LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO | 27° episodio UNA RAGAZZA SENZA NOME… di Valentino Romano (*)
Corleto, dicembre del 1865.
Questa è la storia, la misera storia di una ragazza della quale non si conosce nemmeno il nome. E, su quante siano state le donne senza nome vittime o protagoniste del brigantaggio, si potrebbe scrivere un intero saggio. Noi conosciamo l’identità solo di quelle, come dire, più “appariscenti”, cioè di quelle balzate agli onori della cronaca per le loro gesta eclatanti, per i loro amori, per la loro fine. Chi non conosce, infatti, la famosa Ciccilla o Michelina o Filomena? Sulle loro sventure ci hanno campato e ci campano ancora decine di scrittori, romanzieri o storici che fossero e siano. Ma il brigantaggio al femminile è tutto anche attraversato da una folla anonima di comparse, tutto avvolto nelle nebbie di storie che non fanno cassetta e che, quindi, non meritano nemmeno il riconoscimento anagrafico. A chi voglia saperne di più su queste “storie minime”, scavando nelle carte d’archivio, pare talvolta di addentrarsi in un cimitero di guerra, uno di quelli con tante croci uguali e senza nome. Se, però, l’anonimato colpisce in misura rilevante le cosiddette “donne del brigantaggio”, cioè quelle che affiancarono i briganti, ancor più colpisce le altre donne vittime del brigantaggio e dei briganti e, persino, della caccia a questi ultimi: è il caso di questa ragazza di Corvaro, della quale riusciamo a ricavare (pure indirettamente) il solo cognome, Lapenta. Null’altro sappiamo della sua età, della sua vita, dei suoi sogni (ove pure alle ragazze delle classi subalterne fosse mai stato concesso averne). Conosciamo a malapena la fine e le sue modalità: eccole.
Nelle campagne di Corleto si aggirano tre briganti del paese, Francolino, Grande e Pallotta: il capitano Gherardi che comanda una compagnia del 31° Reggimento Fanteria “Siena”, non sa più cosa rispondere ai suoi superiori che richiedono misure energiche e definitive per la loro cattura.
Pensa e ripensa, «dopo aver veduta la inutilità di ogni sforzo per sorprenderli all’aperta campagna, arriva al modo di coglierli in qualche agguato»: dapprima colpisce, «con molta avedutezza», i numerosi manutengoli che briganti hanno nel paese; poi, grazie ad alcuni informatori, si procura «buone relazioni sulla loro dimora e tendenza». Viene così a sapere che in «un giorno indeterminato i tre briganti intendono entrare in una masseria, ed ivi mangiare e bere e fare baldoria.» La masseria, in contrada Tempademma, è di proprietà di Francesco Lapenta che, quando si dice la combinazione, è anche un milite della Guardia nazionale di Corleto. È fatta, si dice l’ottimo Gherardi, fregandosi le mani; immediatamente convoca il Lapenta e, con le buone o meno, se ne assicura l’attiva collaborazione. Il piano è quello di attirare i briganti con le solite lusinghe di un lauto banchetto e di piacevole e compiacente compagnia femminile, Così Lapenta predispone l’occorrente riempiendo le dispense delle masserie con vini e cibarie varie. E la compagnia femminile? Nessun problema, ci sono le due giovani e avvenenti sorelle del milite e questi decide di utilizzarle alla bisogna, mandandole in masseria qualche giorno prima con la scusa di adibirle a lavori campestri. Le sue giovani sorelle? Sì, amici, avete capito bene: per quanto possa apparire disgustoso è proprio così: il Lapenta non si vergogna di usare la sua famiglia come esca. Comunque, una volta predisposto tutto, la notte del 7 dicembre, vestito da soldato, conduce celatamente nella masseria una pattuglia di otto soldati per sorprendere i briganti. Bisogna essere cauti, i briganti, è risaputo, sono sempre all’erta: il gruppetto si apposta allora nel porcile, attiguo all’abitazione: qui per mezzo di un foro praticato nella parete, riceve dalle sorelle notizie intorno ai detti briganti. Il luogo dell’appostamento, come si può ben comprendere, non è certamente fra i più confortevoli, tanto che uno dei graduati, il furiere Baciocchi, ha il suo bel da fare con i soldati “per tenere l’ordine e la disciplina nel nascondiglio nel quale richiedesi il massimo silenzio”. L’attesa, che si protrae per tre lunghi giorni, alla fine è premiata: nella serata del 10 i tre briganti arrivano e si predispongono a trascorrere qualche ora serena; di lì a qualche minuto dall’abitazione arrivano fino al porcile il suono della zampogna e i canti e le risate di una comitiva che si diverte.
I militi fremono, non sappiamo se per l’eccitazione dell’assalto ormai prossimo o per una certa, giustificata invidiuzza. E come dargli torto? I briganti a spassarsela e loro in un porcile… Che mondo!
Al tardi, finalmente, una delle sorelle avverte – tramite il famoso foro – il fratello di «essere giunto il momento di attaccare».
Il commando viene allo scoperto: «Broglia sottotenente esce per primo», blocca ogni via di fuga e si dirige alla porta della masseria. Giunto sull’uscio del locale sente «dal suono della zampogna e dal rumore che i briganti stanno lietamente danzando».
È il momento di agire: si sfonda la porta e si irrompe, armi in pugno; i briganti sono colti di sorpresa. Però, pur sollazzandosi, non hanno del tutto trascurato di usare qualche accortezza: infatti ballano «senza dubbio col revolver alla cintola».
Ne scaturisce un breve ma intenso conflitto a fuoco nel quale, com’è nell’ordine delle cose, i tre briganti soccombono e ci lasciano la pelle.
Tutto bene allora quel che finisce bene? Per niente, perché: «sfortunatamente una delle giovini Lapenta nel breve combattimento resta uccisa dal brigante Grande con cui ballava e che asl primo entrare della truppa erasi insospettito dall’orditogli tranello. Il suonatore di zampogna rimane pure ferito, ma non gravemente».
Non si lamentano altri danni collaterali, se si eccettua quello del soldato D’Appolito che ne ha il fucile «inservibile e la ciberna degradata» e del caporal Canigia che si ritrova con il cappotto forato da una pallottola.
E l’eroico milite della Guardia Nazionale?
Encomiastico è il commento dell’ufficiale: «ha esposto la propria vita nella cattura ed uccisione dei tre malfattori, ma sgraziatamente paga la riuscita col sacrificio della vita della propria sorella».
Guarda un po’! Espone la propria vita. Lui! Perché con quella delle sorelle, cos’altro ha fatto il miserabile?
Scopo manifesto dei toni entusiastici del rapporto è, soprattutto quello di richiedere prebende e ricompense per gli eroici protagonisti della storia. La morte di una ragazza incolpevole? Un incidente di percorso, una “sgraziata” circostanza.
C’è dunque profumo di medaglie in questa storia. Ma è sopraffatto da un puzzo insopportabile. Per via del porcile? Forse. Ma soprattutto per il cinismo di un fratello che non si cura di esporre a pericoli mortali le sue sorelle. Lapenta sarà stato poi premiato? Non si sa. L’unica cosa certa è che ha alloggiato per tre giorni nel luogo che gli è più congeniale, in mezzo ai porci. Con tutto il mio rispetto per questi ultimi.
La storia finisce qui: la ragazza Lapenta è morta e non ha meritato nemmeno la citazione del suo nome. Un semplice danno collaterale.
Lo so, amici. Voi vi aspettate che io parli delle donne in armi, di quelle che “virilmente” si opposero al “nemico invasore” e solo di queste. E a me, invece, piace sì parlare di queste, ma anche di tutte le altre, delle vittime fragili – più o meno consapevoli – della cosiddetta guerra contadina, da qualunque parte siano state, semplicemente perché “vittime”, senza badare troppo all’appartenenza a questa o a quella fazione.
Cosa ci volete fare, io sono questo: sono solo un modesto e semisconosciuto ricercatore, autodidatta o quasi, che scava nei documenti d’archivio per cercare storie di varia umanità; uno che lascia nell’armadietto degli archivi non solo il pastrano e la borsa di lavoro ma anche l’ideologia di riferimento. Se poi, invece, preferite (pur del tutto legittimamente, intendiamoci) scrittori famosi e “mediatici” che diffondono la “vera verità” [sic] andando dietro – come star dell’evento – alle processioni in costume brigantesco … rivolgetevi altrove. Di certo non me la prendo.
Alla prossima!
(*) Promotore Carta di Venosa