LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO | 13° episodio MARZIA, BRIGANTESSA “BALDANZOSA”.
di Valentino Romano (*)
Marzia Crocamo era una contadina ventiquattrenne nativa di Centola (Sa), moglie del brigante Marino, con la cui banda scorse la campagna nell’estate-autunno del 1863, prima di essere arrestata nella notte tra il 4 e il 5 ottobre. Le poche notizie su questa donna sono desumibili dalla sentenza di condanna cui andò incontro. Il 27 novembre dello stesso anno fu giudicata dal Tribunale Militare di Salerno
«per avere armata percorsa la campagna unita alla banda di briganti condotta da suo marito Nicola Marino prima e dopo il primo settembre prossimo passato prendendo parte attiva ai vari scontri avuti colla Guardia Nazionale precedendo ed animando baldanzosa e superba i suoi compagni».
Secondo l’accusa la donna «da parecchi mesi divideva le criminose gesta del marito, scorrendo in unione ad esso ed ai costui seguaci la campagna armati di fucili» Tra le testimonianze a suo carico vi erano quelle dei fratelli Francesco e Luigi Di Lorenzo, di Domenico Marsicano e Alfonso Natale: tutti giurarono che, transitando per la contrada S. Basile, ebbero modo di riconoscere perfettamente l’imputata che «armata di fucile sortiva dal bosco ed unione a quattro briganti, fra i quali il di lei marito soffermavasi a riposare su un grosso sasso».
A complicare la situazione processuale della donna ci si mise anche la solita “voce pubblica”, della quale si fece autorevole portavoce il consigliere municipale Pasquale Del Duca, che sosteneva come la «Crocamo nello stesso mese di settembre trovandosi unita alla comitiva capeggiata da suo marito ed in vicinanza della montagna di Cuccaro, al conflitto avvenuto tra detta comitiva e la Guardia Nazionale di Futani, vi prendeva parte attivissima, tirando cioè parecchie fucilate a detta Guardia Nazionale» La brigantessa, «stanca forse dei disagi della vita brigantesca», decideva infine («sullo scorcio dello stesso mese di settembre») di rifugiarsi nell’abitazione dei coniugi Rosario D’Angelo e Teresa De Luca, «dai quali veniva senza ostacolo di sorta accordata la chiesta ospitalità». Per tale motivo anche i coniugi venivano poi, come si vedrà, rinviati a giudizio nel medesimo procedimento. In più il D’Angelo «allo scopo di sottrarla alle ricerche della pubblica forza costringeva con minaccie il suo vicino di abitazione Paolo D’angelo a darle ricetto nella propria casa».
Sui D’Angelo già gravavano sospetti di collusione con i malfattori. E, per questo motivo, la Guardia Nazionale, tenendoli d’occhio, aveva appurato che Paolo, dopo aver comprato «tre rotoli di pane fino», era stato visto «un mattino sul far dell’alba ritornare dalla montagna». A sfavore di Rosario D’Angelo giocavano poi «gli sfavorevolissimi di lui precedenti» che lo facevano ritenere da tempo manutengolo dei briganti. E così, forse anche per un’ulteriore una soffiata, i militi, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre decisero un’irruzione nelle loro case: dopo ripetuti colpi all’uscio Paolo D’Angelo «apriva e col massimo sbigottimento alle reiterate domande se vi fossero persone in di lui casa negativamente rispondeva». Ma il furiere della G. N. Giovanni Imbriani, che comandava il drappello dei militi «non pago di queste titubanti negative, dopo esplorata quella casa scendeva nella sottostante cantina, ove rinveniva accovacciata in un angolo la Crocamo Marzia la quale veniva immediatamente arrestata in un col Paolo D’Angelo».
Successivamente il drappello, sulla scorta delle «ragioni avute e le rivelazioni fatte dalla Crocamo» procedeva all’arresto di Rosario D’Angelo e di sua moglie: nella loro abitazione venivano rinvenute (nascoste «in un fascio di ginepro» una «camicia da uomo e una gonnella da donna riconosciuti di pertinenza della Crocamo questa e del di lei marito quella» Le colpe erano chiare: il Tribunale, tuttavia riconobbe a Teresa De Luca che, trovandosi «sotto la patria potestà del prenominato di lei marito Rosario D’Angelo, nel compartecipare all’ospitalità data alla Crocamo, non avrebbe che adempito passivamente ai costui voleri, e non potrebbesi quindi farle carico di tal fatto». Il Collegio mostrò anche una certa qual benevolenza nei confronti della Crocamo che, ritenuta «in uno stato miserevole sotto ogni rapporto, perseguitata e derelitta, lasciavansi trascinare dalle istanze del marito e batteva col medesimo la via del brigantaggio». E così la De Luca venne assolta, il marito condannato ai lavori forzati a vita, e Paolo D’Angelo e Marzia Crocamo a venti anni della stessa pena.
Per scontare la pena le donne – come risulta dalla corrispondenza dell’Avvocato Generale Fiscale, comm. Trombetta – vennero avviate nella «casa di pena per donne» di Torino, conosciuta come «l’Argastolo», il reclusorio torinese dove – con buona pace dei poco informati teorici delle brutture della fortezza di Fenestrelle – venivano rinchiuse le condannate per brigantaggio e per manutengolismo.
Nel luglio del 1865, il direttore de “l’Argastolo” faceva pervenire al Ministro della Guerra la proposta di riduzione della pena per alcune detenute, tra le quali proprio la nostra Marzia; il Ministro trasmetteva, per il parere, l’istanza al comm. Trombetta per il relativo parere. E l’Avvocato Generale Fiscale il 22 luglio si esprimeva favorevolmente, argomentando che «la Crocamo Marzia, come risulta dagli stessi motivi della sentenza, veniva trascinata a batter la via del brigantaggio dal mal esempio del marito Capobrigante Marino Michele».
(*) Promotore Carta di Venosa