PROVINCIA DI BENEVENTO CAUDIO E I CAUDINI
Erano i Caudini una tribù dei Sanniti confinanti con la Campania. Il nome è connesso evidentemente a quello della città di Caudium, che deve essere stata probabilmente in un periodo la capitale o la città principale della tribù. Ma par certo che la denominazione non era ristretta agli abitanti di Caudio ed al suo territorio immediato. In più di un passo Tito
Livio parla dei Caudini come di una tribù o di un popolo nei termini medesimi con cui parla degli Irpini (Samni les Caudini, xxm, 41 ; Caudinus Samnis, xxiv, 20) e il Niebuhr (voi. i, 107; voi. il, 85) suppone essere stati i Caudini una delle quattro tribù componenti la Confederazione Sannitica.
Ciò è però assai dubbio ed è notevole che noi non troviamo fatta menzione dei Caudini quale una tribù separala durante le guerre dei Romani coi Sanniti. Forse erano compresi naturalmente nella menzione generica dei Sanniti, posciachè il loro paese deve essere stato del continuo il teatro delle ostilità ; e Vellejo Patercolo parla dei Caudini come di popolo con cui fu conchiuso il trattato dai Romani dopo la loro sconfitta delle famose Forche Caudine, dove Livio parla genericamente dei Sanniti.
È impossibile determinare con accuratezza i limiti del loro territorio : la gran massa del monte Taburno (detta Caudinus Taburnus da Graz. Falisco nel Cyneget., pag. 509) era nel cuore di questo territorio, il quale è probabile si congiungesse a quello degli Irpini da un lato e a quello dei Pentri dall’altro, mentre a ovest confinava immediatamente con la Campania.
La capitale dei Caudini (Caudium, Caudinus) era situata sulla strada da Benevento a Capua.
Pare probabile che fosse nei tempi primitivi un luogo d’importanza, ma essa non occupa die un posto secondario nell’istoria. È ricordata primamente durante la Seconda Guerra Sannitica (321 av. C.) quando vi accampò l’esercito Sannita sotto C. Ponzio prima del grande disastro dei Romani nel passo vicino noto sotto il nome di Forche Caudine e di bel nuovo pochi anni dopo quale quartiere generale occupato dai Sanniti per sorvegliare le mosse dei Campani.
La città di Caudio non è mentovata nella Seconda Guerra Punica quantunque vi si alluda reiteratamente ai Caudini : il Niebuhr la suppone distrutta dai Romani per vendetta della grande sconfitta toccata in vicinanza di essa ; ma non ve n’ha prova. Ricomparisce in un periodo posteriore quale una piccola città situata sulla via Appia e derivante apparentemente la sua importanza principale dal transito dei viaggiatori, e la stessa causa la preservò sino al termine dell’Impero Romano come leggiamo negli Itinerarii. Sappiamo che essa ricevè una colonia romana di veterani, e da Plinio, del pari che dalle iscrizioni, rilevasi che essa conservò il suo carattere municipale con tutto che spogliata di una gran parte del territorio in favore della vicina Benevento. Il periodo della sua distruzione è ignoto: il nome occorre altresì nel secolo IX, ma è incerto se Caudio esistesse ancora a quel tempo.
La sua situazione è fissala dagli Itinerarii, i quali tutti concorrono nel porla lungo la via Appia, a 21 miglia romane da Capua e ad 11 da Benevento ; e come la distanza totale in tal modo assegnata è perfettamente corretta, non vi può esser dubbio che anche la divisione di essa è tale. Non pertanto l’Olstenio e tutti quasi i topografi italiani pongono Caudio ad Arpaja, che sta a meno di 27 chilometri da Capua, com’è attestato da una pietra miliare romana scoperta e dalla misura della distanza. Il perchè ben si appone il D’Anville ponendo il sito di Gaudio circa 6 chilometri più prossimo a Benevento fra Arpaja e Montesarchio. Doveva sorgere sul o presso il fiumicello Isclero, quantunque non vi si veggano rovine. Arpaja, di cui l’origine non puossi rintracciare più in là del secolo X, sorse probabilmente, come tante altre città italiane, in luogo di Caudio quando era già distrutto od abbandonato dai suoi abitanti. Il punto è importante per la sua connessione con la vexata quaestio intorno la vera situazione del celebre passo delle Furcae Caudinae — la scena di uno dei maggiori disastri toccati ai Romani nel corso intiero della loro istoria — e di cui verremo ora trattando succintamente.
Forche Caudine.
La narrazione tramandataci da Tito Livio di questo noto famoso evento è l’unica sufficientemente particolareggiata si da spargere qualche luce sulla quistione topografica. Egli descrive le Forche Caudine quale un valico composto di due gole anguste (saìlus duo alti, angusti, silvosique, — angustiae, IX, 2) congiunte da una serie consecutiva di montagne ai due lati, racchiudenti nel mezzo una pianura anzichenò spaziosa, erbosa ed irrigua.
L’esercito romano, credendo molto lontani i Sanniti, si avanzò incautamente nella prima gola, ma, giunto che fu alla seconda, la trovò sbarrata da tronchi di alberi e da pietre che la rendevano al tutto insuperabile ; e quando tornato indietro alla prima gola, all’ingresso della valle, trovò anche questa asserragliata come l’altra, si abbandonò alla disperazione. Dopo di esser rimasto alcuni giorni imprigionato fra le due gole, fu costretto dalla fame ad arrendersi a discrezione ai Sanniti.
È ovvia l’esagerazione di questo racconto in quanto esso rappresenta i Romani come sopraffatti soltanto dalle difficoltà del terreno senza neppure tentare di assalire, per aprirsi un passo, il nemico ; e il Niebuhr inferi giustamente ch’essi dovevano aver toccato una sconfitta prima di esser rinchiusi fra le due gole. Cicerone altresì allude due volte alla battaglia e sconfitta dei Romani a Caudium: Caudinum Proelium (de Sen., 13); cinti male pugnatimi ad Caudium esset (de Off., in, 30); ma, dove non vogliasi respìngere il racconto Liviano come favoloso di sana pianta, uopo è supporre che il nemico derivasse un grande profitto dalle particolarità del luogo ; e la stessa cosa è affermata da tutti gli altri scrittori che narrarono, comecché più brevemente, il medesimo avvenimento.
Un’antica tradizione, che fu seguitata da quasi tutti gli scrittori sull’argomento, rappresenta la valle di Arpaja, sulla strada maestra da Capua a Benevento, come scena dell’azione; e il nome di Forchia (villaggio di 988 ab.) a circa un chilometro e mezzo da Arpaja, pare confermi la tradizione.
Ma tutti quasi i viaggiatori hanno osservato come poco consuoni codesta valle con la descrizione di Tito Livio: come osserva il viaggiatore inglese Keppcl Cravcn (Southern Tour, pagg. 11-12) «essa non è altro che una pianura oblunga circondata da alture, sufficienti appena a conferirle il nome di valle e rotta in più parti da strade e sentieri in varie direzioni ».
V’ha un valico angusto presso Aricnzo che puossi supporre una delle suddette due gole all’ingresso della valle, ma non v’è la gola corrispondente all’altra estremità; riè v’ha alcun fiume che scorra lungo la valle. E ben lungi da offrire ostacoli straordinari a schiere use a guerreggiare negli Apennini, poche forse sono le valli nel Sannio che ne offrano meno. Dall’altra banda, un altro valico nella medesima vicinanza fu additato da un altro viaggiatore inglese, il signor Gandy, il quale par corrisponda assai bene alla descrizione Liviana delle Forche Caudine. E questa l’angusta valle fra Sant’Agata de’ Goti a Mojano sulla strada dalla prima a Benevento percorsa dal fiumicello Isclero.
In favore di codesto valico, come vera scena delle Forche Caudine, allegasi ch’esso corrisponde esattamente alla descrizione di Livio, come quello ch’è rinchiuso fra alte montagne, attraversato, come abbiam detto, dal fiumicello Isclero, ed accessibile ai due lati da due anguste gole. Dalla narrazione di Livio chiaro apparisce che Caudium stesso non era in quel valico. Se i Romani stavano a campo sotto le mura «lolla Calatia Sannitica (l’odierna Cajazzo in provincia di Caserta) la strada a Benevento sarebbe stala assai più breve di quella a traverso il valico di Arpaja ; ed ammettendo anche che si trovassero invece sotto la (Malia Campana (sulla via Appia nel luogo detto Le Galazze fra Caserta e Maddaloni) la strada a traverso codesto valico sarebbe slata così breve come quella lungo la valle di Arpaja.
É notevole eziandio che non v’ha menzione dopo quest’evento delle Forche Caudine; quantunque fossero situate fra Arienzo ed Arpaja sulla via Appia — la grande strada maestra da Roma e Capua
a Benevento — le Forche Caudine sarebbero al fermo state ricordate durante la Seconda Cuerra in cui un tal valico sarebbe stato di una grande importanza strategica. L’assenza di ogni allusione alle Farcae o Furcuìac Caudinae per Orazio che traversò il valico di Arpaja par dimostri eziandio che esse non si trovavano su quella celebre strada romana :
Hinc nos Cocceii recipit pienissima villa Quae super est Gaudi Caupona !
Gli argomenti sembrano perciò in favore del valico di Sant’Agata dei Goti, dove non vogliasi rigettare al tutto la narrazione di Livio e supporre che i Romani esagerassero grandemente, dopo di essere stati sconfitti, le difficoltà del luogo. Codesto lato della questione e soscrilto sino ad un certo punto dalla duplice allusione surriferita di Cicerone: Candì num proelium e Cum male pugnalum ad Caudium esset.
Battaglia di Benevento e sepoltura di Re Manfredi.
Ma più delle antiche Forche Caudine è interessante e memorabile la Battaglia di Benevento, divenuta vieppiù famosa ai di nostri dopo il ben noto romanzo di Francesco Domenico Guerrazzi.
Codesta battaglia, in cui peri Re Manfredi — figliuolo naturale dell’imperatore Federico II e di Bianca, figliuola del conte Bonifacio Lancia, nato in Sicilia nel 1231 — fu combattuta il 20 febbraio 1266 nella pianura di Grandella presso Benevento. Per dissapori e litigi con la Santa Sede, Manfredi fu scomunicato nel 1259 da papa Alessandro IV, ed Urbano IV, che gli succede nel 1261, offri a Carlo conte d’Angiò e fratello di San Luigi re di Francia, la corona delle Due Sicilie. Carlo scese in Italia, fu incoronato a Roma nel gennaio del 1206 ed entrò tosto con un esercito nel regno di Napoli per cacciarne Manfredi. Il quale tentò appiccar trattative, per impedire le ostilità, ma Carlo respinse altieramente gli inviati di Manfredi con le parole seguenti trasmesseci da Giovanni Villani: Alles et dit moi a le Sultan de Locere o je mettrai lui en enfers, a il mettra moi en paradis.
L’esercito di Carlo passò senza ostacoli il Liri a Ceprano, che il tradimento del conte di Caserta aveva lasciato indifeso, s’impadronì della fortezza di Rocca d’Arce, e, preso d’assalto il castello di San Germano, si avanzò con rapide marcie su Benevento, ove Manfredi aveva adunate le proprie forze.
L’esercito francese stava schierato nella pianura di Grandella sulla sponda settentrionale del fiume Calore. Manfredi, disdegnando il vantaggio che gli porgeva la sua situazione entro le mura di Benevento, e non aspettando l’arrivo degli alleati Ghibellini che traevano in suo aiuto, risolvette di appiccar subito battaglia, con tutto che l’esercito di Carlo d’Angiò difettasse già di viveri e dovesse esser ridotto fra pochi giorni alle più estreme necessità.
Manfredi passò il fiume con le sue forze le quali sgominarono, a prima giunta, il vanguardo francese, mentre gli arcieri saraceni seminavano in mezzo ad essi la morte. Entrò allora in campo
la cavalleria francese e la battaglia divenne tosto generale. I Saraceni furono respinti, ma la cavalleria tedesca li sostenne con tanto valore che l’esito della battaglia divenne incerto.
Manfredi ordinò allora alla sua riserva di 1400 cavalieri, che non avevano ancora combattuto, di appoggiare i fantaccini tedeschi con una carica contro i Francesi i quali stanchi ormai sarebbero stati sgominati infallantemente con quella carica. Ma in quel momento decisivo i Baroni dell’Apulia e i Conti di Caserta e di Acerra lo abbandonarono con altri, lasciando il campo con la riserva.
Manfredi allora risolse di perir combattendo piuttostochè sopravvivere alla sconfitta ed alla perdita del suo regno. Mentre calcavasi in testa l’elmo, l’aquila d’argento che ne formava la cresta cadde sulla sella del suo destriere ed egli esclamò : « Hoc est signum Dei ! Io ho attaccato l’aquila con le mie proprie mani e non è per caso che la si e staccata ». Si slanciò quindi nel più fitto della mischia senza alcun segno che lo distinguesse dagli altri cavalieri ; ma le sue schiere eran già sopraffatte e Manfredi, non le potendo più ravviare ed impedirne la fuga, cadde pugnando da quel prode ch’egli era e come addicevasi al discendente di una stirpe eroica.
Per ben tre giorni non ne fu scoperto il cadavere, quando alcuni soldati, percorrendo il campo di battaglia, lo riconobbero e lo trasportarono sopra un asino davanti a Carlo, il quale adunò i baroni, suoi prigionieri, per attestarne l’identità. Il dolore disperato del conte Giordano Lancia è narrato pietosamente dai cronisti contemporanei. Quando il vecchio conte vide il cadavere, gli si gettò addosso smaniando e lo coprì di baci e di lagrime esclamando: « Ohimè, ohimè! Signor mio, signor mio buono, signor savio, chi ti ha così crudelmente tolto la vita? ».
I cavalieri francesi rimasero così commossi a quello spettacolo che chiesero gli onori di un funerale pel regal cadavere; ma Carlo non volle concederli, allegando che Manfredi era scomunicato, e volle fosse gittato in un fosso presso il ponte di Benevento, ordinando che ogni soldato francese vi gettasse sopra un sasso. Ma Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Cosenza, per ordine di papa Clemente IV, fece estrarre il cadavere dal fosso e gittarlo oltre la frontiera del regno sulle sponde del Rio Verde; fatto commemorato dall’Alighieri in quei ben noti stupendi versi nel Canto in del Purgatorio, 121 e seg. :
Orribil furon li peccati miei ;
Ma la Bontà infinita ha sì gran braccia,
Che prende ciò, che si rivolve a lei.
Se ‘l pastor di Cosenza ch’alla caccia
Di me fu messo per Clemente, allora
Avesse in Dio ben letta questa faccia,
L’ossa del corpo mio sarieno ancora
In co’ del ponte presso a Benevento,
Sotto la guardia della grave mora.
Or le bagna la pioggia e muove ‘l vento
Di fuor del regno quasi lungo ‘l Verde,
Ove le trasmutò a lume spento.
La vedova di Manfredi, principessa greca Elena, ch’egli aveva sposato nel 1259, fu arrestata mentre fuggiva in Epiro, aTrani, e morì in prigione a 29 anni, in capo a tre anni. Sua figlia Beatrice fu, dopo 18 anni di carcere, liberata da Carlo d’Angiò contro uno dei suoi figliuoli prigioniero in Aragona. I tre figliuoli di Manfredi, Enrico, Federico ed Ezio, morirono in prigione. Sul maritaggio di Costanza, primogenita di Manfredi dalla sua prima moglie Beatrice di Savoia, con Pietro III di Aragona (1262), fondaronsi le pretensioni posteriori di questa Casa sul reame di Napoli.
Ma dove fu sepolto Manfredi? — Questa questione fu discussa nel bel libro Nelle Puglie, del celebre storico di Roma e poeta Ferdinando Gregorovius, tedesco, morto il 1° maggio 1891. Man-
fredi, dice egli, fu sepolto e sul fosso ove fu sepolto fu accatastato un gran cumulo di sassi. Come dice Dante, il luogo della sepoltura fu: In co’ (in cima) del ponte presso Benevento; ma molti furono e sono i ponti presso Benevento. Alcuni archeologi di quella città opinano sia il ponte Valentino (ora con stazione ferroviaria) a est, sulla strada a Foggia che dovettero prendere, non ha dubbio, i fuggiaschi superstiti di Manfredi, dopo la sconfitta per arrivare a Lucera presidiata dai fidi Saraceni. D’altra parte Manfredi aveva cercato una morte eroica nella mischia, come vedemmo, nel punto in che vide le sue schiere sgominate e volte in fuga. Ciò avvenne in vicinanza del ponte Valentino (pons Valentinus), ove più tardi Carlo d’Angiò, in ricordanza della vittoria segnalata, fece edificare un monastero come attestano questi suoi termini precisi: « Sul Campo Beneventano (Campus Beneventanus), ove abbiamo riportato vittoria su Manfredi, nel territorio di San Marco di là da Benevento » ; il che fu posto in sodo col presidio di documenti da Minieri Riccio e dal Del Giudice.
Non è però da tacere che la tradizione popolare addita il ponte dei Leprosi come luogo di sepoltura di Re Manfredi. Quivi nel medioevo sorgeva una chiesa con ospedale pei lebbrosi e il ponte sta a mezzo chilometro sotto Benevento. Checché ne sia, la memoria dell’eroico Be biondo e bello e di gentile aspetto, quale lo ritrae l’Alighieri, vive ancora in Benevento, ove, sull’angolo di una casa prossima al Castello, si legge : Piazza Re Manfredi.