Il Brigantaggio nel Napoletano

BRIGANTAGGIO MINORE DEL TERRITORIO NAPOLETANO

Da un po’ di tempo sembra tornato di moda l’argomento «brigantaggio», s’intende quel brigantaggio che imperversò nell’Italia meridionale all’indomani dell’unificazione.
Cercare di spiegarsi le cause del fenomeno, cercare cioè di stabilire se il fenomeno abbia avuto moventi politici od economici, camorristici o patologici, è opera vana, poiché basta un colpo d’occhio panoramico per capire che quegli elementi concorsero e s’integrarono nella situazione venutasi a creare con lo sbandamento delle truppe borboniche.
Interessante sarebbe, invece, spulciando la stampa, gli atti processuali, le relazioni di polizia del tempo, i risultati della C.P.I.B. (Commissione Parlamentare Inchiesta Brigantaggio) costituita nel 1863, realizzare, o quanto meno iniziare, una compiuta biografia di quelli che possiamo definire i briganti «minori», che furono numerosissimi ed infierirono con violenza e ferocia tali da aver poco da invidiare ad un Michele Pezza, ad un Gasparone, ad un Crocco, ad un Ninco Nanco.
Franco Molfese, che nel 1964 pubblicò per i tipi di Feltrinelli uno studio sull’argomento, e che spiegò il fenomeno unilateralmente, cioè derivandolo dal solo
movente economico, ha fornito sulla distribuzione topografica dell’intero banditismo e sulla classificazione dei capi un prezioso panorama di notizie che potrebbe costituire un ottimo punto di partenza.
I profani, indubbiamente, sono portati a limitare a tre o a quattro il numero delle bande armate, che, gira e rigira, sono sempre le stesse. E si finisce per ignorare completamente che le nostre regioni pullularono di bande grandi, medie e piccole, e che vi furono perfino delle donne che militarono ora come gregarie, ora come favoreggiatrici, ora come capi veri e propri.
Nella provincia di Napoli, nell’arco di tempo ché andò dal 1860 al 1870, operarono non meno di venti bande armate, senza contare quelle che contemporaneamente infestavano il Casertano, l’Irpinia, il Sannio ed il Salernitano e che spesso facevano puntatine nel Napoletano, magari violando le sfere d’influenza delle consorelle.
Pilone fu, in quel tormentato decennio, un nome che incuteva terrore in tutta la zona vesuviana che va da Resina ad Ottaviano dal lato di Torre Annunziata. Quel nome
divenne proverbiale fino al punto di rimanere ricordato in una filastrocca popolare che ancora si recita nelle campagne del sud-est vesuviano, e servì, e serve ancora, per minacciare i bambini in vena di capricci.
Si trattava di Antonio Cozzolino, ex-scalpellino di Boscotrecase, ardente borbonico datosi alla macchia quando crollarono i Borboni. Si fece un seguito, si procurò armi, e, posto il suo quartiere generale tra Terzigno ed Ottaviano, dominò per sei anni tutta la plaga occupata, sconfinando non rare volte, quando sentiva il Vesuvio … scottare, sui monti Lattari.
Gli scontri con le forze dell’ordine, i ricatti ai benestanti signori della zona, le fughe, le ricomparse, non si contano. Quando è a corto d’uomini ordina la leva, e fa rosee promesse, che spesso mantiene. Il 30 gennaio 1863, con un abile colpo di mano, riesce a catturare il marchese Avitabile, direttore del Banco di San Giacomo, recatosi a trascorrere una giornata di riposo in un suo fondo sito nel territorio di Torre Annunziata.
Insieme con il Marchese viene sequestrato un colono, che serve da anello di congiunzione tra i briganti e la famiglia del malcapitato gentiluomo. Pilone fissa il
prezzo del riscatto in 20.000 ducati. Il denaro viene consegnato a tempo di primato. Il marchese, rilasciato, narra che Pilone gli ha mostrato due decreti di Francesco II: con il primo egli era nominato cavaliere, con il secondo gli si affidava il comando dell’avanguardia dell’armata di occupazione che il Borbone stava organizzando
all’ estero.

Reparti del 61° Reggimento di fanteria e guardie nazionali, inviati subito contro il terribile bandito, furono respinti sanguinosamente. Imbaldanzito da tali successi, Pilone arrivò al punto di inviare, di là a qualche giorno, una lettera alla duchessa di Genova, cognata del re Vittorio Emanuele II, ingiungendole di non uscire da Napoli, pena la cattura. Perfino Alfonso La Marmora, recatosi in visita agli scavi di Pompei senza una buona guardia del corpo, riuscì a stento a sfuggire ad una trappola tesagli dalla banda.
Ma la resistenza era ovviamente destinata a crollare; l’Italia unita non poteva certo soccombere dinanzi ad una banda di fuorilegge. La caccia fu talmente spietata che nel 1864 la banda si era ormai dissolta ed il capo era sparito.
La resa dei conti venne il 14 ottobre 1870, in circostanze tuttora inedite. Il brigante fu riconosciuto, in prossimità dell’Orto Botanico in Napoli, dall’appuntato di Pubblica Sicurezza Generoso Zicchelli, che lo fermò e, poiché era minacciato, ferì Pilone con un colpo di pugnale alla regione cardiaca. Sanguinante, tenendosi la mano sinistra sulla ferita per frenare l’emorragia, e tuttavia barcollante, il feroce ex-scalpellino cercava di colpire, con la destra armata di pugnale, sia l’appuntato Zicchelli che la guardia Benevento accorsa nel frattempo ad aiutare il suo superiore. Disarmato e immobilizzato, venne trasportato in Questura dove morì qualche ora dopo. Nel portafoglio fu trovato un libretto contenente un metodo facile per apprendere a leggere e a scrivere, ed alcune preghiere al Cuore di Gesù scritte di sua mano in un italiano molto approssimativo.
Altra banda della zona più vicina a Napoli fu quella di Vincenzo Barone, da Sant’Anastasia, che nel giugno del 1861 levò la bandiera borbonica sul Vesuvio,
illudendosi di potere risuscitare nelle popolazioni della zona l’amore alla passata dinastia. Era un ex-soldato borbonico; il suo gesto non era suggerito né dalla fame, né dall’ avidità delle ricchezze o del potere. Più di 100 uomini lo seguirono; ma nel 1862 la banda fu sgominata nel territorio di Somma Vesuviana ed il capo ucciso nell’agosto del 1863
Il 1863 fu un anno difficile per il Governo unitario a causa di ciò che si verificava nel Mezzogiorno; il partito filoborbonico inscenò ripetute manifestazioni perfino nella città di Napoli, dove più volte la polizia e le truppe dovettero intervenire per sedare tumulti e procedere ad arresti. Il 15 gennaio, genetliaco di Francesco II i quartieri di Mercato, Pendino e Porto furono inondati di manifesti inneggianti al re in esilio.
Mentre in Napoli la tensione politica e sociale era acuta, come scrive il Molfese, nella provincia le bande agivano con insolita violenza. Alle spalle di Castellammare di Stabia, Chiappetiello, Diavolillo e Leone, con i loro rispettivi uomini, si batterono ripetutamente con la truppa nazionale. Nel maggio di quello stesso anno Chiappetiello fu però preso e fucilato, mentre Diavolillo, chiuso in Castelcapuano, riuscì ad evadere.
Nella stessa zona fu molto attiva, fino al 1864 ed oltre, la banda capeggiata da Francesco Vuolo che appunto il 14 giugno 1864 catturò e ricattò il marchese Del Tufo. Attivi furono anche il D’Antuono, ucciso nel settembre 1863, il Vitichese e il D’Apuzzo.
Nel Nolano fecero numerose comparse alcune bande che avevano fissato la loro sede nelle montagne irpine. La più importante fu quella capeggiata dai fratelli Giona e
Cipriano La Gala, che riuscirono a raccogliere e ad armare fino a 500 uomini. Erano nativi di Nola. Fin dal 1855 questi due erano stati chiusi in una prigione di
Castellammare in cui avrebbero dovuto scontare una pena di 20 anni per il reato di furto con violenza. Cipriano, negoziante analfabeta, evase nel 1860, mentre il fratello Giona venne trasferito nelle carceri di Caserta. Cipriano non perdette tempo; si diede subito da fare per la creazione di una banda che, cresciuta in breve tempo fino al numero di 300 affiliati, pose la sua base sul massiccio del Taburno. Gli giovò molto, per l’organizzazione iniziale, un ricco proprietario di Nola, un tal Cappellano, come fece presente alla C.P.I.B. il prefetto di Avellino nella sua deposizione del 26 gennaio 1863.

Alle dipendenze del quartiere generale di Cipriano agivano circa 30 bande minori che infestavano il Beneventano fino al Matese, l’Avellinese e la pianura ad oriente di
Napoli, da Caserta a Nola. L’elenco di queste bande sarà compilato su indicazione dei fratelli La Gala durante il processo che sarà celebrato a loro carico in S. Maria Capua Vetere nel 1864.
Intanto Giona La Gala languiva, come si è detto sopra, nelle carceri di Caserta. Di là riuscì ad evadere per una circostanza clamorosissima della quale si parlò per anni. Nella zona agiva da tempo la terribile banda di Antonio Caruso di Avella. Il 16 giugno 1861 un drappello di briganti di questa banda, guidati dal Caruso in persona, travestiti da guardie nazionali, si presentarono alle carceri di Caserta con il pretesto di consegnare due delinquenti arrestati. Sopraffatto il presidio, liberarono più di cento detenuti, fra i quali si trovava Giona, e si ritirarono indisturbati nonostante l’intervento della truppa e della guardia nazionale. Giona corse, con molti altri, ad unirsi al più famoso fratello, e la banda si ingrossò ulteriormente minacciando sempre più da vicino i centri abitati del Napoletano e del Casertano. Il Governo mise una cura particolare nella persecuzione dei La Gala, incaricando delle operazioni truppe efficienti comandate dai due energici generali, Pinelli e Franzini. Gli scontri furono innumerevoli.
In una fortunata azione la banda riuscì ad infliggere una dura sconfitta alle truppe governative tra Durazzano e Cervino, minacciando, subito dopo, la stessa città di
Caserta. A Durazzano i banditi effettuarono una distribuzione di grano ai poveri.
Nello stesso periodo occuparono San Vitaliano e Vico di Palma, ed attaccarono un treno carico di truppe presso Cancello. Non molto fortunati furono nelle scaramucce di
Pietrastornina e dell’Incoronata, mentre riuscirono vittoriosi in quelli di Visciano e Montedecoro. Battuti ancora a Monteforte e a Mercogliano, furono disfatti il 18
dicembre 1861 dai Bersaglieri sui monti di Cervinara, dove perdettero 163 uomini tra morti e catturati. I due fratelli ripararono a Roma e di lì a Genova, di dove intendevano espatriare. Catturati, furono processati e condannati all’ergastolo.
Nel Nolano operarono per alcuni anni altri temibili banditi che diedero molto filo da torcere alle truppe governative. I capi più noti furono Vincenzo Gravina, La Vecchia, Pasquale D’Avanzo, Antonio Del Mastro, Giuseppe Santaniello, Benedetto D’Avanzo, Antonio Botta, Orazio Cioffi: tutti uccisi o catturati nel giro di pochi anni.
Dopo il 1868 si ebbe ancora qualche episodio sporadico di brigantaggio. Il fenomeno, com’era naturale, si estinse in quello scorcio del decennio. Bisognava aspettare il dopoguerra della Seconda Guerra Mondiale, per risentir parlare di bande armate, come quelle di Salvatore Giuliano e di Giuseppe La Marca, che infestarono rispettivamente territori siciliani e napoletani.