LE SUPERSTIZIONI POPOLARI NELL’EPOCA ORSINIANA
I documenti pastorali dell’arcivescovo Orsini e in modo particolare le costituzioni sinodali rispecchiano la sua grande dottrina e la sua impareggiabile sollecitudine pastorale e nello stesso tempo sono lo specchio fedele della sua epoca.
Lo storico che volesse tracciare un quadro del costume popolare nel Beneventano durante il primo settecento non dovrebbe trascurare l’attenta lettura dal Synodican orsiniano. Non solo le varie manifestazioni della vita religiosa ma diversi altri aspetti della vita sociale di allora trovano la loro documentazione nelle pagine del popolare arcivescovo, ad esempio le varie forme di superstizione popolare e di magia spicciola.
Il Beneventano è la terra dove nei secoli tenebrosi dell’alto medioevo nacque quella leggenda demoniaca delle streghe che ha avuto poi risonanza mondiale. Forse a causa di questa remota leggenda il Beneventano è stato sempre ritenuta la terra classica delle credenze superstiziose, delle vane osservanze, delle pratiche di magia.
Anche oggi con tutto il progresso scientifico e civile, maghi, indovini, fattucchieri, guaritori pullulano nelle nostre contrade e fanno affari d’oro perchè la clientela non manca mai. Figuriamoci nel settecento!
L’Orsini dalla sua cattedra episcopale tuonò contro ogni forma di superstizione. Lo fece per dovere pastorale ma da persona intelligente doveva essere convinto che le superstizioni popolari, come le erbe cattive, difficilmente si sradicano dall’animo del popolino e difatti molte di esse in vigore nell’epoca orsiniana esistono ancora tali e quali, altre hanno subito solo delle modifiche, delle trasformazioni ma resistono ancora validamente agli assalti del progresso, della civiltà, della predicazione cristiana.
IL CARDO NELLA NOTTE DI S. GIOVANNI
Nella notte tra. il 23 e il 24 giugno, festa di S. Giovanni Battista, le giovanette in attesa di un marito e anche donne più in là con gli anni ma che non ancora avevano deposto la speranza di trovarne uno, andavano nei campi e sradicavano un cardo e lo deponevano sul davanzale della finestra. Al mattino, di buona ora, andavano con grande trepidazione ad osservarlo. Il cardo era fiorito? buon segno! voleva dire che il marito sicuramente lo avrebbero trovato. Era invece appassito e inaridito? Ahimè! voleva dire che era il caso di mettersi l’animo in pace perchè del desiderato sposo non ci sarebbe stata nemmeno l’ombra.
DIGIUNO SECCO NELLA VIGILIA DELL’EPIFANIA
Riportiamo con le parole stesse dell’Orsini, traducendole dal latino, questa superstiziosa usanza, molto simile alla precedente del cardo, perchè anch’essa imperniata sulla eterna curiosità delle donne di interrogare il futuro per conoscere se troveranno o no un marito.
« Isaia attesta che non è gradito a Dio quel digiuno nel quale non si trova retta intenzione (cap. 58, 3).
Di siffatta specie certamente è quel digiuno al quale nella vigilia dell’Epifania si, sottopongono alcune stolte giovanette:
e lo chiamano digiuno secco perchè solo dopo mezzanotte bevono – qualcosa.
E sperano in tal modo che in quella stessa notte appaia a loro in sogno colui che le prenderà in moglie (le scioccherelle e per giunta;, digiune!) e per questo pronunziano anche delle cantilene superstiziose.., .
Queste vane osservanze e false usanze intendiamo proibirle e i rettori di anime, ove necessario, annunzino che sono vietate e insegnino che, come la moglie, così anche un marito prudente si deve aspettare solo da Dio » (100).
UN RITO PRIMAVERILE PER CONSERVARE LA CARNAGIONE BIANCA ALLE FANCIULLE
Il primo giorno di marzo le donne si recavano nei boschi o lungo le siepi delle strade campestri per raccogliere le violette appena sbocciate. Se le violette si raccoglievano per altri usi non c’erano regole sul modo di raccoglierle. Se invece esse servivano per lo scopo che si dirà, bisognava coglierle con la mano sinistra.
Quindi con esse si tingeva un filo bianco che dalle mamme o dalle comari veniva legato al polso parimenti sinistro delle bambine e delle giovinette. In tal modo la loro carnagione sarebbe stata sempre rosea e non avrebbero sofferto le scottature del sole (101).
CURIOSI MODI DI AIUTARE I PARTI DIFFICILI,LE AGONIE LUNGHE E GLI ATTACCHI DI EPILESSIA
Per i parti difficili non era il caso di ricorrere alle prestazioni di una buona levatrice perché bastava che un volenteroso salisse su un campanile afferrasse con i denti la fune della campana e cominciasse a suonarla.
Quando le agonie si prolungavano troppo, gli astanti cercavano pietosamente di abbreviarle e mettevano sotto il cuscino del moribondo una pietra, nella credenza che quello in vita aveva scavato e spostato qualche termine divisorio nei confini dei territori, oppure un giogo da buoi, pensando che ne avesse anche involontariamente scavalcato qualcuno.
Per gli assaliti da improvvisi attacchi epilettici bastava tagliare un pezzetto delle vesti del paziente e bruciarglielo sotto il naso in modo da fargli aspirare il fumo.
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UNA MANIA PER FUGARE LE PEBBRI MALIGNE
C’è la « fattura » e la « controfattura » come sanno tutti coloro che hanno anche una semplice infarinatura di scienze occulte a livello popolare. La prima ispirata da odio o spirito di vendetta tende a nuocere al prossimo procurandogli malattie o morte; la seconda tende a neutralizzare i malefici influssi della prima « togliendola » se già « fatta » o assicurando la immunità da essa; qualora venisse fatta. Se uno, ad esempio, veniva colpito da qualche malattia di incerta e difficile diagnosi, c’era sempre un amico o un parente che giuravano, magari in contrasto con tutti i responsi della scienza medica, trattarsi sicuramente di fattura.
Bisognava allora ricorrere ai maghi buoni i quali non se ne stavano con le mani in mano e suggerivano i loro antidoti che variavano caso per caso.
Per le febbri maligne c’era questo infallibile antidoto: prendere un rospo vivo, distenderlo a terra in posizione supina, coprirlo con una grossa pietra e poi schiacciarlo.
Mentre il rospo moriva bisognava pronunziare le seguenti parole magiche: tanno la freve a n.n. (e si diceva il nome della persona febbricitante o della persona da cui si voleva tener lontana la febbre maligna) possa pigliare quanno stu vuotto se possa votare.
PRECAUZIONI PER LE GIORNATE NUZIALI
Ma quando le due magie quella malefica e quella benefica, si misuravano senza esclusione di colpi era nelle giornate nuziali.
Gli sposi anche se si mostravano sorridenti e raggianti di gioia, erano sotto la preoccupazione continua che qualche mago cattivo su ordinazione di un loro nemico o nemica, facesse loro quel maleficio che il popolino chiamava « legatura » il quale tendeva a sconcertare i loro rapporti amorosi.
Per tale motivo si imbottivano di amuleti e di oggettivi sacri: i loro parenti tenevano d’occhio le vasche dell’acqua santa all’ingresso della chiesa allontanandone tutti, perchè c’era la incredibiile credenza popolare che con l’acqua santa si potesse fare un invincibile maleficio.
Ma il rimedio più sicuro contro la legatura degli sposi anche questa volta era quello suggerito dai maghi benefici: Lo riportiamo con le parole (di condanna) dell’Arcivescovo Orsini: « presso la porta della camera preparata per gli sposi quando debbono consumare il matrimonio ,per la prima fiata, seppellire un cagnolino partorito per la prima volta da qualche cagna ed ucciso a tal’effetto, credendo che con questo le streghe non vengano in tempo di notte a sconcertare i loro rapporti o a sconciare i loro parti.
IL CASO DI UN ECCLESIASTICO « AMMALIATO »
Il Cardinale Orsini, uomo del suo tempo, credeva ai « filtri ».
Lo possiamo dedurre da una lettera pastorale spedita il 14 settembre 1719 a tutte le anime pie della Diocesi per invitarle a fare preghiere per un povero ecclesiastico ammaliato. « Se vi ha cosa efficacemente valevole ad eccitare nei petti umani atti di somma compassione una si è il vedere e l’udire il nostro prossimo ammaliato, specialmente col maleficio, chiamato dai teologi amatorio cioè che ad captandas delectationes carnales intendatur.
Più compassionevole poscia si rende somigliante maleficio quando affligge gli Ecclesiastici i quali debbono essere Ermellini di purità e candore.
Essendoci dunque stato rappresentato da Roma con lettera in data 30 del passato mese di agosto che ivi si ritrova un Ecclesiastico il quale da venti anni incirca sta immerso nel peccato a cagione di un gravissimo maleficio che gli fu fatto nella età di cinque anni e che sia costituito in stato di eterna dannazione e ci è stato aggiunto che la persona del suddetto ammaliato sia cara a S. Santità e che quando si convertisse sarebbe per fare gran bene nella chiesa di Dio; perciò siamo stati pregati di ordinare fervide e incessanti orazioni a beneficio del medesimo sperandosi non solo la vera conversione di esso ma ancora la liberazione da ogni diabolico ammaliamento (104).
(104) Archivio di S. M. di Montefusco. Editti extrasinodali,_ vol IL, pag. 23.