spiega la circostanza che in tutto il paese sannitico la lingua parlata era l’osco. Ma gli Oschi stessi erano indubbiamente una tribù congiunta ai Sabini; e quali che possano essere state le circostanze della conquista (di cui nulla sappiamo), sembra certo che in un periodo primitivo i due rami della popolazione eransi compiutamente fusi in un sol popolo sotto il nome di Sanniti.

Il periodo in cui avvenne la prima immigrazione dei Sanniti è ignoto; ma è probabile che eglino non tardassero a sentire la necessità di estendere il loro dominio sulle regioni più fertili che circondavano le loro montagne. Probabilmente eglino occuparono anzitutto la regione collinosa ma fertile dei Frentani, lungo l’Adriatico e il paese degli Irpini a sud. Ambedue questi popoli credonsi generalmente d’origine sannitica. I Frentani vuoisi alle volte appartenessero alla nazione sannita, quantunque pare non avessero unione politica con essi; gli Irpini al contrario erano considerati generalmente come una delle parti componenti la nazione sannita ; ma par formassero in origine una colonia separata, e la storia narrata da Strabone e da altri della derivazione del loro nome à’Irpini dal lupo (Hirpo, nome sabino o sannitico del lupo), che li aveva guidati, accenna evidentemente ad una separata e successiva migrazione. Il periodo è però incerto, come quello dello stabilimento primitivo degli altri Sanniti e solo sappiamo ch’essi conquistarono ed occuparono la Campania circa fra il 440 e il 420 av. C. La conquista della Lucania avvenne probabilmente in seguito.

La nazione Sannita, alla sua prima comparsa nell’istoria romana, pare consistesse di quattro diverse tribù o cantoni. Di questi i Pentri e gli Irpini erano di gran lunga i più potenti, a tale che è difficile comprendere come tribù così esigue quali erano i Caraccni e i Caudini potessero essere uguali ad essi. I Frentani sono spesso annoverati quali una quinta tribù o cantone; ma, quantunque di razza sannitica, sembra non formassero più parte del corpo politico del Sannio quando vennero primamente a contatto con Roma.

Noi non conosciamo né la natura, né il carattere della costituzione politica che stringeva in un fascio queste varie tribù sannite. Pare fosse una mera lega federale i cui legami rinserravansi in tempo di guerra, quando eleggevasi un generale a comandante supremo delle forze dell’intiera confederazione col titolo di Embratur, forma sabellica corrispondente al latino Imperator (Liv., x, 1; Niebuiir, voi. i, p. 107). Ma noi non troviamo menzione, anche nelle occasioni più solenni, d’alcun Consiglio regolare od assemblea deliberante per dirigere la politica della nazione.

La prima menzione dei Sanniti nell’istoria romana occorre nel 354 av. C, allorché strinsero un trattato di alleanza con la Repubblica, i cui progressi militari già incominciavano ad attrarre la loro attenzione (Liv., vii, 19; Diod., xvi, 45). È probabile che i Sanniti, i quali già erano padroni di Isernia e dell’alta valle del Volturno, spingessero in quel tempo le loro armi giù per quella valle ed attraverso la regione montana al Liri, allora occupato dai Volsci, dagli Aurunci e da altre tribù di origine Ausonia od Osca. Non andò guari che questa espansione territoriale gli trasse a cozzo coi Romani, nonostante la loro alleanza recente. Fra le tribù minori in questa parte d’Italia erano i Sedicini, i quali, comecché situati sui confini della Campania, avevano conservato sino allora la propria indipendenza e non erano compresi nel popolo Campano. Questo piccolo popolo, assalito, non si sa per qual cagione o pretesto, dai Sanniti, non sentendosi capace di competere con vicini così potenti, invocò l’aiuto dei Campani. I quali, nonostante la loro connessione coi Sanniti, sposarono pronta-
mente la causa deiSedicini, ma altro non fecero che attrarre la tempesta sul proprio capo; imperocché i Sanniti rivolsero allora le loro armi contro i Campani e, dopo occupato, con un buon nerbo di truppe, il monte Tifato, sovrastante a Capua, scesero nella pianura, sconfissero i Campani in battaglia campale alle porte stesse di Capua e gli rinchiusero entro le mura della città (Liv., vii, 29). In quest’estremità i Campani invocarono l’aiuto dei Romani e il Senato, dopo qualche esitazione, a cagione dell’alleanza recente coi Sanniti, annuì (Id., 30, 31).

Di tal modo ebbe principio la prima famosa Guerra Sannitica (343 av. C), una guerra lunga e accanita, la quale doveva decidere da ultimo se la supremazia d’Italia doveva rimanere ai Romani o ai Sanniti. La prima lotta fu però di breve durata. Nella prima campagna i due consoli M. Valerio Corvo e A. Cornelio Cosso riportarono due vittorie decisive: una alle falde del monte Gauro, l’altra presso Saticula. La prima di queste vittorie, come osserva il Nicbuhr (voi. in, p. 119), ebbe un’importanza speciale: fu il primo cozzo fra due nazioni rivali e poteva essere preso come presagio dell’esito finale della lotta. Una terza battaglia presso Suessola (Sessola), ove i residui dell’esercito sconfitto a monte Gauro riassalirono, dopo essere stati rinforzati, il console Valerio, ebbe fine di bel nuovo con una vittoria decisiva dei Romani e ambiduc i consoli trionfarono dei Sanniti (Liv., vii, 32-38; Fasti Capii.).

L’anno seguente le operazioni militari dei Romani furono impedite da un ammutinamento nel loro proprio esercito, di cui si prevalse la plebe in Roma ove scoppiarono dissidii. Codeste cause,
in un con la disaffezione crescente dei Latini, predisposero naturalmente i Romani alla pace ed un trattato di pace fu conchiuso infatti coi Sanniti nell’anno seguente, 341 av. C. I Romani abbandonarono i Sedicini al loro destino e lasciarono che i Sanniti colorissero i loro disegni aggressivi contro quel popolo infelice (Liv., vili, 1, 2).

La pace, che pose fine alla prima Guerra Sannitica, rinnovò l’alleanza preesistente fra Romani e Sanniti. Questi ultimi presero parte per conseguenza nella gran guerra contro i Latini e i Campani, scoppiata quasi immediatamente, non come nemici ma come alleati di Roma, e i Romani poterono così giungere nella Campania a traverso il paese dei Marsi e dei Pcligni e giù per la valle del Volturno.

Durante i quindici anni susseguenti sino alla rinnovazione delle ostilità fra Roma e il Sannio, il corso degli eventi fu quasi uniformemente favorevole alla prima. La fine fortunata della guerra coi Latini e i Campani e la consolidazione della potenza romana in ambidue quei paesi avevano grandemente accresciuta la potenza della Repubblica, e questa ne aveva tratto profitto sottomettendo parecchie delle più piccole tribù indipendenti in vicinanza — gli Ausonii, i Sedicini e i Privernati — che compariscono in questa occasione come indipendenti e separati dagli altri Volsci. Ma la potenza dei Volsci pare fosse in quel tempo assai menomata e fu, a quel che sembra, durante questo intervallo che i Sanniti combatterono vittoriosamente contro questo popolo, strappandogli o distruggendo le città di Sora e di Frege.lla (Ceprano) nella valle del Liri, mentre minacciavano la medesima sorte a Fabra- teria (Filvateira). Questa mossa diede ombra ai Romani, mentre i Sanniti dal canto loro non potevano vedere con indifferenza la sottomissione dei Sedicini ed era evidente che una nuova rottura fra le due nazioni era imminente. L’attenzione dei Sanniti fu però distratta per qualche tempo dal pericolo che li minacciava da un’altra parte onde essi unironsi ai loro congiunti, i Lucani, per opporsi alle armi di Alessandro, re dell’Epiro, il quale avanzatasi da Pesto nel cuor del paese. Sanniti e Lucani furono da lui sconfitti in battaglia campale; ma egli rivolse poi le sue armi verso il mezzodì
e la sua morte, nel 320 av. C, liberò i Sanniti da ogni apprensione da quel lato (Liv., vni, 17, 24).

Il medesimo anno 320 av. C. fu testimone dello scoppio della seconda Guerra Sannitica. L’occasione immediata fu l’aiuto prestato dai Sanniti alle città greche di Paleopoli (Posillipo) e Neapoli, alle quali i Romani avevano dichiarato guerra e nelle cui mura i Sanniti e i Nolani (alleati allora ai Sanniti) avevano introdotto un buon nerbo di ausiliari per guarnigione. Eglino non poterono però impedire la caduta di Paleopoli; mentre Neapoli sfuggì alla medesima sorte solo sposando l’alleanza di Roma, a cui rimase poi sempre fedele (Liv., vm, 22-20).

I Romani eransi in quel turno assicurata un’alleanza più importante in un’altra parte; i Lucani e gli Apuli, coi quali, come osserva Livio, la Repubblica non aveva previe relazioni, sia amichevoli sia ostili, strinsero ora un’alleanza con Roma. I Lucani, è il vero, furono tosto indotti dai Tarentini ad abbandonarla, ma gli Apuli la mantennero; e quantunque sia evidente che tutta la nazione non era unita e che molte delle città principali parteggiavano pei Sanniti, mentre le altre continuavano a star con Roma, non pertanto una diversione siffatta doveva essere di una massima conseguenza.
Quindi, durante la guerra, noi troviamo la lotta divisa in due porzioni: i Romani impegnati da una parte coi Sanniti sulle frontiere della Campania e nella valle del Volturno, donde si spinsero grado grado nel cuore del Sannio; e dall’altra parte guerreggianti nell’Apulia in difesa dei loro alleati contro le città ostili appoggiate dai Sanniti. È evidente che i Frentani dovevano già a quel tempo aver disdetta l’alleanza sannitica; in caso diverso sarebbe stato impossibile ai Romani far marciare i loro eserciti — come veggiamoaver fatto a più riprese — lungo la costa adriatica nell’Apulia.

Le prime operazioni guerresche furono di poco momento; i Romani conquistarono alcune piccole città nella valle del Volturno (Liv., vm, 25), e noi leggiamo che Q. Fabio e L. Papirio riportarono reiterate vittorie sopra i Sanniti sì che chiesero persin la pace, ma non ottennero che una tregua di un anno e, senza aspettarne il termine, ripigliarono con forze accresciute la lotta (Id., 30, 30, 37).
È evidente perciò che la potenza dei Sanniti non era menomata. Né la vittoria di A. Cornelio Arvino nell’anno susseguente (322 av. C), tuttoché li inducesse a chiedere di bel nuovo inutilmente la pace, produsse alcun effetto permanente; imperocché l’anno seguente (321 av. C.) i Sanniti, sotto il comando di C. Ponzio, non solo scesero in campo con un grosso esercito, ma inflissero ai Romani la tremenda e memoranda sconfitta delle Forche Caudine, che descriveremo trattando della provincia di Benevento. Non vi può essere dubbio che le circostanze e il carattere di questa sconfitta furono grandemente travisate nelle descrizioni trasmesseci; ma, qual che si fosse la sua vera natura, certo è ch’essa non cagionò interruzione materiale alle armi romane e che, dopo ripudiato il trattato o la capitolazione conchiusa dai consoli, i Romani rinnovarono, con vigor raddoppiato, la lotta.

È impossibile descrivere partitamente le operazioni delle successive campagne, le quali continuarono per ben diciassette anni con varia vicenda. Il disastro delle Forche Caudine scosse la fede di non pochi degli alleati dei Romani e fu anche susseguito dalla defezione delle loro proprie colonie di Satricum (Casale di Conca nel Lazio), di Fregella e di Sora.

Alcuni anni dopo (315 av. C.) la presa di Saticula (presso l’odierna Sant’Agata dei Goti) pei Romani e di Plistia (l’odierno villaggio di Prestia) pei Sanniti dimostra che ambidue gli eserciti erano sempre alle prese sulle frontiere stesse del Sannio ; mentre l’avanzare dei Sanniti al passo di Lantulae (ora passo di Portella sui confini dei territori romano e napoletano) e la vittoria che riportarono per la seconda volta sopra i Romani diede di bel nuovo una scossa alla loro potenza e pose per un momento in pericolo la loro supremazia nella Campania. Ma essi ricuperarono in breve il vantaggio e la loro vittoria in un luogo denominato China (d’incerta situazione) addusse la sottomissione dei Campani ribelli (Liv., ix, 22, 23, 27 ; Diod., xix, 72, 70).

Frattanto le loro armi avevano trionfato nell’Apulia assoggettando da ultimo l’intiera provincia, cotalché, nel 310 av. C, il console Q. Emilio Barbula potè portare la guerra in Lucania, ove prese la città di Nerulum (La Rotonda, nella provincia di Potenza). La vittoria decisiva dei consoli del 314 avanti C. schiuse dunque per la prima volta la via nel cuore del Sannio e i Romani posero l’assedio a Bovianum (Bojano), capitale dei Pentri.

L’anno seguente andò segnalato per la caduta di Nola, susseguita da quella di Atina e di Calatia (Cajazzo nella provincia di Caserta), e pareva probabile che la guerra volgesse al suo termine in favore dei Romani, quando lo scoppio di una nuova guerra con gli Etruschi, nel 311 av. C; divise la loro attenzione e, mediante la distrazione delle loro forze in un’altra parte, addusse una potente diversione in favore dei Sanniti. A questi nuovi nemici si aggiunsero gli Umbri del pari che i Marsi e i Peligni ; non pertanto i Romani non solamente tennero fermo contro tutti codesti popoli, ma portarono nell’istesso tempo le loro armi vittoriose nel cuore del Sannio.

Bovianum, capitale, come abbiamo detto, dei Pentri, fu presa e saccheggiata due volte: la prima volta nel 311 av. C. da G. Giunio e la seconda volta nel 305 daT. Minucio. Nell’istesso tempo Sora ed Arpino furono finalmente aggiunti al dominio romano. Queste sconfitte successive costrinsero da ultimo i Sanniti a chiedere la pace, la quale fu loro accordata nel 304 av. C., ma non sappiamo a quali condizioni. Sembra impossibile che i Romani, com’è affermato da Livio, rimettessero in vigore l’antico trattato di alleanza ed è piuttosto probabile ch’essi
consentissero in qualche modo a riconoscere la supremazia di Roma (Liv., ix, 45; Dionis., Exc., p. 2331; Niebuhr, voi. in, p. 259).
Ma la pace conchiusa fu di breve durata. Poco più di cinque anni trascorsero fra il termine della seconda Guerra Sannitica e il principio della terza. Ben si poteva credere che dopa una lotta di oltre vent’anni le risorse, se non lo spirito, dei Sanniti dovessero essere esauste; ma pare che, anche prima dello scoppio delle nuove ostilità, eglino dessero opera alacre ad organizzare una nuova coalizione contro Roma.

Un nuovo e formidabile ausiliario era comparso in un corpo numeroso di Galli, i quali avevano da poco superate le Alpi e, uniti ai Senoni, loro connazionali, minacciavano da settentrione i Romani.

Roma era allora in guerra con gli Etruschi e gli Umbri ed i primi affrettaronsi a procacciarsi i servizi dei Galli. I Sanniti frattanto, vedendo i Romani impegnati sufficientemente altrove, assalirono i loro vicini, i Lucani, probabilmente coll’intenzione di sostenere in quel paese il partito favorevole all’alleanza sannitica. Il partito opposto però chiamò in aiuto i Romani, i quali dichiararono guerra ai Sanniti ed ebbe così principio la terza Guerra Sannitica (298 av. C.). La lotta assunse allora proporzioni maggiori ; i Sanniti strinsero una lega con gli Etruschi, gli Umbri ed i Galli e per parecchie campagne successive le operazioni nel Sannio furono subordinate a quelle nella valle del Tevere. Ma il territorio del Sannio stesso fu devastato, nell’istesso tempo, dai generali romani in un modo così sistematico che chiaro apparisce ch’eglino avevano preso di nuovo il sopravvento; e quantunque in un’occasione i Sanniti se ne ripagassero devastando le pianure della Campania e di Falerno, eglino furono però ricacciati di bel nuovo nelle loro montagne (Liv., x, 15, 17, 20).

Finalmente, nel 295 av. C., la grande battaglia di Sentinum (Sentino, poco lungi da Sassoferrato, in provincia d’Ancona), in cui le forze riunite dei Galli e dei Sanniti furono pienamente sconfitte dal console romano Q. Fabio, decise delle sorti della guerra. Gellio Egnazio, il generale sannita ch’era stato l’organizzatore principale della Confederazione, rimase ucciso e la Confederazione stessa virtualmente sciolta (Liv., x, 27-30).

I Sanniti non pertanto ripigliarono le armi con indomita energia e, nel 293 av. C, misero in piedi un esercito di 40,000 uomini, reclutati con sacri riti solenni ed abbigliati in un modo particolare. Queste circostanze dimostrano a sufficienza l’importanza che annettevano a questa campagna, la quale non riuscì però più favorevole della precedente e i Sanniti furono di bel nuovo sconfitti dai consoli L. Papirio Cursore e Sp. Carvilio in due battaglie successive presso Aquilonia e Caminium (Cerreto Sannita?).

Le operazioni della campagna susseguente sono note imperfettamente a cagione della perdila dei libri di Tito Livio in cui erano narrati ; ma nell’anno successivo (292 av. C.) C. Ponzio, il vincitore delle Forche Caudine, ricomparisce, dopo un lungo intervallo, alla testa degli eserciti sanniti ; egli sconfisse Q. Fabio, ma fu sconfitto alla sua volta in una battaglia assai
più decisiva, in cui, dicesi, rimanessero uccisi ben 20,000 Sanniti e 4000 prigionieri, Ponzio stesso incluso, il quale fu tratto in trionfo da Fabio e poscia ucciso (Oros., ih, 22; Liv., Epit., xi). È probabile che questa grande battaglia desse il colpo di grazia alla potenza sannitica; ma la loro resistenza si protrasse ancora per due anni, e solo nel 290 av. C. condiscesero a porre giù le armi e a chieder pace. Anche in quell’anno il console M. Curio Dentato potè conseguire l’onore di un trionfo e la fama di aver posto fine alle guerre sannitiche dopo aver durato più di 50 anni (Liv., Epit., 11 ; Eutrop., ii, 9).

La fine della terza Guerra Sannitica è considerata da alcuni degli storici romani il termine della lotta fra Roma e il Sannio e non senza ragione; posciachè, quantunque il nome di Quarta Guerra Sannitica sia dato dagli scrittori moderni alla guerra che scoppiò di bel nuovo nel 282 av. C, i Sanniti in quell’occasione compariscono piuttosto come ausiliari che come attori principali. Eglino però unironsi alla lega stretta, ad istigazione dei Tarentini, contro Roma e presero parte a tutte le operazioni successive della guerra. Ei pare invero ch’eglino considerassero dapprima con gelosia o sospetto il procedere di Pirro e sol dopo la battaglia di Eraclea, in cui il console Levino fu sconfitto da Pirro, gli inviarono il loro contingente (Plut., Pijirh., 17). Ma nella grande battaglia d’Ascoli nell’anno susseguente (278 av. C.) i Sanniti ebbero una parte importante e pare confermassero la loro antica rinomanza di valorosi.

La partenza di Pirro per la Sicilia e la sua finale sconfitta per M. Curio a Benevento al suo ritorno (274 av. C.) lasciarono ai Sanniti ed ai loro alleati tutto il peso della guerra ed eglino erano del tutto incapaci a competere con la potenza di Roma.

Nulla sappiamo di particolare di queste ultime campagne: apprendiamo soltanto che nel 272 av. C, prima appunto della caduta di Taranto, i Sanniti, del pari che i loro. alleati i Lucani e i
Bruzii, fecero la loro finale ed assoluta sottomissione ai Romani, e il console Sp. Carvilio celebrò l’ultimo della lunga serie di trionfi sopra i Sanniti (Zonar., yiii, 6; Liv., Epit., xiv; Fast. Cap.).
Una nuova ribellione scoppiò invero nel Sannio Settentrionale tre anni dopo fra la piccola tribù dei Caraceni, ma fu repressa prontamente. Non sappiamo a quali condizioni i Sanniti si sottoponessero ai Romani, ma non vi può esser dubbio che la politica di questi ultimi ebbe in mira d’infrangere al possibile la loro organizzazione nazionale e tutti i vincoli d’unione fra essi. Nell’istesso tempo due colonie furono stabilite fra essi per tenerli in freno : una a Benevento nel paese degli Irpini (2G8 av. C.) e l’altra in Isernia nella valle del Volturno (2(34- av. C).

Tutte queste precauzioni non valsero però ad assicurare la fedeltà dei Sanniti durante la seconda Guerra Punica. Dopo la battaglia di Canne (216 av. C.) gli Irpini furono dei primi a dichiararsi in favore di Annibale e il loro esempio, dicesi, fosse imitato da tutti i Sanniti, tranne i Pentriani (Liv., xxii, 61). È singolare che questa tribù, la più potente e belligera di tutte, si sia tratta in disparte; ma l’asserto di Livio è confermato dal corso successivo della guerra, durante la quale i Pentriani pare non abbiano mai dato di piglio alle armi, mentre il paese degli Irpini e le porzioni meridionali del Sannio confinanti con la Lucania erano frequentemente la scena delle ostilità. Ma le colonie romane d’Isernia e di Benevento non caddero mai in potere dei Cartaginesi ; e Benevento, durante una gran parte della guerra, fu occupato da uno dei generali romani quale un posto militare importante.

Nel 214- av. C. e di bel nuovo nel 212 il paese degli Irpini rimase in potere dei Cartaginesi e divenne il teatro delle operazioni di Annone, luogotenente di Annibale, contro Sempronio Gracco.
Solo nel 209, essendo finalmente Annibale stato costretto ad abbandonare l’Italia Centrale, gli Irpini (ed apparentemente anche gli altri Sanniti ribelli) rinnovarono la loro sottomissione a Roma.

D’allora in poi l’istoria tace sui Sanniti sino al grande scoppio delle nazioni italiche, noto comunemente sotto il nome di Guerra Sociale (90 av. C), in cui rappresentarono una parte importante.
Non furono, è vero, dei primi a dar di piglio alle armi, ma seguirono prontamente l’esempio dei Picentini e dei Marsi; e costituirono un elemento così importante della Confederazione che dei due consoli scelti come capi degli alleati uno fu un sannita, Cajo Papio Mutilo (Diod., xxvii, 2, p. 539).
Oltre Papio, parecchi dei più cospicui generali italiani : Mario Egnazio, Ponzio Tclesino e Trebazio erano anch’essi di origine sannitica, e, dopo la caduta di Corftnium (Pentima) presso Sulmona, la sede del governo e il quartier generale degli alleati furono trasferiti nella città sannitica di Bovianum (Bojano) e di là successivamente in Isernia.

I Sanniti soffrirono assai nella seconda campagna della guerra, assaliti come furono da Siila che sconfisse Papio Mutilo, prese d’assalto Eclano e Bojano e sottomise gli Irpini. Gli altri Sanniti però continuarono a tenero il fermo ed un esercito, ch’erasi gettato in Nola, protrasse la sua resistenza contro tutti gli assalti di Siila. Quindi, al termine dal secondo anno della guerra (89 av. C), quando tutte le altre nazioni d’Italia eransi successivamente sottomesse ed erano state ammesse alla franchigia romana, i Sanniti e i Lucani erano sempre insottomessi ed alimentavano una specie di guerra di guerilla nelle loro montagne, mentre la fortezza ben munita di Nola gli incitava a mantenersi sempre nella Campania.

In questo slato di cose la guerra civile scoppiata fra Mario e Siila cambiò la natura della lotta.
I Sanniti sposarono ardentemente la causa di Mario per un sentimento naturale d’inimicizia contro Silla, dalle cui armi avevano avuto tanto a soffrire e la parte che presero nella guerra accesa, dopo il ritorno di Silla in Italia nell’83 av. C, fu così importante ch’essi impressero in certo qual modo il carattere di una guerra nazionale a quella che non era, propriamente parlando, che una guerra civile.

Un gran numero di essi servirono nell’esercito del giovane Mario, il quale fu sconfitto da Silla a Sacriporto, fra Signa e Preneste nel Lazio (Appiano, B. C, i, 87); e poco appresso un esercito, composto in gran parte di Sanniti e Lucani, sotto il comando di C. Ponzio Telesio, fece un tentativo disperato per liberare Preneste marciando improvvisamente contro Roma stessa. Furono affrontati dall’esercito di Silla alle porle stesse della città e la battaglia del 1° novembre dell’82 av. C. a Porta Collina, con tutto che terminasse con la vittoria compiuta di Silla, fu rammentata per lungo tempo come uno dei più grandi pericoli a cui fu esposta Roma in tutti i tempi. Ponzio Telesino rimase sul campo di battaglia e Siila sfogò il suo odio implacabile contro i Sanniti mettendo a fil di spada senza misericordia 8000 prigionieri fatti nella battaglia (Strab., v, 2-49; Plut., Sulla, 30). Egli aveva già fatto mettere a morte tutti i Sanniti fatti prigionieri alla battaglia di Sacriporto, allegando che essi erano gli eterni nemici del nome romano, e in forza di ciò ei diede mano ad una devastazione
sistematica del loro paese col fine espresso di estirpare tutta la nazione (Strab., /. e). Mal si può credere ch’egli mandasse pienamente ad effetto questa sanguinaria risoluzione, ma noi apprendiamo da Strabone che più di un secolo dopo la provincia era sempre in uno slato di estrema desolazione e che non poche delle già floride città sannitichc erano ridotte alla condizione di meri villaggi, mentre altre erano scomparse affatto (Strab., I. e.).

Né è probabile che il Sannio si riavesse più da questo stato di depressione, dacché Ieggesi in Floro (i, 1G, § 8) ch’esso trovavasi ai dì suoi in una quasi compiuta desolazione. Sembra, a dir vero, che alcuni tentativi fossero fatti sotto l’Impero Romano per far rifiorire la sua popolazione con nuovi coloni per opera segnatamente di Nerone, il quale fondò colonie a Saepinum (l’odierno Sepino), Telese ed Isernia; ma nessuna di esse pervenne ad una grande prosperità e l’intiera regione pare fosse scarsissimamente popolata e ridotta quasi per intiero a pascolo. Solo Benevento conservò la sua importanza e continuò ad essere una città florida per tutto il periodo dell’Impero Romano.

Nella divisione d’Italia sotto Augusto il paese degli Irpini fu separato dal rimanente del Sannio e posto, coll’Apulia e la Calabria, nella Seconda Regione, mentre il rimanente dei Sanniti fu incorporato nella Quarta Regione insieme ai Sabini, ai Frentani, aiPeligni, ecc. (Plin., ih, s. 11, 16, ecc.).

In un periodo posteriore questo distretto fu scomposto e il Sannio costituì, col paese dei Frentani, una provincia separata. La Provincia Sanimi è reiteratamente mentovata nelle iscrizioni del IV secolo ed era governata da un ufficiale detto Praeses (Mommsen, Die Lib. Col., p. 206). La stessa denominazione continuò ad essere in uso dopo la caduta dell’Impero Romano e il nome di Sannio qual provincia separata rinviensi in Cassiodoro e in Paolo Diacono (Cassiod., Vai-., xi, 30; P. Diac, Uist. Lang., 11, 20). Le sole città in essa che conservarono una qualche importanza al tempo di Paolo Diacono furono Aufidena (ora Alfedena), Isernia e Benevento.

L’ultima divenne, come vedremo, sotto i Longobardi la capitale di un ducato indipendente e potente che sopravvisse lungo tempo alla caduta del regno longobardo nell’Italia Settentrionale. Ma nelle rivoluzioni medieviche andò smarrita ogni traccia del nome e degli antichi confini del Sannio.

Presentemente il nome di Sannio si dà ancora ad una porzione dell’ex-reame di Napoli ; ma essa non è che una denominazione rinnovata al distretto che addimandavasi previamente il Contado di
Molise. Questo e la provincia adiacente del Principato Ulteriore (ora provincia di Avellino) comprendono la maggior parte dell’antico Sannio; ma i confini moderni non collimano con le divisioni antiche ed una porzione ragguardevole del territorio sannita è compresa nella Terra di Lavoro (ora provincia di Caserta), mentre un angolo nel nord-ovest è assegnato agli Abruzzi.

Del carattere nazionale dei Sanniti poco altro sappiamo se non ch’essi erano prodi in sommo grado e bellicosi e clic avevano ereditate le semplici e frugali abitudini dei loro antenati i Sabini.
Troviamo anche indizi che eglino conservavano i forti sentimenti religiosi o superstiziosi dei Sabini, di cui Livio reca un esempio notevole nei riti e nelle cerimonie con cui consacravano le truppe ch’essi reclutavano nel 293 av. C. (Liv., x, 38). Ma essi avevano» quasi cessalo di esistere come nazione ai tempi dei poeti e scrittori latini che ci sono pervenuti e quindi noi non possiamo meravigliarci che il loro nome sia mentovato di rado. Ci si dice che dimoravano in gran parie in villaggi aperti come i Sabini; ma è evidente che possedevano città ed anche fortificate. Ciò confermato dagli avanzi di mura di costruzione antichissima, che veggonsi ancora in Isernia, a Bojano e sopratutto a Alfedena (Abeken, Mitici Indiai, pp. 142, 148). Ma per la natura del loro paese i Sanniti dovettero essere sempre un popolo rozzo e pastorale e probabilmente non ricevettero una tintura di civiltà se non mediante il loro contatto coi Campani e gli Apuli.

Ricerca a cura del Prof. Renato Rinaldi