Ricerca e elaborazione testi del Prof.Renato Rinaldi Da: “Il Brigantaggio alla Frontiera Pontificia dal 1860 al 1863” Milano 1864
pag.267 a 273
VI.
Storia del brigantaggio alla frontiera.
Allorquando Francesco Il di Borbone, cacciato dalla forza delle armi e dall’incalzare cìella pubblica opinione, dovette lasciare Gaeta e ritirarsi a Roma , approfittando delle arti subdole colle quali da quasi tre secoli aveva regnato su queste disgraziate provincie la dinastia da cui egli discendeva , e facendo suo prò di uomini che quelle arti, dal padre e da esso seguite con particolare tenacità, avevano resi strumenti ciechi dì un governo iniquo, corrotto e corruttore, commise ai capi-squadriglia, che la scaltra sua polizia teneva sparsi per tutti i paesi, di riunire degli uomini rotti ad ogni libidine, e con quelli tentar ogni mezzo per tener vivo nelle popolazioni il terrore pel suo potere, che sperava di rialzare, e la dffidenza verso il nuovo Governo, il quale, con volpina astuzia, ei riteneva non avrebbe potuto far argine d’un tratto alle tante rovine, agli incendii, alle stragi che dalla sparsa semente sarebbero per germogliare (Giustizia e delicatezza mi prescrivono di dichiarare, che pella redazione di questo capitolo mi sono valso di un pregevolissimo scritto intitolato: Quadro Storico dd Brigantaggio nella zona di Gaeta, a me dedicato dall’autore Francesco Baglioni da Fano, sergente nel 43.° reggimente fanteria).
Questi capi-squadriglia, – che in certo modo potrebbero essere paragonati agli antichi sgherri della inquisizione di Spagna, se, al par di loro delatori e sicari, non avessero per di più goduta la perfetta impunità nel delinquere (ciò che non sempre verificossi nei Garduni spagnuoli), e la protezione del Governo non si fosse estesa dal domicilio al tribunale in loro prò, servendogli a un tempo di scudo contro il reclamar degli offesi e di prestigio inverso le turbe – costoro, io dico, colla ferocia che in loro era innata, corsero tutti volonterosi alla chiamata, anche perché nella mutazione delle cose prevedevano la loro totale rovina, e con ogni cura si diedero a barbaramente eseguire ciò che si era barbaramente loro comandato.
Da qui le stragi, le rovine, gl’incendii che in sul marzo 1860 insanguinarono queste desolate Provincie. Le uccisioni, gli stupri, gl’incendi commessi dalla banda Lagrange (accozzaglia di galeotti appositamente liberati, di guardie urbane condotte dai capi-squadrig lia, e di soldati dell’ex esercito) furono e saranno sempre un’onta incancellabile per chi li comanrlò, ed un marchio d’infamia indelebile per colui che l’ordine ricevuto pose in esecuzione.
Senonchè quello che nel consiglio di Gaeta non si era ritenuto possibile ebbe luogo ad un tratto; e l’edificio infame delle ordite nequizie crollò dinanzi alle vittoriose nostre armi. La banda Lagrange perseguitata per ogni dove, dovette soccombere; di essa null’altro rimase che la memoria infausta delle commesse iniquità: ed i componenti della medesima, che isfuggirono al nostro piombo, sperperati ed alla spicciolata si ridussero ai loro focolari, per quivi attendere nuovi ordini da quello che, stando al coperto di un’onorata bandiera, decideva la strage e la rovina di un popolo, come il mandriano addita questo o quel capo di armento al macellaio che deve sgozzarlo. E questi ordini non si fecero aspettare lungamente.
Allora i capi-squadriglie, fatto di nuovo appello ai loro seguaci, si diedero a percorrere, per proprio conto, questi paesi, spargendo ovunque il terrore e la strage. Molti villaggi furono insanguinati da quelle orde fratricide, spinte all’eccidio da Francesco II: e col suo particolare danaro, colle esortazioni de’suoi capitani, e col prestigio degli amuleti, delle indulgenze, e delle benedizioni, che il Vicario di Cristo aveva messe a sua disposizione, dopo aver notificato al mondo di cedere Gaeta per risparmiare la effusione di sangue del suo popolo amatissimo!
Ma queste operazioni alla spicciolata, senza unità di comando e di direzione, non appagavano le speranze dell’ex-re.
Egli vagheggiava il suo ritorno in Napoli, e quindi credendo ancora alla possibilità di aiuti stranieri, sperava che un capo, chiamato a riunire ed a dirigere quelle bande di assassini, valesse intanto a tenergli socchiusa la via di quel trono, dal quale la forza degli eventi lo aveva recentemente allontanato.
L’onore però di servire il Re decaduto, mettendosi alla testa di quelle orde di malfattori, fu declinato anche dai suoi più fidi, e quindi fu mestieri ricorrere ad un tale, che lustro invece acquistasse dal posto infame che gli altri avevano rifiutato.
E questi fu Chiavone! Ecco l’uomo che offrì a Francesco II, già ricovrato a Roma, il suo aiuto e la cooperazione de’suoi amici della selva di Sora, dediti al pari di lui al furto ed alla rapina; ma più di lui violenti, macchiati di sangue, e rei tutti di parecchi omicidii. E re Francesco accettò!
Dissi che il Re accettava, quantunque alcuni, anche estranei al partito, abbiano sostenuto ch’egli non si immischiasse in quegli ordinamenti di bande, solamente immaginate da Bosco, da Clary, e sanzionate dallo zio conte di Trapani; o tuttalpiù, si aggiunge ei lasciò fare.
Questo solo lasciar fare basterebbe per dirlo connivente al brigantaggio, imperciocchè ciò che si faceva era in suo nome. Ma siccome per altra parte si hanno molte prove che Chiavone, anche prima di dare principio alle sue incursioni, fosse a Roma, parlasse quivi col Re, e dal suo particolar tesoriere ricevesse danaro, cosi è giuocoforza conchiudere cbe proprio il Re accettò l’aiuto di Chiavone, ed egli medesimo colle parole e col danaro lo spinse all’eccidio degli ex-suoi sudditi, incaricandolo di spargere il terrore e la diffidenza ovunque, colla speciale raccomandazione di non risparmiare per nessun conto i liberali. Colle somme ricevute , colle lettere comendatizie di Roma, e col prestigio delle sue brutalità poté ben presto Chiavone comporre una banda di 100 uomini, facendo convegno nelle selve di Castro, e nei circostanti villaggi sul territorio pontificio, e colà radunando tutto ciò che di più vile, di più abbietto contenesse il rozzo popolo di queste deserte montagne.
A Monticelli dunque, il 3 maggio 1861, piombò per la prima volta la banda Chiavone. Uccise quivi il Sindaco, e vi arse casa del Capitano della Guardia Nazionale, e quella del Municipio, non che alcune capanne fuori del paese. Bruciò il ritratto di Vittorio Emanuele e quello di Garibaldi; arse pure le carte del pubblico archivio , ove esistevano le iniziative di molti processi contro gl’individui della banda stessa. Rubò ai liberali ed ai borbonici: in una parola, non rispettò le proprietà di nessuno, ed ove poteva trarre del denaro lo trasse. Una torma della più vile canaglia di Monticelli e dei dintorni si unì alla banda. Fu destituito il Governo e rialzato quello del Borbone coi ritratti di Francesco e di Sofia, che furono collocati nell’aula del Consiglio, dopo averli portati in processione pel paese.
Ma alcune compagnie del 1° reggimento di fanteria speditegli contro da Fondi e da Gaeta determinarono la banda a fuggire, senza neppure aspettarle. Nel ritirarsi, Pastena e Pico ebbero a soffrire ladrerie ed incendii. Lenola pure insorse colla guida di un capo-squadriglia; vi furono là pure consumati eccessi, là pure fu cambiato il Governo. Ma all’apparire delle truppe tutto ritornò al pristino stato, e come sempre, molti di coloro che avevano gridato evviva a Francesco II ed a Chiavone, urla rono poscia viva Vittorio Emanuele, viva l’Esercito.
Nel frattempo a Cardito, a Vallerotonda, ed in altri paesi delle Mainarde, scoppiava la reazione.
Domenico Coja, soprannominato Centrillo, vi si pose alla testa. Era costui un ex-soldato che aveva appartenuto ad un reggimento di linea napoletano. Facinoroso per indole e per costumi, aveva una volta tentato di mettersi a capo della rivoluzione nel suo paese (Cardito), ove nessuno forse ne comprendeva il significato; ed una domenica di quell’estate in cui Ferdinando II elargiva ai suoi amatissimi sudditi quella famosa costituzione che tutti conoscono, nell’atto che i suoi conterazzani sortivano dalla Chiesa, si diede a gridare: Viva la libertà, ed a percorrere il paese fra grida e schiamazzi. Come è ben naturale fu imprigionato, e molti mesi stette in carcere. Non saprei ben dire come e perché ne fosse sortito; ma dopo la sua sortita fu accanito partigiano del Re, dal quale, come al solito, venne nominato capo-squadriglia delle guardie urbane del comune.
Nell’aprile pertanto del 1861 radunò una banda, che però non fu numerosa, né col proseguire del tempo superò mai i 30 uomini. Con quella banda si diede a percorrere le montagne: rubò e taglieggiò, ma con parsimonia, se pure, trattandosi di ladri e di briganti, è lecito usare questa espressione. Non assassinò, non incendiò. Fu un uomo insomma che fece il brigante a suo modo ; tolse ad altri ciò che strettamente abbisognava ai suoi. Si accontentò d’imporre qualche taglia ai iberali, e se questa non gli fu pagata puntualmente, o se soltanto in minima parte sborsata, non per questo uccise alcuno dei taglieg giati, sehbene molte volte erano nelle sue mani.
A meglio caratterizzare questo singolare brigante narrerò l’aggressione di Vallerotonda, la quale più dipese dalle sollecitazioni di coloro che erano in paese, che non dalla di lui volontà.
La sua banda, che allora era all’apice della sua forza, e non superava però i 25 uomini, aveva bisogno d’armi. Parve, da ciò che in seguito si apprese, che taluno lo eccitasse al disarmo della Guardia Nazionale di quel paese, assicurandolo che nessuno lo avrebbe infastidito. Egli allora coi suoi briganti di notte tempo entrò in Vallerotontda; trovò il corpo di guardia aperto con entro diciotto fucili, ma nessun milite. Prese i fucili, poi ebbe chi gli servì di guida nelle diverse abitazioni delle guardie nazionali che avevano le armiin casa, e tutte indistintamente le consegnarono. Cosi poté radunare 57 vecchi fucili, parte non buoni, molti onservibili.
Distribuì i migliori ai suoi seguaci: il resto fece portare a spalla da due giovinotti di Vallerotonda sulla cima di una delle Mainarde. Requisì nel paese pane, cacio e vino per la sua banda; prese pochi denari (circa 50 ducati in tutto) e senza rumore, com’era venuto, se ne partì.
La truppa, che non era molto lontana, fu avvisata dal Sindaco di un paese vicino trentasei ore dopo.
Quello di Vallerotonda ed il Capitano della Guardia Nazionale non si fecero vivi. La truppa accorse: ma naturalmente era tardi. Contuttociò impadronitasi di uno dei due giovanotti che avevano portate le armi gulle Mainarde, vi si fece condurre; un poco collle buone, un poco colle minacce scoprì ove erano nasçosti i fucili, e ne ritrovò la maggior parte entro ai tronchi di vecchi alberi bucati. Il Sindaco ed il Capitano della Guardia Nazionale (che fu tosto sciolta) furono imprigionati, ma poco dopo dal Tribunale ordinario rimessi in libertà !
Più caratteristica ancora è l’invasione che Centrillo fece a Cardito sua patria. Vi entrò nelle ore tarde del pomeriggio di un giorno del luglio 1861, si fece dare pane, cacio e vino che mangiò e bevette sul luogo colla sua comitiva. Prese alcuni fucili e pochi denari dal cassiere (che poi fu processato per sospetto di averli offerti spontaneamente al brigante senza attenderne la richiesta) pei quali rilasciò la ricevuta. Entrato di poi nella sala comunale, e visto il ritratto di Re Vittorio Emanuele si levò il cappello e gli fece un inchino. Non lo toccò, nè permise che altri il toccasse. Dopo due ore passate a Cardito, sbevazzando coi suoi antichi famigliari, ritornò sulle Mainarde, daddove seguitò a vagare per tutto l’agosto, mangiando carne caprina, latte, cacio e polenta che venivagli imbandita dai pastori. Commise nel frattempo due o tre aggressioni in case di campagna, ma perseguitato e stretto sempre più dalle truppe del 43°di fanteria, da quelle dell’11° e dalle altre del 1° che erano a Castellone, la sua banda fu dispersa. Due di coloro che la componevano furono fucilati, ed egli si rifugiò nello Stato romano.
Arrestato in settembre dai Francesi, il Comando della zona, allora lenuto dal generale Govone, ne domandò l’estrarlizione e la consegna alle nostre truppe. I Francesi chiesero quali e quanti misfatti aveva egli commesso, e gli fu risposto raccontando la vera sua storia. Più tardi fu dai Francesi stessi consegnato al signor generale Di Revel sulla frontiera verso l’Umbria, e da quell’epoca non s’intese più parlare di lui, né saprei dire se fu condannato o se attende tuttavia nel carcere la sua sentenza.