L’ASSEDIO DI GAETA / Quella versione in napoletano che ci racconta la nostra lingua
marzo 19, 2014
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Ci vuole coraggio e capacità di osare. Ci vuole anche una buona dose d’anarchismo. Ci vuole l’amore. Per andare oltre i luoghi comuni, oltre le “tendenze modaiole” dell’editoria. Vincenzo D’Amico tutte queste qualità le possiede.
Lo dimostra, lo conferma, la sua ultima irriverente idea editoriale. L’ultimo nato dalla D’Amico Editore, infatti, è “L’assedio di Gaeta” di Charles Garnier. Il che non sarebbe abbastanza rivoluzionario se Vincenzo non avesse scovato, nella sua collezione di giornali della primissima era post-unitaria che si va allargando tra acquisti e ricerche in biblioteca, una traduzione dell’opera, in lingua napoletana tratta dal giornale “Lu trovatore” ad opera di tal Don Saverio.
Nell’introduzione Giuseppe Catenacci e Francesco Maurizio Di Giovine ci raccontano un po’ di Garnier, giornalista, analista politico, uomo fedele alle istituzioni napolitane, a Gaeta fin dal primo giorno dell’assedio, che raccontò all’epoca con poche note di cronaca giornaliera. Le cronache, uscite in francese, saranno poi pubblicate dalle edizioni di Luigi Di Domenico e Antonio Campagna di Napoli, nel 1861. Passeranno cent’anni prima di rivederle in libreria, con due diverse edizioni, datate 1971 e 1998.
Vincenzo D’Amico, nella sua incessante ricerca, ha però trovato questa singolarissima traduzione in lingua partenopea, uscita a puntate sul “tresettimanale” Lu Trovatore, dal 19 novembre 1867 al 18 agosto 1878. Lu Trovatore fu uno dei tanti giornali napoletani che si opposero al nuovo regime savoiardo. Fu scritto in napoletano fino al 1871 e diretto da Don Saverio, figura di cui si sa ancora poco e di cui purtroppo non meglio si racconta nel volume della D’Amico editore.
Ma è l’unica pecca. Per il resto è un vero piacere leggere le cronache in questa versione nel nostro idioma identitario. Sarà che la lingua napulitana rende meglio l’emozionalità, facendo compenetrare maggiormente nella solitudine e nel coraggio dei sovrani borbonici. Sarà che la fantasia va più facilmente a quei drammatici giorni che vanno dal 4 novembre 1860 (“da ogge se po’ddì ca l’assedio de Gaeta è accomenzato”) per arrivare al 14 febbraio 1861, “a buordo de ll’aviso francese la Muette nnanze Terracina”, quando gli ultimi sovrani Borbone lasciano il regno per sempre, per rifugiarsi a Roma.
E sono pagine a tratti commoventi, drammatiche, fluide, in un napoletano comprensibilissimo, facile da leggere, che si beve in poche ore. Emergono forti, ancor di più, le figure cruciali del drammatico episodio, quelle dei due sovrani e del generale boja, Enrico Cialdini. “Dice ca continuarrà a tirà a tutte le pparte, senza avè riguardo pe li malate” è scritto a un certo punto, dal momento che le cronache narrano anche di malati sparati direttamente negli ospedali.
Dame, monache, soldati, generali, nobili, prendono vita grazie alla meravigliosa nostra lingua. E poi l’assedio, sempre più pressante, sempre più drammatico con il re Francesco II e la regina Maria Sofia, umile, coraggiosa, che dice “avria però addesiderata qualche piccola ferita” quando una cannonata fa esplodere i vetri di una finestra da cui si affacciava. O che va a far visita ai malati portando loro “tutto chello che ha potuto trovare co essa” e che, mentre lascia Gaeta, alla fine, a bordo di una nave è descritta così: “E’ stata paricchio tiempo sola a la polla de lo bastimiento, appojata ‘ncoppa a lo parapietto e contempranno li scuoglie de Gaeta”.
“A lo momento le Lloro maistà passajeno la soglia de la porta de mare, lo strillo de Viva lo Rre! jettato da lo popolo de la guarnigione, salutaje chillo del lo quale s’è vouto fà no tiranno spaventevole” è il racconto dell’ultimo saluto, con l’onta finale del cambio di bandiera (quella francesce al posto di quella delle duesicilie) ammainata sulla nave che li portava via.
Il libro della D’Amico editore però contiene altro, molto altro. Anzitutto la versione, sempre in napoletano, più o meno dello stesso periodo, tratta però da un’altra rivista d’epoca, “Lo Cuorpo de Napole e lo Sebbeto” di ispirazione filo unitaria, per dar voce ai vincitori come ai vinti. Si tratta anche del primo giornale in lingua napulitana (nacque nel 1860) e del più longevo. Fin dal primo numero “Lo Cuorpo de Napole e lo Sabbeto definì il suo programma: “Rendere chiaro al popolo le cose che gli altri giornali stampavano in toscano” rendendo difficile la comprensione alla maggioranza dei napoletani”.
Ed è un po’ l’operazione, al contrario, che ha fatto Vincenzo D’Amico. Per ricordarci che, se vogliamo far vivere la nostra lingua identitaria, è sulla lingua che dobbiamo lavorare, portando avanti operazioni come questa. Un’operazione preziosissima che merita un’alta attenzione da parte del mondo identitario. Un libro da leggere e da mettere in posto d’onore in libreria – ottimo anche il glossario offerto in appendice – che, oltre alla storia, drammatica e avvincente, ci ricorda ben altre grandezze – le nostre parole d’origine – ancora vive, ancora capaci di accendere profonde emozioni.
Vincenzo D’Amico, come al solito, ce lo ha ricordato. Onore al merito. Compratelo, leggetelo. Vale più dei 10euro che costa. Molto, molto di più.
Lucilla Parlato