LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO | 6° episodio
PEPPINELLA.
di Valentino Romano *
Maria Giuseppe Gizzi, di Colliano, detta Sceppella e anche Peppinella, era la donna del capobanda Giacomo Parra, Scorzese, attivo nella zona compresa fra Eboli, Persano e Capaccio nel periodo dal 1862 alla fine dicembre del 1866. La donna fin dal 1863 era in rapporto con i briganti, tanto che nel 1865 fu arrestata a Salerno e subì un processo del tribunale di guerra di Salerno per favoreggiamento. L’immagine che ne viene fuori da questo procedimento non è delle migliori. La donna fu infatti considerata dai giudici “la principale puttana e ruffiana dei briganti”. a Giuseppina i giudici contestarono la “complicità alla barbara uccisione di Filomena Pecoraro commessa dal brigante fu Gabriele Scaglione, “di essersi recata spesso a Salerno per comprare oggetti per le drude de’ briganti, “di essersi prestata finanche a portare le medicine ad un brigante ferito, la complicità “nell’estorsione con sequestro di persona ed omicidio in persona di un trainante avvenuta in giugno e luglio 1863. Una teste, Angela Maria Fasano, l’accusò di essere colei che “trasse le figlie Lucia e Filomena Gugliocciello a prostituirsi con i briganti”.
Anche i familiari di Maria Giuseppa furono inquisiti per connivenza con i briganti: pare anzi che suo fratello Alfonso e il cugino Francesco si dettero alla macchia nel 1863.
Sarebbe stata proprio la Gizzi ad additare alla vendetta dei briganti una ragazza del luogo, Filomena Pecoraro che, in una taverna – alla sua presenza – avrebbe detto ad alcuni bersaglieri che, pur di catturare tutti i briganti, avrebbero dovuto travestirsi con abiti femminili. Dopo pochi giorni, la ragazza fu catturata da Gabriele Scaglione e trucidata. Un’altra testimone, Patrizia Scaglione, la definì “quella che dopo essersi prostituita coi briganti in parola e resasi la più fidata concubina del capobanda Matteo Stiusi, ha fornito sempre alla banda medesima ogni maniera di soccorsi, notizie ed aiuti, con portare quotidianamente dei viveri, abiti tutt’altro bisognevole, non solo ma è stata benanco la più efficace mezzana presso i briganti suddetti procurando ai medesimi le migliori giovanette del paese a sfogo della loro libidine”.
Che tra l’ambiente frequentato da Giuseppina e i briganti ci fosse un “illecito commercio” è anche confermato dalla testimonianza di una ragazza quindicenne, tale Rosa Russo, che raccontò ai giudici come “un giorno del mese di maggio ultimo andando alla montagna insieme alle mie vicine Teresa Di Leone, Arcangelo Giorgio e Mariantonia Fumo lungo la strada con meraviglia osservava che le medesime andavano accomodando la loro toletta, cambiandosi anche il fazzoletto ed altro; ed io domandando loro il perché di tale di ripulimenti, n’ebbi delle brusche risposte e per poco non mi batterono. Arrivati intanto al punto della montagna detta Acqua di Ceraso ci venne innanzi un brigante che dalle compagne chiamavasi Giuseppe, col quale se ne andarono dicendomi che non le avessi attese ma che me ne fossi andata con la sorellina d’Arcangela a nome Antonia. Io però per la paura non mi mossi, sperando che sarebbero tosto ritornate per andarcene insieme, dovetti però attendere un quattro ore o cinque ore prima che fossero cominciate a tornare, l’una dopo l’altra, e l’ultima a ritirarsi fu Teresa Di Leone, tutta affannata, pallida e scomposta nella persona. E ritornandomene nel paese la Di Leone voleva darmi un paio di soldi per obbligarmi a non dire nulla e io non voglio accettarli. E volendo poi divertirmi sul fatto loro e maggiormente scovrirle, di repente dissi che veniva la forza, ed esse, sbalordite, si levarono torto di dosso i fazzoletti nuovi e si nascosero dentro le calze certi specchietti rotondi che avevano ricevuto dai briganti”.
Il brigante Di Gè , uno dei pochi ad aver lasciato memorie scritte delle proprie gesta, descrive a modo suo l’arruolamento definitivo di Peppinella, avvenuto nel maggio 1866, negli effettivi della banda: “Parra si mandò a chiamare la fidanzata che serviva solo per il suo bisogno: si chiamava Peppinella, era bella di viso e bella di tratti. Dopo pochi giorni il Parri la voleva rimandare. E e lei disse: voglio stare con voi a fare il bandito. La verità, il Parra non voleva, ma essa si volette lasciare. Anche io gli dissi: Peppinella, meglio che ve ne andate altrimenti la vostra vita è poco. Essa rispose: dove corre corre la mia pianeta. E si lasciò con noi”.
Peppinella, secondo il Di Gè (che lo avrebbe riferito direttamente a Gaetano Salvemini, come quest’ultimo riporta nelle note della sua curatela dell’autobiografia del brigante, sarebbe stata: “robustissima, intrigante, causa di liti e malintesi fra il Parra e i suoi seguaci. Si diceva che ingannasse il Parra col Meola: e questo diè motivi a rancori fra i due, finché il Meola si allontanò dalla banda”.
Un’altra testimonianza diretta ci restituisce però un’immagine assai diversa della donna: Giuseppe De Marco, un possidente di Trentinara, residente in Albanella, venne rapito con un suo congiunto dalla banda Parra il 1° settembre del 1866; dopo molte traversie fu liberato dietro pagamento del riscatto. Della disavventura occorsagli il De Marco lasciò una specie di resoconto rinvenuto e trascritto da un suo pronipote nel 1981: in esso De Marco parla di Peppinella – presente nella banda e ammalata – che egli avrebbe in qualche modo curato, entrandone in confidenza. Ed è proprio in virtù di tale rapporto che la brigantessa confidò al sequestrato le proprie vicende: proveniente da una famiglia “agiata e onesta”, a causa di rovesci di fortuna, fu costretta a fare la cameriera presso una famiglia di Colliano. Giacomo Parra era colono presso gli stessi proprietari e i due si fidanzarono: Giacomo, travolto dai debiti, perse tutto ciò che aveva e si dette al brigantaggio, abbandonando anche Peppinella. Dopo un anno dall’inizio della sua latitanza tornò a trovarla, dicendole di volersi costituire. Fu così che Peppinella condusse l’arciprete e il sindaco del paese nel bosco dove la banda era rifugiata perché fosse concordata la resa. I briganti, però, sequestrarono i due notabili e li costrinsero a pagare un forte riscatto in cambio della libertà. Peppinella rimase con Parra e, come confidò al Di Marco: “io rimasi sempre nel bosco e divenni l’amica del Parra. Fui vestita da uomo e mi si tagliarono i capelli. Da quel tempo non ho visto più i miei cari. Sangue, pugnali, omicidi e non altro ho visto da allora”.
La donna non doveva essere del tutto priva di umanità e godeva sicuramente di notevole ascendente sul Parra, dal momento che – forse grata per le cure ricevute – riuscì ad evitare al Di Marco la mutilazione dell’orecchio: “mentre l’arma destinata all’orrenda funzione mettevasi in ordine la confidente del Parri, intendo dire la Giuseppina, si mosse dal luogo dove era e venne a noi vicino. Chiamò il Capo in disparte. Vidi che parlavano molto tra loro e che essa discuteva con grande enfasi ed interesse. La conversazione segreta durò circa un quarto d’ore. Appena terminò il discorso quella donna riprese giuliva e il suo posto donde fece a me molti segni incomprensibili ed arcani”.
L’avventura brigantesca di Peppinella, come la sua vita fu di breve durata: la donna andò incontro a morte con il suo compagno il 1 gennaio 1867. A decretarne la fine fu il tradimento: l’esasperazione dei possidenti taglieggiati del padre era ormai al colmo. Visto inutile ogni tentativo di sconfiggere e catturare il brigante con l’uso della forza, si decise di ricorrere all’inganno: se ne incaricò un certo Alfonso Panaro che contattò vari fiancheggiatori del brigante; tra questi riuscì a corrompere Pasquale Lisanti, al quale il sindaco di Muro Lucano promise l’impunità. Lisanti, attirò in un tranello Parra e Peppinella, li uccise entrambi, recidendone poi le teste che consegnò al sindaco di Bracigliano con cui aveva altre avuto altre intese.
Le cronache indicano che ci fu macabra contesa fra i due comuni, Muro Lucano e Bracigliano, per avere le teste degli uccisi. Cosa non si farebbe per un “trofeo”!
* Promotore Carta di Venosa