‘MARIA ‘A PASTORA
di Valentino Romano*
Maria Lucia Dinella nacque nel 1844, secondo alcuni ad Avigliano, secondo altri a Pisticci. Il suo vero nome era Lucia Pagano: infatti, appena nata, sarebbe stata abbandonata dai genitori naturali e adottata da un tale Angelo Dinella. La ragazza, poco più che diciottenne, conobbe Francescantonio Summa, fratello del ben più conosciuto Ninco Nanco: il brigante se ne invaghì a tal punto da convincere il fratello a rapirla. Qualcuno sostiene che Ninco Nanco fu mosso a tanto anche per accontentare una sua amante, Filomena Nardozza, che si sarebbe mostrata stanca di essere l’unica donna della banda. Nel 1862 Lucia, dunque, presa con la forza, fu condotta nel bosco di Lagopesole. Qui, non si sa bene come, si sarebbe unita con Ninco Nanco. Celebrate così le “nozze rusticane”, entrò a far parte della banda, dismettendo gli abiti femminili, armandosi e cavalcando come un uomo. Lucia, nei due successivi anni, non disdegnò di partecipare alle scorrerie della banda e fu da tutti indicata come Maria ‘a pastora. Ai primi di marzo del 1864 la banda fu attaccata e dispersa dalla Guardia Nazionale di Tricarico: Francescantonio, ferito, fu portato in salvo dal fratello; Lucia, sbandata con un altro brigante (Nunzio Tolve) e braccata si rifugiò nelle macchie; all’alba, però, individuata dai militi, fu ferita da una fucilata al braccio e il suo accompagnatore ucciso. Dovette arrendersi: incarcerata e giudicata dal Tribunale Militare di Guerra di Potenza il 15 giugno dello stesso anno, fu condannata a dieci anni di reclusione. Ne scontò solo cinque nel penitenziario dell’isola del Giglio; gli altri le furono indultati con R.D. del 22 aprile 1868.
Michele Topa, forse romanzando l’episodio, racconta che, al momento della cattura, avesse fieramente minacciato i militi, avvertendoli che sarebbe stata vendicata. E alla domanda dei militi “non hai nessuno al mondo”, avrebbe risposto: “Sì, ho il fratello di Ninco Nanco”, forse il suo vero amore.
La storia, ricostruita da Maurizio Restivo, ci dice che, una volta tornata ad Avigliano, sposò un contadino, dal quale ebbe due figli.
Fin qui la storia, appunto. Ma questa, nell’immaginario collettivo popolare, ben presto si trasformò in leggenda. E la leggenda, agli occhi di chi vedeva in lei e nelle sue compagne d’avventura ciò che non si era (ma che, forse, si sarebbe voluto essere) divenne mito: e l’eroe del mito, è risaputo, non può morire. Per definizione non muore: semmai scompare nella nebbia. La tradizione orale, quella raccontata dai nostri contadini al tepore di un camino acceso, o al fresco serale dell’uscio di case, ne fece leggenda: Maria ‘a pastora divenne quasi una divinità silvestre.
Levi, in un passaggio mirabile del suo “Cristo, raccoglie la testimonianza del vecchio necroforo di Gagliano (Aliano) che «descriveva la brigantessa, Maria ‘a Pastora, che come lui era di Pisticci. Questa Maria era bellissima, una contadina, e viveva con il suo amante in giro per i boschi e le montagne depredando e combattendo, sempre vestita da uomo, sempre a cavallo. […] Maria ‘a pastora partecipava a tutte le azioni, agli assalti alle cascine e ai paesi, alle imboscate, alle taglie, alle vendette. Quando Ninco Nanco strappava con le sue mani il cuore dal petto dei bersaglieri che aveva catturato, Maria ‘a pastora gli porgeva il coltello. Il vecchio affossatore la ricordava benissimo, e un’ombra di compiacenza passava nella sua strana voce quando mi diceva come essa era bella, grande, bianca e rosata come un fiore, con le grandi trecce nere lunghe fino ai piedi, ritta in arcione al suo cavallo. Ninco Nanco era stato ammazzato, ma il vecchio non mi sapeva dire come fosse finita Maria ‘a Pastora, questa dea della guerra contadina. Non era morta e non l’avevano presa, mi diceva; era stata vista a Pisticci, tutta vestita di nero: poi era scomparsa, col suo cavallo, nel bosco e non s’era mai più saputo nulla di lei».
Perché alla morte dell’eroe, come alla fine di un amore, non si può mai credere del tutto.
E, parafrasando De Andrè, “il popolo non la volle creder morta”: preferiva pensarla ancora in groppa al suo cavallo, a vagare nelle selve che, forse, almeno una volta l’avevano vista felice e realizzata.
Mi è capitato, diversi anni or sono, di partecipare a un convegno organizzato da Libero Orlandella sulla figura di Filomena Pennacchio, a San Sossio Baronia, suo paese natale: il mattino successivo, alle prime luci dell’alba, dalla finestra dell’albergo nel quale alloggiavo, ho intravisto, avvolte nella nebbia, le macchie della Baronìa: per un attimo mi è sembrava di vedere Filomena sul suo cavallo. Per un istante, solo per un istante, mi sono identificato anch’io – forse suggestionato dalla penna di Levi – nel vecchio “affossatore” di Aliano.
Poi l’urgenza del giorno che veniva ha preso il sopravvento e ha dissolto l’immagine. Ma, ogni tanto, piace anche a me, come all’affossatore, pensare che queste donne non siano poi morte, scomparse del tutto. O almeno non lo saranno fino a quanto se ne serberà memoria: continuano, insomma, a vagare nella mente e nel cuore di chi si sforza di comprenderle.
* Promotore Carta di Venosa