Storia degli insediamenti ed evoluzione dell’ambiente rurale
M’réc’n’ e casèll’
Sono state trovate rare tracce di attività agricole legate al periodo del primitivo insediamento sannitico pentro (circa 400 a.C.) nella Piana di Sorgenza (Pagum Herculaneum), in località Coste Chiavarine e Toppo dell’Avellana (Età Imperale e Tardo Imperiale). I molteplici reperti rinvenuti lasciano ipotizzare una economia caratterizzata a Pontelandolfo da una persistente preminenza della caccia e dell’allevamento sull’agricoltura che, probabilmente, veniva praticata sporadicamente in un ambiente prevalentemente montano, dove le aree boschive occupavano una percentuale elevata dell’intero territorio complessivamente esteso per 2.891 ettari.
I dati archeologici oggi in possesso, se pur sommari, stante in corso un approfondimento degli studi da parte della Soprintendenza ai Beni Archeologici nell’ambito delle campagne di recupero delle emergenze archeologiche alla località Coste Chiavarine, sono comunque già significativi e trovano riscontro nelle fonti scritte circa i tradizionali modi di vita, che sicuramente hanno subito una forte e significativa influenza dai traffici della transumanza.
Una migrazione di cultura, tramite la pastorizia transumante, dunque, testimoniata dalla diversità, in alcuni casi a volte anche straordinariamente netta, della parlata tra i vari borghi, anche limitrofi. L’incredibile differenza di linguaggio tra gli abitanti delle località Giallonardo e Piscone, due insediamenti confinanti ricadenti nella medesima contrada Cerquelle I, è l’inconfutabile testimonianza. Questo si può ritenere un segno evidente di soste frequenti e diversificate per ogni località dei pastori che dagli Abruzzi conducevano gli armenti nelle pianure pugliesi lungo i percorsi della transumanza, una serie infinita di tratturelli, bracci e sentieri più o meno larghi che raggiungevano poi l’imponente Tratturo Regio a poche miglia di distanza, attraversando il territorio di Pontelandolfo.
Il passaggio di numerosissimi armenti ha fatto sì che lungo il Regio Tratturo o nelle immediate vicinanze si sviluppassero villaggi durante il periodo preistorico e, durante l’impero romano e per tutto il medioevo, tutta una rete di servizi pubblici quali tabernae , fontane, pozzi, officine varie e luoghi di culto prima pagani e poi cristiani. Sevizi, questi, necessari al ristoro del corpo e dello spirito. A Pontelandolfo, secondo lo studio critico e chiave di lettura di Michele Carroccia nel suo saggio Strade ed Insediamenti del Sannio in Epoca Romana nel Segmento V della Tabula Peutingeriana (Campobasso 1989), apparteneva la Taverna di Sirpium che ancora oggi si mostra con orgoglio in tutta la sua imponente maestosità.
Le prime isole sicure di deforestazione a scopi agricoli si possono collocare attorno ai primitivi umili insediamenti di case in pietra a secco e terra, sicuramente databili successivamente all’anno mille, arroccati a quote variabili dai 400 ai 900 metri, come ne sono l’inconfutabile esempio i borghi alle località Iella, Grotte, Martellina, Mastrofilippo, Sticco, Caicchia, Acqua del Campo, Spaccamontagna, Casaldunaro, Marziello, Giallonardo, Piscone, Cocuzzo, Cianfrone, ecc., da ritenersi le prove materiali di una vera e propria colonizzazione ad economia agro-silvo-pastorale, nella quale la caccia iniziava ad assumere solo un carattere complementare, mentre le colture presentavano già una notevole varietà (frumento, orzo, avena, fava, pisello, ecc.). Tali sedi arroccate, architettonicamente ben concepite, sono sempre caratterizzate da una morfologia naturale adatta al controllo del territorio circostante, forse anche per necessità di difesa, a dimostrazione che esse venivano usate quali insediamenti stabili per l’esercizio del pascolo e dell’attività agricola. Non si trattava, evidentemente, di grandi aziende capitalistiche, ma di modesti insediamenti, inizialmente di una o poche famiglie, taluni ricalcanti precedenti costruzioni. Le case, tutte di nuova fondazione, in pietra a secco e terra, di forma quadrangolare, disposte in cinque, sei o più unità abitative intorno ad un’area comune, con pavimenti in lastricato, originariamente prive di focolare, ad un solo piano dotate di due o massimo tre locali di piccole dimensioni, esternamente drenate da solchi. Rari i casi di insediamenti isolati estesi, in qualche caso, anche alla fascia alta dei pascoli, dove, presumibilmente gli abitanti assicuravano il sostentamento delle proprie famiglie con la sola pratica dell’allevamento.
Il fenomeno di ripopolamento delle aree rurali, in particolare della montagna, è continuato fino alla prima metà del 1800 . La famosa legge Pica-Peruzzi del 1863, emanata in seguito alle note vicende legate all’Unità d’Italia: “o brigante, o emigrante”, determina un depauperamento demografico di notevoli proporzioni che comporta uno stato di abbandono totale di intere contrade ed un’alterazione, ancora oggi tangibile, dei fondi agricoli, che pregiudica lo stato idrogeologico di talune aree.
Il crescente fenomeno di ripopolamento rurale nel corso dei secoli, fino alla prima metà del 1800, evidenzia nel tempo una maggiore disomogeneità degli insediamenti e di comportamento delle diverse aree prese in considerazione. La fascia montana era ormai occupata in maniera consistente dagli insediamenti più o meno di una significativa densità demografica di Mastrofilippo, Spaccamontagna, Martellina, Monticelli, Sticco, Cocuzzo, Cianfrone, Caicchia, Guancia. Sopra il limite delle antiche faggete di monte Calvello a ridosso della vegetazione di castagni di Piano Feletta, si estendevano ricchi pascoli con capanne in pietra destinate alla pastorizia stanziale e periodicamente a quella transumante, che facevano capo ai detti borghi di quota più bassa, mentre sulle terrazze di fondovalle alle località Molino Vecchio e Castellone si coltivavano orti irrigui.
L’abitazione rurale di Pontelandolfo ha una sua identità strutturale ben precisa fin dal più remoto insediamento. L’uso della tecnica costruttiva in pietra locale legata con malta caratterizzata da materiali di natura diversa impastati con strami di argilla ne determina la sua inconfondibile caratteristica. L’uso della malta di calce viene introdotto solo successivamente con l’avvento e l’incremento delle fornaci, l’ cal’càr’, soprattutto a carattere locali costituite da forni a pozzo di modeste dimensioni che producevano una limitata quantità di materiale, probabilmente risalenti al periodo a cavallo tra il XVII e XVIII secolo .
Purtroppo però, poche sono le informazioni riguardanti la storia dell’abitazione rurale, rimasta praticamente sconosciuta, finora, rispetto a quella della torre medioevale e del borgo antico che la circonda. Non esistono studi dei materiali archeologici tali da permettere datazioni sufficientemente precise e quindi la possibilità di ricostruire in modo attendibile gli edifici nei loro contesti ambientali. Ci si rifà pertanto alla memoria storica e alle informazioni sulle trasformazioni evolutive del territorio relativamente alla produzione agricola.
Occorre però necessariamente tener conto di un elemento imprescindibile: la pietra . Dal giorno in cui l’essere umano ha inteso affondare le proprie radici nell’antica terra dei Sanniti Pentri, ha imparato a servirsi e a riconoscere il valore della pietra. Enormi massi sradicati dai boschi e consegnati alle sapienti mani degli scalpellini, sono diventati abitazioni, portali, pavimenti, camini, capanne per la transumanza, stalle, ovili, ecc.
Il mondo agrario dopo il Medioevo subisce delle trasformazioni, con una progressiva espansione degli abitati e dei terreni coltivati.
Si registra così nei secoli un lento ma profondo rinnovamento edilizio, che ha di fatto determinato nei nuclei quella stratificazione tipologico-cronologica caratteristica del loro stato recente, stato che si è alterato negli ultimi decenni a causa del triste fenomeno dell’emigrazione, dell’influenza di una rinnovata cultura urbana, nonché, quale aspetto non meno trascurabile, dai sismi del 1962 e del 1980, che hanno spesso obbligato a parziali ricostruzioni o, con sempre maggiore frequenza purtroppo, a costruzioni di nuovi isolati ai margini dei vecchi borghi.
Oggi le case più antiche sono databili agli anni che seguirono il devastante terremoto del 5 giugno 1688.
Avvenne alle 5 pm (ventunora). Era sabato, vigilia di Pentecoste. Fu preceduto mezz’ora prima da una scossa. Pochi i morti perché avvenne di giorno ed in tempo in cui molti si trovavano in campagna. Le case furono distrutte. A Pontelandolfo si presume che la scossa sia stata pari 10° della scala Mercalli.
Ma, come dicevano innanzi, elemento imprescindibile nell’edilizia rurale è stata la pietra. Ora legata con impasto di rena e strami di argilla poi pozzolana, ora con malta di calce.
Le case spesso venivano disposte perpendicolarmente alle linee di livello, in modo da occupare il minimo di fronte sulle strade, e di sfruttare il dislivello naturale per gli accessi indipendenti ai due o più piani.
Gli usi dei diversi piani sovrapposti sono più volte cambiati nel corso dei secoli, ma pare che già fossero diversi nel Medioevo in base all’attività principale svolta dalla famiglia. Vi erano ad esempio, case di contadini con la stalla al piano inferiore e l’abitazione indivisa in quello superiore; case di artigiani con la bottega ed un retrobottega-cucina al piano terra e le camere sopra; case di salariati con cantina-ripostiglio degli attrezzi sotto e camere sopra.
Nel 1857 Pontelandolfo contava 5561 abitanti di cui ben 4311 contadini, che zappavano la terra nelle campagne con la sola forza delle braccia.
Nell’ambito delle molteplici attività quotidiane il contadino pontelandolfese, tra l’altro, costruiva m’réc’n’, muri a doppia faccia di pietre faldate connesse a secco, che rappresentano forse i primi manufatti rurali eretti in tempi remoti sulla terra rocciosa di Pontelandolfo.
Le pietre estratte dal contadino con dura fatica dai fondi agricoli nel corso dell’aratura venivano poi accatastate con maestria. Cominciava dalla base, sempre più larga, costituita da massi più pesanti, sino al vertice, che il contadino chiudeva con una catena per tenere legate le pietre più lunge e più consistenti poste in opera alla conclusione della m’réc’na.
Tantissimi sono i muri a secco ancora ben visibili su tutto il territorio, che il contadino costruiva per delimitare e proteggere il proprio appezzamento di terreno coltivabile, un’area boschiva, come recinto per i verdi e appetitosi pascoli montani o come semplice muro di contenimento per evitare lo scivolamento del terreno soprastante. Insieme al muro realizzato in quel modo, attraverso l’applicazione della stessa tecnica il contadino si costruiva un abitacolo, un piccolo rifugio, una capanna cosiddetta casèlla. Una sorta di baita, dunque, di pietre faldate connesse a secco mediante graduale rastremazione del diametro della colonna con pietre squadrate fino al collarino della copertura con tegole di pietra sempre più larghe e meno spesse. Quasi sempre ubicata su terreni demaniali, veniva, di solito, utilizzata come rifugio per i guardiani intenti alla pastura degli armenti in montagna. La storia ci dice che l’ casèll’ vennero prese in prestito dai partigiani insorgenti, negli anni roventi legati all’Unità d’Italia, che se ne servirono come nascondiglio e postazione di avvistamento per prevenire gli attacchi della nemica Guardia Nazionale.
Adagiate lungo le falde dei crinali montuosi di Piano Feletta, Monte Calvello, Acqua del Monte o sui pendii assolati di ripidi versanti montuosi nelle immediate vicinanze degli antichi percorsi della transumanza alle località Laganelle, Costa del Resicco, Marziello e Cogli, attraversati dai montanari spesso con pesanti carichi sulle spalle per raggiungere ogni più piccolo e lontano angolo della montagna, l’ casèll’, che hanno sfidato il trascorre dei secoli, le intemperie e l’abbandono, e, nonostante l’incuria e l’oblio, miracolosamente – moltissime di esse – si presentano agli occhi del visitatore ancora in tutto il loro antico splendore in segno di fierezza, a dimostrazione della saldezza dell’impianto. Dietro l’apparente semplicità e precarietà della costruzione, infatti, si nascondono un’abilità e un’esperienza uniche.
L’abitacolo è un piccolo vano circolare con pavimento lastricato e un sedile di pietra tutto intorno, dotato di un’apertura sul fronte principale, l’ingresso, sempre esposta a levante, di diverse dimensioni sufficienti ad ospitare una o più persone, partiva da terra su una base solida e pietra su pietra faldata a secco senza l’aiuto della calce, del cemento o altro materiale collante, andava fino al tetto. Un lavoro di intreccio molto fitto, che isolava perfettamente l’interno della capanna, che richiedeva una forte dose di capacità tecnica, soprattutto nel completare la volta inerte senza alcun sostegno.
All’apice della costruzione, prima della chiusura, in alcuni casi il contadino-pastore aveva l’abilità di lasciare una piccola apertura nella quale inseriva con una certa pressione un cuneo, che diventava il punto su cui si scaricavano maggiormente le forze, decisivo, pertanto, nel sostenere tutta la costruzione.
Terminata la casèlla sulla volta inerte o falsa cupola venivano posate altre pietre a protezione delle prime e a lavori ultimati c’era chi copriva il tutto con una poltiglia di strami di argilla o pozzolana bagnata e lavorata con la paglia sulla quale scivolava l’acqua piovana.
L’unico attrezzo utilizzato per questo tipo di lavoro era il martello per adattare la pietra prima di posarla sul muro e darle una faccia presentabile, per il resto il contadino procedeva ad occhio per via di pratica.
Ho avuto modo di fare una scoperta sensazionale alla località Costa del Resicco, accompagnato in una esplorazione di straordinaria valenza storico ambientale naturalistica da Mario Mancini, discendente della leggendaria famiglia dei Cianfrone, frequentatore e conoscitore esperto di ogni più remoto anfratto del territorio di Pontelandolfo.
Nei pressi del crocevia di mulattiere, alle spalle dell’insediamento di Marziello dalla caratteristica architettura tradizionale, di collegamento pedestre tra le varie località montane e che permetteva il movimento migratorio degli armenti verso gli alpeggi, velato dal risveglio primaverile della vegetazione, riposa il torpore dell’oblio un vero e proprio villaggio rurale primordiale di casèlle nel raggio di poche centinaia di metri quadrati, insistente sulla crosta rocciosa di un costone, che dalla sua altezza scopre l’intero territorio di Pontelandolfo e dove si apre un panorama mozzafiato dei paesi del Sannio. Il villaggio fantasma si compone di decine e decine di abitacoli di pietra di diverse dimensioni e caratteristiche architettoniche, immobili nel tempo, che hanno resistito al lento inesorabile scorre dei secoli più o meno integri. Uno scenario avvolto dalla magia di una fiaba da mille e una notte.
Abitacoli per una persona o agglomerati di casèlle di dimensioni tali da poter ospitare intere famiglie, che, probabilmente, fungevano da dimora fissa per i pastori stanziali, taluni corredati di contigui ricoveri per le pecore, gli stazzi, attorno ai quali dormivano i cani per la difesa specialmente dai lupi o di pertinenze murarie a servizio nelle quali risultano ricavate piccole nicchie per la custodia degli attrezzi.
Alcune costruzioni, invece, hanno la caratteristica di essere equipaggiate alla sommità delle mura perimetrali solo di un prolungamento di lastroni di pietra a formare una tettoia per il riparo dalle intemperie.
Altri manufatti si presentano con muri perimetrali disposti per tre lati, il quarto aperto, senza alcun tipo di copertura, alla cui sommità, secondo la memoria storica degli anziani abitanti del luogo, vi si appoggiava il tipico grande ombrello del pastore a protezione dagli eventi atmosferici.
Tantissime altre sono le casèlle di cui esistono solo le primitive tracce sul terreno. Una base rotondeggiante di solide pietre ne è la inconfutabile testimonianza, il segno immortale del tempo che fu.
Gabriele Palladino