Arti antiche e antichi mestieri. Un interessante manoscritto anonimo del 1860 , che racconta, con dovizia di singolari caratteristiche, storie di vita della Pontelandolfo di quel tempo, viene custodito oggi presso l’Archivio di Stato di Benevento. Dal raro documento storico si evince un quadro sociale della popolazione del paese, che nel 1857 si compone di 5561 abitanti, così suddivisi: Possidenti 922 Impiegati in arti liberali 55 Sacerdoti Canonici 8 Canonici non Sacerdoti 4 Accoliti 3 Contadini 4311 Artisti (artigiani) 208 Pescatori 2 Trainanti 7 Mulattieri 27 Mendici 14 (di cui 6 maschi e 8 femmine) Un elenco interessante e preciso dal quale viene fuori una pleiade di attività varie, che l’insigne nobil uomo Daniele Perugini nella sua eccellente Monografia di Pontelandolfo edita nel 1878, così scrupolosamente individua in classi: Legali 8 Fornari 4 Pizzicagnoli 8 Salass. e Barbieri 9 Possid. di carrozze 4 Commercianti 10 Farmacisti 3 Medico chirurgo 1 Notai 4 Macellai 4 Tessitrici e ricamatrici Moltissime Mugnai 8 Fabbricatori 30 Maniscalchi 5 Armieri 2 Veterinari 2 Cardassieri 4 Negozi di panno ed altro 6 Panettieri 10 Pittori di ornato 5 Calzolai 10 Levatrici 3 Sarti 13 Tavernari 6 Filarm. e dilettanti (musicanti di bande paesane) 20 Architetto 1 Maccaronaio 1 Crivellai 2 Agrim. cedolati 4 Caffettieri e venditori di generi coloniali 7 Ritratt. e paesista 1 Speziale Manuale 1 Pirotecnico 1 Ortolani 3 Venditori privileg. 5 Vastasi 10 Locandieri 2 Chiavettieri 9 Staccatori (?) (ndr stuccatori) 2 Postiere di lotti 1 Altro 6 Ma che facevano veramente queste persone? Chi era uno speziale manuale? Di cosa si occupava un vastaso? E il postiere di lotti che mansioni svolgeva? Il crivellaio a che cosa era addetto? Proviamo a dare una risposta a queste curiosità nella speranza di riuscire ad entrare nel fantastico mondo di questa gente, nel quotidiano della loro umile vita e di come si sono ingegnati taluni per garantirsi una fonte di sussistenza rispetto ad altri più fortunati. Il tentativo, dunque, è quello di far rivivere personaggi del passato, apparentemente così lontani da noi, ma che, fino a poco più di un cinquantennio fa, hanno fortemente contribuito ad immortalare il nostro paese nelle pagine della storia di tutti i tempi. In questo capitolo vi parlerò della figura del Banditore. Singolare, caratteristico, estroverso artista di strada, autentico testimone vivente di quella cultura popolare tradizionale, ahimè oggi scomparsa, il banditore era colui che attraverso una pubblica grida annunciava notizie di vario genere: avvisi dell’autorità pubblica, vendite, arrivi di commercianti ambulanti, manifestazioni pubbliche, ecc. Come nella maggior parte delle piccole comunità, fin dall’epoca medievale, esisteva anche nel nostro paese la figura del banditore, che rendeva pubbliche le ordinanze delle autorità cittadine. Con il passare del tempo, questa figura si rese indispensabile, anche per pubblicizzare vendite ed eventi di vario genere, anche di natura privata. Il banditore percorreva le vie del paese annunciandosi con uno squillo di trombetta di rame o di ottone in Re (unica nota suonata dalla tromba), al quale faceva seguito “r ‘bbann’” (il bando) – in gergo anche “la s’nósa” (la notizia divulgata) -, gridato ad alta voce. I punti migliori per un buon ascolto da parte dei cittadini erano: Via San Felice, Via Felice Marcello, Piazza Porta Nova, Via Manganello, Via Annunziata, Via Castello, Via Di Mezzo, Vico I Costa Francese, Salita San Pietro, Via Forno Pianelle, Via Ricetta, Via Casaleno di Coscia, Vico Storto del Fico, A ri Quatt’ Palazz’, ‘Ngòppa a la Chijazza, Sótta a r F’ndanìn’, A r Quart’ Ugliòtti, Sótta a la Téglia, ‘Ngòppa Pòrta N’ngiàta, Addrèt’ a l’ Mura, Addrèt’ a la Tórr’, ‘Ngòppa a r Casc’tégl’. Generalmente in altre parti, l’incarico di banditore pubblico veniva conferito ad un salariato del Comune occupato nei vari servizi dell’epoca (spazzino, operaio generico, guardiano del cimitero) o a cittadini socialmente disagiati. A Pontelandolfo, invece, stranamente, si trattava di un incarico non retribuito che il Comune affidava ad una famiglia residente in un paese dove pochissimi erano i salariati e una intera popolazione versava in condizioni di disagio. Diversi sono stati i banditori che hanno animato la vita nel borgo antico, ma quello che più di tutti ha lasciato un segno indelebile nella memoria popolare è stato sicuramente Validoro Manfredonia, personaggio stravagante nato a Pontelandolfo il 26 gennaio 1910, che svolse con originalità e scherzosa simpatia l’impiego di banditore dagli inizi del 1940 e fino alla metà degli anni Settanta, quando il 12 giugno 1976 pose fine ai suoi giorni terreni. Esistevano diverse tipologie di bandi. I più importanti erano quelli delle istituzioni e si davano per alcune sere, all’imbrunire, quando la popolazione si raccoglieva in casa al termine della giornata. Qualche secondo dopo un lungo e acuto squillo di tromba, il banditore gridava: “Per ordine del signor Podestà…”, oppure: “II signor Sindaco avverte…”, o ancora: “Il signor Giudice Conciliatore comunica…”. Con il bando, si rendeva noto l’inizio dell’anno scolastico, il periodo per poter condurre il bestiame nei terreni gravati dall’uso civico, di “sc’cambà’ l’ fratt’ ” (pulire le siepi) e altre notizie utili alla comunità. Nei periodi estivi di penuria di acqua allorquando il Comune era costretto a razionare il prezioso bene, il banditore annunciava: “A méz’jórn’ s’ lèva l’acqua” (A mezzogiorno viene interrotta l’erogazione dell’acqua). E se qualche cittadino contrariato per il disservizio gli avesse chiesto: “E quann’ la métt’n’?” (E quando viene ripristinata la distribuzione?), il banditore Validoro, che faceva del credo socialista la sua cultura politica, dopo una meritata sosta “a la candìna r za Carlìna” (presso la cantina locanda di zia Carolina Panzón’), rispondeva con allusiva ironia: “Add’mannàt’l’ a la Démócrazzìa!” (Chiedetelo alla Democrazia! – intesa come partito della D.C., la Democrazia Cristiana). Altro tipo di bando era quello di avviso-diffida: “Nessuno abbia l’ardire … sarà denunciato”, che, il cittadino interessato lo faceva registrare al protocollo del Comune e il banditore doveva darne avviso per tre sere consecutive. Ma, in particolare, chi usufruiva del prezioso servizio, traendone evidenti benefici, erano i venditori ambulanti. In questi casi il banditore girava l’intero paese gridando: “R pésc’, r pésc’. Chi vò’ accattà’ l’ baccalà sangiuànn’, sótta a la Téglia c’ sc’ta r pisciaiól’ … tè pur l’ sarach’, tutt’ a ‘bbón’ prézz'” (Il pesce, il pesce. Chi vuole comprare il baccalà sangiuànn’, in piazza Largo Tiglio c’è il pescivendolo … vende anche le saracche, tutto a prezzo conveniente). Spesso, nella circostanza, il rivenditore retribuiva il banditore in natura (frutta, verdura, pesce ed altri generi che aveva pubblicizzato). Con lo stesso sistema si rendeva noto l’organizzazione di pellegrinaggi nei vari santuari. La memoria storica di Manfredonia Domenico, figlio, anch’egli banditore, del mitico Validoro: Caro Gabriele, se devo dire in che tonalità suonasse la trombetta, non saprei, sarà stato anche un Re la nota che ne fuoriusciva o un Sol, ma sicuramente era generata dalla vibrazione di una linguetta di comune canna inserita nel collare di quella che all’origine era una cornetta in dotazione del postino del paese. Il banditore e l’attacchino erano due attività che all’inizio degli anni Quaranta i dirigenti del Comune affidarono alla famiglia Manfredonia, a titolo puramente onorario, unica ricompensa riconosciuta, con un po’ di fortuna, era una frittura di pesce, quando avanzava. Che la vita di quell’epoca fosse difficile e dura era evidenziato dal fatto che il banditore avesse anche l’incarico di recapitare a casa del sanitario (il veterinario) una certa quantità di pesce che l’ambulante portava in vendita, affinché lo esaminasse e ne autorizzasse il commercio. Pura formalità. Mai una volta ne è stata vietata la vendita, anzi, in diverse occasioni il sanitario, dopo un esame sommario del pescato, ne approfittava per mettere finalmente qualcosa sotto i denti e riempire uno stomaco sempre più vuoto. Il Sindaco o un suo delegato – ricordo in quel periodo lo era il dipendente comunale Giovanni Panella, “Zi’ Nin’” per gli amici futuri, ma da tutti meglio conosciuto allora come il “Segretario”, significando una figura importante dell’Ente Comune -, che gestivano il servizio, non hanno mai gratificato con una ricompensa il banditore attacchino. Il problema non se lo ponevano neppure. Indimenticabili allora diventano i momenti in cui mia nonna si adirava e andava su di giri allorquando il vigile urbano Guerrera Orazio, “Zi’ Razziœ la Ciòva”, si presentava in casa nostra con i manifesti da affiggere grandi come lenzuola. Occorreva molta colla, a carico, ovviamente, dell’attacchino. Si pensi che si lesinava “’na manciàta r m’nòzz’la a la p’téca r Carlùcc’ R’ccón’” (un pugno di residui di pasta sfusa presso il negozio di Carlo Rinaldi), come ci si poteva procurare una certa quantità di farina occorrente per produrre la colla necessaria? Allora le liti con gli addetti comunali e le grida rivolte al “Segretario” non finivano mai. A proposito di “m’nòzz’la”, che in gergo sta per minutaglie, rimasugli, avanzi in genere, il termine originariamente indicava quella parte ricurva dove poggiava in fase di essiccazione la pasta lavorata lunga a forma di U, non confezionata e venduta sfusa nelle botteghe. Questa porzione di pasta ritorta dopo la cottura manteneva una consistenza più dura, che nella masticazione dava la sensazione di mangiare i semi, i noccioli di un frutto, l’ nòzz’la in vernacolo locale. Quando in quel tempo di bisogno la pasta si vendeva sciolta, il commerciante prima di avvolgerla con la carta, pesava l’intero quantitativo scelto dall’acquirente onde stabilirne il prezzo, poi, ancora distesi sul piatto della bilancia con le mani riduceva i lunghi maccheroni in pezzi più corti. Nel corso della delicata operazione la pasta spezzandosi lasciava qualche piccolo frammento residuo, l’ m’nòzz’la, che il negoziante parsimonioso raccoglieva e riponeva diligentemente in un apposito contenitore. Rivendeva successivamente i frantumi, a costi ovviamente inferiori rispetto al prodotto originario, e, pertanto, alla portata delle tasche delle famiglie più indigenti, che nei periodi di maggiore difficoltà si recavano dal negoziante e chiedevano, appunto: Si c’ sc’tann’ m’ rai ‘ddói m’nòzz’la (se ci sono mi dai un po’ di m’nòzz’la), che costituivano il frugale pasto del giorno, non sempre sufficiente a sfamare tante bocche. Ma torniamo a noi. Domenico Manfredonia, per gli amici “Minùcc’ r mar’sciàll’”, per i suoi trascorsi di Maresciallo nell’Arma dei Carabinieri, è stato, fin dalla giovane età, uno dei primi banditori comunali di Pontelandolfo negli anni Quaranta. Siamo in un periodo molto critico: la guerra, terreni aridi e pietrosi difficili da lavorare con la sola forza delle braccia, la disoccupazione, il triste fenomeno dell’emigrazione, attanagliavano il paese nella ferrea morsa della miseria. Quasi tutte le domeniche – ricorda ancora “Minùcc’” – don Rocco Boccaccino mi informava che a casa sua, nei pressi della chiesa della SS. Annunziata, era operativo il fotografo Adone Cioccia da Morcone, in genere tutta la mattinata. Io prontamente divulgavo la notizia ed in breve la cittadinanza era stata informata. Si fosse mai degnato qualcuno di darmi un nichelino! Eppure correva voce che a Pontelandolfo operava il miglior banditore della Provincia di Benevento, dovuto semplicemente al fatto che in un mondo caratterizzato dall’analfabetismo di massa io invece avevo imparato a leggere e scrivere. Era una qualità importante, fondamentale perché il bando spesso ce lo consegnavano a casa scritto su un foglietto di carta, che io, sapendo leggere, mi studiavo e in breve imparavo a memoria. Ricordo, che quando annunciavo l’interruzione dell’erogazione dell’acqua perché era “scoppiato” l’acquedotto e la gente mi chiedeva quando avessero ripristinato l’inconveniente, io, a differenza di mio padre Validoro, rispondevo serenamente: “Add’mannàt’l’ a zi’ R’nàt’ Cacciacàrn’” (Chiedetelo a zio Donato Cacciacàrn’), il fontaniere comunale dell’epoca. Erano tempi in cui ci si “divideva” la fame e l’analfabetismo di massa certamente non contribuiva ad un miglioramento della situazione. Si pensi che i sindaci di quegli anni, che governarono il paese in seguito alla rivolta delle popolazioni rurali guidate dal socialista Corradetti, firmavano e autenticavano gli atti ufficiali del Comune con un semplice segno della croce. Ma, nonostante tutto, si tirava avanti, senza troppe pretese, mettendo a frutto l’antica arte dell’arrangiarsi da cui nasceva una spontanea allegria, che inondava di serena convivenza la quotidianità della vita di ognuno. E mi viene in mente un aneddoto simpatico, che mi piace raccontare. Non ricordo bene ogni quanto tempo, ma sicuramente non meno di cinque anni, una Commissione Militare, appositamente istituita, si recava a Pontelandolfo per misurare ed abilitare gli asini ritenuti idonei alla monta. La singolare attività si svolgeva alla località San Donato, sull’area di sosta antistante la Vecchia Taverna ubicata lungo l’antica strada Sannitica, nelle immediate vicinanze della bottega del maniscalco e fabbro ferraio Nicola Biondi, “Masc’t’ Nicòla r C’rrìt’” per la comunità , che con un ferro all’uopo predisposto provvedeva a marchiare a fuoco, con la lettera “A”, l’unghia di una delle zampe anteriori dell’asino giudicato idoneo. La domenica mattina, in occasione della prima messa, all’ora dell’uscita dei fedeli dalla chiesa del SS. Salvatore, mi arrampicavo sulla fontana di pietra a forma di battistero ubicata al centro di piazza Roma e annunciavo con voce forte i giorni stabiliti per le stime dei quadrupedi, opportunamente divisi per data e in ordine di contrade onde evitare inutile confusione. Ma come spesso accadeva o perché nessuno capiva niente o perché dimenticavano la data del loro appuntamento, nell’incertezza e per non sbagliare, sistematicamente il primo giorno fissato dalla Commissione per gli esami di rito, centinaia di asini provenienti da tutte le località del paese, di buon mattino, con gli attributi “sfoderati” da sottoporre a “misurazione”, all’unisono iniziavano a ragliare sostando nello spazio antistante la Vecchia Taverna e lungo la strada, per diverse centinaia di metri, creando uno scompiglio generale ed apprensione nei commissari ancora insonnoliti, che velocemente indossavano gli abiti da lavoro e armati di metro davano inizio alle attività. Io, unito ad altri compagni di vita bontemponi, ci godevamo il coinvolgente ed irripetibile spettacolo e tra grida festose ce la spassavamo chiedendo alle avvenenti ragazze del luogo quale “misura” preferissero. Era così, che nonostante i problemi e le tante difficoltà, io, insieme a tutti i presenti, compreso le donne oggetto della canzonatura, venivamo coinvolti in una ricca e salutare risata. Con i ricordi del banditore, ho cercato di far rivivere una figura sconosciuta ai giovani e probabilmente rimpianta dagli anziani. A quelli di Validoro Manfredonia e del figlio Domenico, aggiungo il ricordo di quando ero ragazzo e, all’imbrunire, chiuso nella casetta in via Castello all’ombra della Torre Medievale, insieme ai miei fratelli Rocco e Valerio, al suono della trombetta nostra madre ci intimava: “Uagliù’ sc’tat’v’ zitti, ca sc’ta passènn’ r ‘bbann’!!” (Ragazzi fate silenzio, che stanno annunciando il bando!!), che, spesso, il giorno dopo era motivo di commento e di chiacchiere che animavano i vicoli eterni del paese. Gabriele Palladino