VALENTINO ROMANO* SULLA FICTION “BRIGANTI” DI NETFLIX
*Rete culturale CARTA DI Venosa
Immaginiamo un campo di calcio con le due curve contrapposte e pensiamo queste due ultime stracolme entrambe di fans esasperati dell’una e dell’altra squadra in campo: striscioni, cori, motteggi, insulti. Insomma, tutto quello che caratterizza una “normale” partita di calcio. Solo che questa non è una partita “normale”: stavolta si fronteggiano due squadre irriducibilmente ostili e tra loro inconciliabili: da una parte la “Virtus Italiauna” e dall’altra la “Pro Stavamomeglioprima”; in palio il primato sulla verità storica sul difficile nascere della Nuova Italia. Un primato reciprocamente conteso con le unghie, con i denti, con contumelie d’ogni tipo e con la denigrazione – anche becera – dell’avversario, senza esclusioni di colpi; una rivalità antica, vecchia di oltre centosessant’anni che, ora sopita, ora riaccesa, riesplode ogni qual volta appare all’orizzonte anche il benché minimo motivo per polemizzare.
Questa volta la scintilla è una fiction di Netflix, Briganti.
Come una serie cinematografica che ha come protagonisti i famigerati briganti del Sud? Orrore! Meraviglia!
Così, ancor prima che cominciasse la partita, da una parte è partito il primo coro da stadio: “narrazione tossica” ha gridato a gran voce un ultras (per la verità finora poco conosciuto nella frangia della tifoseria estrema) della Virtus Italiauna”; nemmeno il tempo di avvertire l’eco del grido di denuncia che è subito arrivato il coro di parte avversa “Ecco, finalmente, raccontata la verità storica”.
Il tutto per la serie apodittica del “briganti criminali” o briganti eroi”.
Adesso, più seriamente e fuor di metafora, vogliamo provare a parlarne con un minimo di obiettività e serenità di giudizio?
Briganti è una fiction, solo una fiction! E, come tale, dovrebbe essere valutata, senza caricarla di intenzioni e significati che forse non ha. Non è “tossica” e non è “verità storica”.
Perché mai poi dovrebbe essere tossica? Perché forse, nella sua straripante idealizzazione della figura del brigante come “combattente per la libertà”, come “eroe positivo”, come “modello comportamentale”, scalfisce la narrazione ufficiale e canonica del processo risorgimentale per come e con quali metodi si realizzò nel Meridione?
E, per converso, sarebbe questa la “verità storica” o non piuttosto uno stravagante pot-pourri di luoghi, fatti e personaggi che di storico e realmente accaduto ha solo qualche nome (in alcuni casi pure storpiato)? Suvvia! Lo ripeto, è solo una fiction. Prendiamola per quello che è: una fiction. E, si sa alle fiction tutto è consentito, anche le corbellerie più assurde. Non diamole valenze e significati che non ha e non può avere.
Se una valenza, oltre quelle cinematografiche (sulle quali, non avendone competenza alcuna, non mi permetto di dire alcunché), può avere è quella di offrire una diversa chiave di lettura del fenomeno brigantesco postunitario e – di conseguenza – di stimolare interesse e possibili approfondimenti su un periodo storico (e sui suoi protagonisti) normalmente taciuto o sistematicamente distorto; altro aspetto che la rende interessante e utile, considerata l’inevitabile diffusione sui circuiti internazionali di Netflix, è quello (già rilevato da altri) di “esportare” all’estero la saga di un periodo storico che, da noi, si è sempre voluto rimuovere o minimizzare o ridurre a fenomeno esclusivamente criminale.
Certamente, se si guarda la fiction attraverso la lente della storicità della narrazione, c’è da rimanere inorriditi. Faccio solo un esempio, Filomena Pennacchio (che, nella fiction, è diventata De Marchi …), Maria Oliverio (Ciccilla) e Michelina Di Cesare nella realtà mai si sono incontrate perché hanno “operato” in zone, e talvolta, anche in tempi diversi. Se proprio la vogliamo dire fino in fondo, la costruzione filmica degli eventi storici reali ricorda molto le fandonie e le superficialità di certa memorialistica militare coeva ai fatti; mi pare riconducibile allo stesso filone, a un De Witt in peius, insomma. (E sì che, ottimisticamente, avevo finora creduto che la cosa non fosse umanamente possibile. Bah!). Personalmente, avendo “inseguito” per oltre trent’anni le vicende umane di Filomena Pennacchio, considero la trasposizione filmica di questo personaggio una mistificazione inaccettabile.
Ma, non mi stancherò di ripeterlo fino alla noia, è solo una fiction! Da vedere comunque.
Qualche amico – non senza qualche ragione – ha ritenuto di individuare in essa un altro motivo di validità: “l’importante è che di quel periodo di storia finora “negata” se ne parli”. Giusto! Ma solo parzialmente. È importante che se ne parli, è vero. Ma è ancor più importante che se ne parli correttamente. E, se la fiction provocherà, con approfondimenti successivi, questo risultato, allora … ben venga.
Un’ultima osservazione che discende da anni spesi a studiare carte e documenti vari: la storia del brigantaggio postunitario, quella vera, è di per sé, come dire, la sceneggiatura ideale per un’opera cinematografica. In altri termini, inglobando in sé, tutti gli elementi necessari per una sua trasposizione scenica, non ha bisogno di alcun ricorso alla fantasia, a costruzioni fantastiche. Basterebbe raccontare i fatti reali per come si sono effettivamente svolti, i personaggi attraverso le loro reali vicende umane per trarne qualcosa che si avvicina di molto alla tragedia epica: per farlo, però, bisognerebbe calarsi nello spirito dei tempi e nelle situazioni del tempo e contestualizzarli all’interno di quel mondo contadino che ne fu l’humus ideale. Senza romanzare alcunché.
Volete un esempio tangibile di tanto? Eccolo: la “Storia bandita”, lo spettacolo storico che, di anno in anno, si rinnova alla Grancia di Brindisi di Montagna. Lì non si è fatto ricorso alla fantasia, si sono raccontati i fatti reali. E il successo di pubblico ha confermato la validità della scelta.
Allora guardiamoci pure Briganti di Netflix, discutiamone, approfondiamo quanto ci pare, ma quest’estate andiamoci a vedere quello spettacolo. Sarà esercizio conoscitivo più utile.