Pontelandolfo – Mestieri che muoiono, mestieri che si trasformano.

Mestieri che muoiono, mestieri che si trasformano.

Oggi stiamo assistendo al tramonto di tante arti manuali che hanno caratterizzato il misterioso mondo antico. Molti altri mestieri, invece, travolti dalla civiltà Trimillenaria, che sopravanza a grandi balzi, per reggere il rapido incedere e pur di sopravvivere, sono stati costretti, loro malgrado, a svestire gli abiti del magico tempo che fu e indossare un nuovo abito, per tuffarsi nel mondo in perenne evoluzione dell’alta tecnologia.
Quando un tempo l’orologio pubblico nella grande piazza scandiva il quieto trascorrere delle ore della vita degli abitanti di Pontelandolfo, esisteva la figura del “Regolatore del Pubblico Orologio”, incaricata del perfetto funzionamento del congegno meccanico. Da documenti recuperati nell’Archivio Storico del Comune risulta che nel 1863 svolgeva questo singolare mestiere un certo Donato D’Addona, al quale l’Amministrazione Pubblica di Pontelandolfo, con mandato n. 367 del 12 dicembre, pagava la preziosa somma, in quel tempo di ristrettezze, di £. 25,50, a saldo delle sue spettanze. Un mestiere particolare, che non apparteneva all’uomo se non come attività collaborativa nel suo lavoro, invece, era rappresentato da una strana e curiosa creatura, solitaria, conficcata con il suo unico piede di legno, nel centro della distesa di un campo: lo spaventapasseri. Silente, immobile, perenne sentinella dei preziosi semi deposti nei solchi dei terreni arati, l’uomo di paglia e rami secchi, vestito di stracci e stoffa colorata e sulla testa rotonda un cappello consunto, nella solitudine della sua mente, dissuadeva corvi e passeri dal rovinare il raccolto nei campi, sempre con lo sguardo fisso, proiettato verso l’orizzonte sagomato dalle cime difformi dei monti. Quando il campo, dopo mesi di vigile custodia, si dipingeva di oro, e un mare di spighe si lasciava ondeggiare dolcemente dalle carezze del vento, sulla sua faccia buffa si stampava un sorriso di soddisfazione per il buon lavoro svolto. Lo spaventapasseri di paglia, rami secchi e stracci, simbolo sempre più introvabile, ha rappresentato per lungo tempo una icona caratteristica del mondo agreste e che tanta simpatia ispirava nei bambini, divenendo un tutt’uno con il paesaggio che la circondava. Lo spaventapasseri seppur formato da paglia, rami secchi e stracci, custodiva dentro di sé un’anima. Non era nemico degli uccelli. Il leale guerriero, con un secchio come elmo, sapeva benissimo che anche pennuti, come creature di Dio, avevano diritto alla vita. E’ così con ogni sorta di uccello aveva sancito il tacito accordo di “campa e lascia campare”. Non disdegnava qualche volta, infatti, di chiudere un occhio, per dare l’opportunità agli uccelli di portare un piccolo seme alla nidiata. Lo spaventapasseri, “mezzo uomo e mezzo ramo” come lo definisce Elio Giacone in una sua poesia, che per secoli ha sostenuto con fedeltà il coriaceo contadino nelle dure fatiche agricole, va in pensione. Ovvero diventa tecnologico. Oggi è diffusore di raggi solari, è cannoncino spaventapasseri, di forte impatto acustico, è gufo gonfiabile, diventa un dispositivo, insomma, sempre più sofisticato, che lo ha sfrattato dai campi e consegnato alla memoria di chi un giorno, si spera, ne avrà ancora memoria.

Gabriele Palladino
Il mastro funaio

Nell’antologia dei mestieri scomparsi, non poteva mancare la figura del mastro funaio.
Un tempo a Pontelandolfo, come in altri paesi, soprattutto in quelli a vocazione agro pastorale del nostro Sannio, si faceva largo uso delle funi, in quasi tutti i mestieri.
I contadini e i pastori, ad esempio, le usavano per legare le bestie al pascolo, per assicurare il carico al basto, per allungare le briglie, per legare la legna in fasci, anche per costruire recinti mobili e occasionali dove tenere chiuse le bestie durante la notte e poterle meglio vigilare contro malviventi e lupi famelici. I muratori le utilizzavano per tirare su il materiale di lavoro. Il carrettiere faceva uso delle funi per legare le merci che trasportava sul carretto e per azionare il freno, cosiddetta in gergo la mart’llìna. Il sagrestano utilizzava le corde per azionare le campane della chiesa. La fune, insomma, era un attrezzo indispensabile per lo svolgimento di molteplici attività.
Il funaio, a Pontelandolfo r f’nàr’, valente artigiano, abile nel saper coordinare mani e piedi, realizzava le funi a mano, utilizzando come unico attrezzo di lavoro, una grande ruota in ferro e legno, di circa un metro di diametro, a doppia faccia, con al centro una manovella, collegata all’aspo mediante una puleggia, cosiddetta rac’, a quattro rotelle, che giravano tramite tre corde intorno alla ruota, composta da quattro filatoi muniti di ganci. Il tutto era fissato su una pesante base di legno.
La materia prima necessaria era la stoppa derivata dalla canapa grezza, che, dopo pettinata, veniva legata alla ruota e mentre girava, si filava per raffinare il prodotto e dare la giusta sezione al filo. E, così, filo dopo filo, attraversando la cosiddetta pigna, un attrezzo a quattro incavi dove passavano i fili che avvolgendosi ne diventavano uno soltanto. La pigna veniva abilmente azionata con una mano dal funaio, mentre con l’altra filava. Il filo generato, veniva avvolto alla ruota per dare origine all’embrione della corda.
Rotoli di spago venivano attorcigliati con il girare continuo della ruota, azionata per imprimere il movimento alle pulegge.
Il movimento della ruota doveva essere eseguito con tempismo e metodico ritmo. Se troppo lento, non faceva attorcigliare bene la fune, se troppo veloce non permetteva l’inserimento della filaccia.
Il lavoro, di solito a conduzione familiare, si svolgeva all’aperto, perché c’era bisogno di molto spazio. La lunghezza dello spazio era molto importante in quanto l’artigiano, procedendo a ritroso, doveva guidare l’intreccio della corda in base alle varie misure, dalla più corta alla più lunga.
Davanti alla ruota occorreva una superficie libera molto estesa, per consentire la stesura dei filati e man mano che la corda si formava veniva arrotolata attorno alla ruota, fino a che non si raggiungeva la lunghezza desiderata.
Prima della lavorazione le matasse filacee venivano immerse a bagno nell’acqua in vasche di pietra. Ad avvenuta torsura le corde venivano stese ad asciugare ad una certa altezza da terra.
L’ultimo mastro funaio, e forse quello più famoso di Pontelandolfo, è stato Tullio Albini, che con l’aiuto della moglie Elda e dei cinque figli Vittoria, Pasqualino, Giuseppe, Donato e Armida, la cui preziosa collaborazione si rendeva necessaria nelle varie fasi articolate del procedimento, dagli anni Sessanta e fino alla fine degli anni Ottanta, ha prodotto chilometri e chilometri di corde, molte delle quali ancora oggi, resistenti e forti, vengono utilizzate nelle attività contadine di Pontelandolfo e dei paesi del circondario, i cui abitanti acquistavano le funi di Tullio, le migliori della provincia, presso la bottega dell’artigiano o, più spesso, in occasione delle fiere e dei mercati.

venditori

Gabriele Palladino

Produttori di calce

Per la serie “I Mestieri scomparsi”, un tempo nelle campagne di Pontelandolfo abbondavano i produttori di calce.
La produzione della calce è un’attività antichissima. Si hanno testimonianze del suo uso nell’antico Egitto e in Mesopotamia. I Romani e i Fenici avevano imparato ad usare la calce come materiale da costruzione, mescolata con la sabbia a formare la malta. A Pontelandolfo, nell’ambito della zona rurale, ai margini del bosco, veniva ricavata nel terreno una fossa di forma cilindrica, detta in gergo la cal’càra, internamente rivestita con pareti di pietra a secco, per un diametro di apertura di circa mt. 5,00, di base di circa mt. 3,00, una profondità di circa mt.5,00, con un’apertura anteriore, bocca, di circa mt.1,50. Travi di legno poste verticalmente sulla sommità della struttura fungevano da copertura con relativo foro di tiraggio. Tutto ciò dava al manufatto il caratteristico ed inconfondibile aspetto architettonico. Le pietre di natura calcarea ricche di carbonato di calcio, che abbondano sul territorio di Pontelandolfo, una volta raccolte, venivano trasportate nel luogo deputato al loro utilizzo con l’ausilio della sc’tràv’la, una sorta di slitta di legno priva di ruote tirata dagli asini o dai muli, e, successivamente, composte ad arte nel forno di calcinazione, la cal’càra. Una volta saturata la capacità di contenimento, attraverso l’apertura anteriore si provvedeva all’accensione del fuoco con fascine di felce, nell’area montana, di ginestra, nelle zone più a valle, poste in una intercapedine, la camera del fuoco, all’uopo ricavata, precedentemente, sul fondo. La felce e la ginestra garantivano una fiamma più violenta, necessaria per la cottura delle pietre. Daniele Perugini nella Monografia di Pontelandolfo (1878) scrive: “… Le fornaci per cuocere la calce sono molte verso la montagna, e per combustibile s’impiega non solo la esporgatura degli alberi e delle siepi, quanto principalmente la felce “phelis aquilim”. Il fuoco veniva ininterrottamente alimentato da un incaricato per settimane, mantenendo una temperatura costante tra gli 800 e i 1200 gradi, tale da consentire alla pietra calcarea di trasformarsi, liberando gas carbonico e dando luogo alla cosiddetta calce viva. L’addetto alla cottura restava per tutto il tempo necessario a guardia della cal’càra, sia di giorno che di notte, non faceva mancare il legno nella camera da fuoco e faceva attenzione che tutto procedesse per il verso giusto, pronto ad intervenire in caso di eventuali inconvenienti. Terminata la cottura si svuotava la cal’càra e le pietre, che assumevano una consistenza porosa, riducendo il loro peso di circa un terzo a causa degli atomi di carbonio e ossigeno perduti, si lasciavano raffreddare in loco. A questo punto il materiale ottenuto, ovvero la calce viva, trasportata nei punti di smercio a dorso dei muli, veniva venduta ai costruttori, che la spegnevano gettandola in un’apposita vasca (r fóss’), predisposta per lo scopo, piena di acqua. A contatto con il liquido, lentamente, il prodotto, attraverso una reazione di idratazione accompagnata da un violento rilascio di calore che frantumava le pietre, avviava il processo di liquefazione, che, una volta terminato, dava luogo alla calce definitiva, o calce spenta, utilizzata in edilizia per preparare malte, miscelata con acqua e sabbia estratta nelle diverse cavaréne dislocate sul territorio. Oggi è ancora visibile la cavaréna del Toppo della Chiusa nei pressi della località Sorgenza. Interessante è stato l’utilizzo delle cavaréne quale rifugio scuro durante i bombardamenti nell’ambito della Seconda Guerra Mondiale. Tracce di cal’càr’ sono state rinvenute alla località Piano Feletta alle falde di monte Calvello a breve distanza dalla sorgente Acqua del Monte. Alla località Piana di Lanna ai margini del bosco lungo il Tratturo Serralafrasca. Alla località Cógli ai margini del bosco a ridosso della Piana di Lago Ciancione alla contrada Costa del Resicco, e alle località Pericurti e Minghilli della c.da Piana di Lanna. Alcune cal’càr’ utilizzate d’estate per la cottura delle pietre, fungevano d’inverno dalle cosiddette n’vèr’, per la conservazione della neve. A Pontelandolfo la calce veniva usata in particolare per la intonacatura esterna ed interna delle case e, resa in forma più liquida, per la pitturazione delle pareti interne delle abitazioni, con la doppia funzione di imbiancatura e disinfezione.

Gabriele Palladino
Il Banditore
Per l’infinita serie dei mestieri scomparsi, singolare, caratteristico era quello del banditore. Estroverso artista di strada, autentico testimone vivente della cultura popolare tradizionale, il banditore era colui che attraverso una pubblica grida annunciava notizie di vario genere: avvisi dell’autorità pubblica, vendite, pellegrinaggi, manifestazioni pubbliche, ecc. Come nella maggior parte delle piccole comunità, fin dall’epoca medievale, esisteva anche a Pontelandolfo la figura del banditore, che rendeva pubbliche le ordinanze delle autorità cittadine. Con il passare del tempo, questa figura si rese indispensabile, anche per pubblicizzare vendite ed eventi di vario genere, anche di natura privata. Il banditore percorreva le vie del paese annunciandosi con uno squillo di trombetta di rame o di ottone in re (unica nota suonata dalla tromba), al quale, gridato ad alta voce, faceva seguito, cosiddetto in gergo locale, “r ‘bbann’” (il bando) o “la s’nósa” (la notizia divulgata). I punti migliori per un buon ascolto della cittadinanza erano dislocati in via San Felice, via Felice Marcello, piazza Porta Nova, ia Manganello, via Annunziata, via Castello, via Di Mezzo, vico I Costa Francese, Salita San Pietro, via Forno Pianelle, via Ricetta, via Casaleno di Coscia, vico Storto del Fico. Generalmente in altre parti, l’incarico di banditore pubblico veniva conferito ad un salariato del Comune occupato nei vari servizi dell’epoca (spazzino, operaio generico, guardiano del cimitero) o a cittadini socialmente disagiati previa ricompensa in denaro. A Pontelandolfo, invece, si trattava di un incarico non retribuito che il Comune affidava ad una famiglia, che accettava con umile disponibilità, residente in un paese dove pochissimi erano i salariati e una intera popolazione versava in condizioni di disagio. Diversi sono stati i banditori che hanno animato la vita nel borgo antico, ma quello che più di tutti ha lasciato un segno indelebile nella memoria popolare è stato sicuramente Validoro Manfredonia, personaggio stravagante, che svolse con originalità e scherzosa simpatia l’impiego di banditore dagli inizi del 1940 e fino alla metà degli anni Settanta, quando pose fine alle fatiche dei suoi giorni terreni. Con il bando si rendeva noto l’inizio dell’anno scolastico, il periodo per poter condurre il bestiame nei terreni gravati dall’uso civico, di pulire le siepi, della mancata erogazione di acqua nei periodi estivi, e altre notizie utili alla comunità. Altro tipo di bando era quello di avviso-diffida: “Nessuno abbia l’ardire … sarà denunciato”, che, il cittadino interessato lo faceva registrare al protocollo del Comune e il banditore doveva darne avviso per tre sere consecutive. Chi, altresì, usufruiva del prezioso servizio, traendone evidenti benefici, erano i venditori ambulanti. In questi casi il banditore girava l’intero paese informando la popolazione dell’arrivo del fruttivendolo, del pescivendolo, ecc. L’ambulante ricompensava il banditore in natura (frutta, verdura, pesce ed altri generi che aveva pubblicizzato). Raccontano, ancora divertiti, gli anziani del paese che hanno custodito per anni il simpatico ricordo, che la domenica mattina, in occasione della prima messa, all’ora dell’uscita dei fedeli dalla chiesa del SS. Salvatore, Validoro si arrampicava sulla fontana di pietra al centro di piazza Roma e annunciava ,con voce forte i giorni stabiliti per le stime dei quadrupedi, all’epoca previsti, opportunamente divisi per data e in ordine di contrade. Ma come accadeva di sovente, vuoi perché qualcuno non capiva bene l’informazione, vuoi perché qualcuno dimenticava la data del suo appuntamento, nell’incertezza, onde evitare di sbagliare, sistematicamente il primo giorno fissato dalla Commissione per gli esami di rito, centinaia di asini provenienti da tutte le località del paese, di buon mattino, con gli attributi “sfoderati” da sottoporre a “misurazione”, all’unisono iniziavano a ragliare sostando nello spazio antistante i locali della Vecchia Taverna alla località San Donato deputati alle operazioni. Lungo la pubblica viabilità della ex SS. Sannitica, per diverse centinaia di metri, i quadrupedi in fila creavano uno scompiglio generale ed apprensione nei commissari ancora insonnoliti, che alzandosi dal letto in tutta fretta, indossavano rapidamente gli abiti da lavoro e con il metro in mano davano inizio alle attività. Con i ricordi del banditore, abbiamo cercato di far rivivere una figura sconosciuta ai giovani e sicuramente rimpianta dagli anziani.

Gabriele Palladino

la Capèra

Inerpicandosi per scalette con i gradini dall’ampia pedata per favorire il passaggio di muli e asini, attraversando il groviglio di vicoli e viuzze incassati in luoghi affascinanti e misteriosi senza tempo, agli inizi del Novecento, la capèra girava per le case del paese a pettinare, acconciare e curare i capelli delle donne.
Antesignana della moderna parrucchiera, il suo era un mestiere a domicilio.
Le donne, in particolare nei mesi estivi, quando era più sentito il bisogno di pettinarsi o di sciogliere sulle spalle le trecce a crocchia fermate sulla nuca con forcine e cordicelle per fare respirare la cute sofferente per la calura e il peso della capigliatura, intercettavano il passaggio della capèra e si concedevano alla delicatezza della sua mano esperta. Tra una pettinata e un piacevole massaggio, la capèra intratteneva i presenti con storie, indiscrezioni, pettegolezzi e segreti, specialmente quelli amorosi, che aveva appreso in altre case. E’ così che a Pontelandolfo, o forse anche altrove, la parola capèra con il passare tempo è diventata sinonimo di pettegola.
Nel capiente grembiule che indossava, oltre a nascondere i ferri del mestiere: pettine, forbici, forcine, crine, arricciacapelli, con grande destrezza, abilmente arrotolate, vi faceva cadere le preziose ciocche di capelli che si attaccavano al pettine, che poi rivendeva ai produttori di parrucche. Le donne, quelle più giovani in genere, si facevano passare tra i capelli il pettine a denti fitti per catturare al suo passaggio eventuali ospiti indesiderati. Nel caso di nutrita presenza dei sanguinari parassiti, la capèra tirava fuori dall’inesauribile grembiule una boccetta contenente chissà quale polverina miracolosa, che in un sol colpo faceva piazza pulita dell’allegra brigata.
Quando le capère raccontavano alle clienti chiacchiere e dicerie di popolo, in versione riveduta e corretta e maliziose aggiunte, anche i bambini, attratti da quelle storie di stile fiabesco, smettevano di giocare e si fermavano ad ascoltare a bocca aperta le parole della pettinatrice, che si insinuavano convincenti nelle pieghe di una vita dallo scorrere lento, vissuta con umile semplicità. Un vita di una straordinaria ricchezza di spirito, che apparteneva ad un mondo diverso, un mondo caratterizzato dalla sana convivenza e dal sapersi accontentare.
Finito il lavoro, era quello il momento di darsi una bella rinfrescata con l’acqua raccolta sotto il fontanile pubblico della piazzetta selciata di bianca pietra, versata dalla brocca nel bacile di ferro smaltato. Ancora due rapide chiacchiere, un saluto carino e via. Il giorno dopo la storia continuava in un’altra casa, con un’altra testa da pettinare e un altro pettegolezzo da raccontare. Oggi la capèra non c’è più. Come i mestieri di una volta, vive solo nei ricordi. Un giorno, forse, nessuno avrà più memoria di lei, della capèra, la donna dall’ampio grembiule che un tempo girava per le case del paese a pettinare, acconciare e curare la chioma fluente di capelli sciolti sulle spalle. Ma nel dedalo di vicoli e viuzze del borgo antico, la sua anima vivrà per sempre.

Gabriele Palladino
Il mugnaio – R m’linàr’

Riprendiamo l’avviata attività di recupero a futura memoria dell’antologia degli antichi mestieri, oggi scomparsi, che hanno intrecciato nel corso dei secoli i fili del tessuto economico di Pontelandolfo. Tra questi, uno dei più importanti, era quello del mugnaio, “r m’linàr”. A Pontelandolfo, come testimonia Daniele Perugini nella Monografia di Pontelandolfo del 1878, esistevano “undici molini, cinque dei quali a due macine, e tre di questi sulla Sannitica addetti a molire i grani diretti alla Capitale”. Da documenti reperibili nell’archivio storico del comune risulta che nel 1949 esistevano dieci mulini a bassa macinazione, tutti funzionanti con la forza motrice dell’acqua. Erano ubicati in prossimità dei torrenti Alente e Alenticella, dai quali attingevano a monte l’acqua necessaria per funzionare. L’acqua, deviata dal torrente mediante una rudimentale piccola diga, detta “truffa” per il modo artificioso con cui viene sottratta al suo naturale scorrimento, si immette in un canale opportunamente scavato: la gora, la “palàta” per essere portata al mulino e raccolta in una pescaia: la roggia, la “vótt’”, che confina con la parte posteriore del mulino dov’è situata la stanza che contiene i macchinari, il cui fondo è dotato di una cataratta a saracinesca, la paratoia, per il controllo dell’apertura. Apposite portelle regolano il flusso dell’acqua sia a livello della diga che della gora e della roggia per contenerne la piena con rischio di smottamento. Quando nella roggia vi è un sufficiente quantitativo di acqua, si procede a manovrarne l’apertura della saracinesca per farla uscire attraverso la cataratta e stramazzare, mediante una doccia, sulla ruota a pale. Le pale sono situate in un locale sotterraneo, il margone, detto “ma’arón’”, sopra il quale si trova la stanza delle macine. Le pale sono fatte in legno di quercia o di olmo, perché questo non infradicia anche se rimane per lungo immerso in acqua, anzi si indurisce di più. La ruota a pale, sospinta dalla forza motrice dell’acqua, ruota in senso verticale e, tramite un sistema di ingranaggi capace di trasformarlo in senso rotatorio orizzontale, lo trasmette alla coppia di macine di pietra, i palmenti. Intanto, il cereale depositato nella tramoggia, la “tr’mmòia”, tramite un dosatore molto preciso precipita lentamente nel forame centrale della macina soprastante per immettersi tra questa, che è rotante, e quella sottostante, che è fissa, ed essere macinato e ridotto in farina. Questa fuoriesce dal cassone avvolgente delle macine per finire raccolto nella madia sottostante, la “facciatóra”. L’acqua risultante dalla macinazione, detta acqua “‘rr ma’arón’” (del margone), defluisce attraverso lo scarico dello stabilimento per tornare, a valle, nel fiume di provenienza o utilizzata nella stagione estiva per scopo irriguo. Gioacchino Napoleone Murat, Re delle Due Sicilie, nell’anno 1812, con decreto n. 1490 del 15 settembre, autorizzava il canonico Donato Rinaldi di Pontelandolfo, in quel tempo provincia del Molise, a costruire un mulino nel fondo di sua proprietà alla località “Le Grotte”.

Gabriele Palladino

Il tessitore

Per la serie infinita de “i mestieri scomparsi”, fino a qualche decennio l’artigiano che più di tutti sosteneva la crescita economica del paese, era il tessitore. Ancora oggi, ogni volta che ci si sofferma ad osservare attentamente un tappeto, un arazzo, un copriletto, un centro tavolo, uno scialle, una borsa, tessuti attraverso la tradizionale ed antica tecnica dell’intreccio, per mezzo del telaio di legno azionato a mano, e se ne ammirano i decori e i ricchi disegni multicolori, artisticamente elaborati in base al talento, all’inventiva, alle capacità del maestro artigiano, viene da chiedere come ha fatto il tessitore a dare espressione e vita al manufatto che si osserva con ammirazione. E quale trama ha dovuto inventare ed ordire per creare i disegni che compaiono e che insieme si fondono nel tessuto in un intreccio multicolore. E’ tutto così affascinante. Quando con l’avvento del XVIII secolo, iniziò a delinearsi in modo concreto un risveglio demografico, favorito peraltro dalla stabilità assicurata dal nuovo Stato Borbonico, che prese corpo soprattutto nel corso del XIX secolo, si affermano a Pontelandolfo quelle arti e quei mestieri legati alle risorse locali. L’incremento della pastorizia con la conseguente produzione di lavori tessili e dei ricami, oltre che dei lavori in ferro, in legno ed in pietra, rappresenteranno l’economia prevalente e l’attività forte del paese. Attraverso la passione del tessitore, l’arte del tessere non ha subito mutazioni nel tempo. In ogni fase, dalla preparazione dell’ordito al rimettaggio dei licci, fino alla tessitura vera e propria per mezzo del telaio di legno, rigorosamente azionato a mano, ha eseguito le stesse articolate operazioni per secoli, che sono il frutto di conoscenze, piccole alchimie, acquisite fin da giovanissimi attraverso il racconto, la curiosità, l’apprendimento, l’esperienza, l’amore per un mestiere antico. Una tecnica che le mani abilissime e la maestria del tessitore, hanno fatto propria per tramutare semplici e misteriosi movimenti, nella magica arte dell’intrecciare una molteplice quantità di fili multicolori, fino a generare un unico, irripetibile, inimitabile capolavoro, che il tempo non potrà mai più cancellare. La realizzazione dei manufatti tessili di Pontelandolfo, prima ancora di identificarsi come espressione artistica, era finalizzata in origine all’utilizzo nel quotidiano. La creazione di abiti, di coperte, di mantelli, si rese necessaria per la esigenza di ripararsi dalle intemperie. Le donne di campagna per proteggersi dal freddo a completamento dell’abbigliamento invernale, indossavano la cosiddetta tuaglia, un pezzo di ordito e trama di lana, senza valcare, tinto in colore blù indaco, delle dimensioni circa cm. 200 x 70, arricchito da cornici di galloni dorati. I lavori tessili delle ditte Morelli, Rubbo e Corbo, hanno rappresentato per lunghi decenni del Novecento il fiore all’occhiello dell’artigianato pontelandolfese, occupando un posto preminente nella evoluzione socio-economica del paese. La fase di declino è venuta a determinarsi per la impossibilità da parte degli artigiani di mantenere un mercato proprio, essendo entrati in concorrenza con le produzioni di serie delle grandi industrie (nel 1787 Cartwright inventò il telaio meccanico, che fu perfezionato e adottato nei decenni successivi: intorno al 1825 un solo operaio, sorvegliando due telai meccanici, poteva sbrigare un lavoro che con i telai a mano avrebbe richiesto l’opera di una quindicina di persone). Nei primi anni del ‘900, con la semi-meccanizzazione, e soprattutto con l’azionamento meccanico, protagonista sempre la navetta, ma senza ruote, lanciata da una spada, i telai passano da una struttura in legno ad una in ghisa. Una successiva trasformazione avviene intorno al 1950, con i telai senza navetta, a nastro. Dopo il 1960, il salto tecnologico è ancora più marcato: dai telai a pinza si passa a quelli a pinza guidata, capaci di arrivare fino a 500 battute al minuto; poi, ai telai ad aria fino a 1000 battute e infine, alla fine degli anni Ottanta, ai primi modelli computerizzati. Nonostante l’accelerato ammodernamento tecnologico dovuto all’applicazione, per i meccanismi, di nuovi tipi di forza motrice, la tessitura continua a vivere nel cuore e nei sentimenti dei pontelandolfesi come arte antica, assumendo un valore significativo, che va molto aldilà di quello intrinseco, meramente venale di ogni singolo pezzo realizzato tradizionalmente. Il telaio a mano, la creatività, la produzione tessile come espressione artistica, rappresentano ancora oggi un percorso, garantito dalla storia, che i giovani di Pontelandolfo possono ancora intraprendere prima che le ultime generazioni di tessitori non avranno più la forza di trasmettere la propria arte, per un futuro di possibile sviluppo socio-economico.
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Gabriele Palladino