Sinossi «Storia dell’Arma dei Carabinieri» 2008 pagg. 75-83.) Firenze 2008
Capitolo V – LE OPERAZIONI CONTRO IL BRIGANTAGGIO FRA 1860 ED IL 1870
(Testo tratto da Alvaro Calanca «Storia dell’Arma dei Carabinieri» Vol. II pagg. 106-111.)
1. I Carabinieri nella lotta contro il brigantaggio
Con l’Unità d’Italia i Carabinieri dovettero sostenere la lotta al brigantaggio nell’Italia Meridionale, attività che si svolge in un arco di tempo che va dal 1860 al 1900 e oltre.
Tale fenomeno, che in primo tempo (1860-1870) ha carattere politico, va man mano scomparendo per prendere l’aspetto di delinquenza comune. I Carabinieri sostennero questa lunga campagna proprio quando “l’Arma regia” estendeva la sua organizzazione territoriale su tutta la penisola e subiva all’interno una profonda trasformazione.
Si è visto come per poter entrare a far parte dei Carabinieri fosse necessario saper leggere e scrivere, almeno mediocremente. Se si pone l’attenzione al fatto che in quel tempo in alcune regioni il 90 per cento della popolazione era ancora analfabeta, si può comprendere come nelle campagne e nei centri più sperduti della penisola i carabinieri, proprio perché sapevano leggere, divenissero, oltre che i «tutori dell’ordine», anche gli interpreti della legge. I Carabinieri affrontarono in questo periodo anche il fenomeno del banditismo, che assunse in alcuni momenti l’aspetto di una vera e propria guerra civile; particolarmente pericolosi erano gli ex-militari borbonici, che si erano dati alla macchia dopo l’unificazione della penisola.
Tali soldati godevano della omertà della popolazione, ma pur tuttavia, prima della fine del 1800, il banditismo venne sconfitto e tra le bande che vennero quasi distrutte si possono ricordare quella di Cosimo Mazzeo, detto «Pizziehicclúo» operò nelle Puglie, quella di Domenico Tiburzi, brigante maremmano, quella del bandito Giuseppe Mussolino, operavaa in Calabria, il brigante più famoso del secolo, per l’arresto del quale il Governo italiano spese la cifra record di un milione di lire e da ricordare infine, il famoso bandito Giuseppe Nicola Summa, soprannominato “Ninco Nanco” che spadroneggiava nella zona di Potenza.
Il Brigantaggio in breve tempo si diffuse nell’Italia meridionale, anche per gli aiuti in denaro ed in anni che gli venivano dallo Stato pontificio,nel quale si erano rifugiati i Borboni detronizzati. Alfredo Oriani ci ha dato una acuta analisi del sorgere di questo fenomeno sociale. «Le prime bande erano manipoli degli eserciti borbonici congedati da Garibaldi, che dalla condizione di gendarme, unico ufficio dei soldati sotto il governo di Ferdinando II e di Francesco II, passavano a quella di bandito. Il momento non poteva essere per loro più propizio; i municipi abbandonati a sé medesimi, disciolta la polizia, la guerra ancora accesa, il saccheggio facile, preti, signori e re complici del disordine per speranza di recupero. All’infuori delle più grosse città, ove la cultura delle idee aveva sviluppato l’italianità del sentimento, tutto il resto del paese si sentiva conquistato come da signoria straniera.
Infatti l’accentramento del nuovo governo in queste province abituate alla rilassatezza dell’antico regime, si annunciava al sentimento insubordinato delle masse come una servitù: il servire nell’esercito piemontese fuori dai confini del reame differiva troppo dal servire nella milizia borbonica, che non aveva in questo secolo mai dato vere battaglie; l’aumento delle imposte, inintellegibile allo spirito oscuro della moltitudine, diventava spogliazione; la guerra dell’Italia al papa si mutava nella superstizione popolare in guerra di religione; l’unità italiana minacciava d’annullamento l’individualità napoletana rimasta distinta da ogni altra in tutti i lunghi periodi della storia italica. Il popolo napoletano non era più affine ai piemontesi di Vittorio Emanuele che ai francesi di Murat; ma quelli, invece che mercenari ai servigi di una dinastia desiderosa di fondarsi nel paese, erano tutta l’Italia del Nord, che invadeva il Mezzogiorno preparandosi a mutarlo, battendogli già sull’intelletto e sul cuore col martello della modernità. La reazione scoppiò feroce, spontanea, simultanea». L’unità c’è, ma il popolo non vede nè benefici, né cambiamenti nell’ordine sociale, vede solo nuove leggi fatte osservare da funzionari settentrionali agiati ed onesti. Il «carabiniere» ed il «magistrato» sono per lui i simboli dell’unità d’Italia, alla quale continua a pagare il tributo di sette anni di servizio militare dì leva, in applicazione della legge piemontese. Il fenomeno del brigantaggio è imponente e può disporre di capi abili, capaci di esercitare autorità e prestigio, come il famoso Carmine Donatelli, di Rionero, detto Crocco e quel José Boriez di origine catalana, venuto volontariamente dalla Spagna con la convinzione di combattere una causa sacrosanta. Il brigantaggio si diffonde nella Campania e nella zona appenninica, che oggi fa parte delle province di Campobasso, Caserta e Benevento.
Il Parlamento nomina una commissione di studio sulla «questione meridionale» presieduta da Giuseppe Massari, e composta dagli ex garibaldini Bixio, Sirtori, Saffi e di altri parlamentari meridionali. La relazione, presentata il 4 maggio 1863, pone come causa di tutte le diserzioni e le fughe, delle rivolte dei singoli e dei gruppi, la miseria. “Il contadino” si legge nella relazione «sa che le sue fatiche non gli fruttano benessere e prosperità, sa che il prodotto della terra annaffiata dai suoi sudori non sarà suo e si crede e si sente condannato a perpetua miseria, e l’istinto della vendetta sorge spontaneo nell’animo suo. L’occasione si presenta; egli non se la lascia sfuggire; si fa brigante. Il brigantaggio diventa in tal guisa la protesta selvaggia e brutale della miseria contro antiche e secolari ingiustizie». L’intervento del governo è pronto ed alla fine del 1865 il fenomeno è stroncato nel suo aspetto più appariscente di rivolta armata. Fra i militari dell’Anna che si distinsero nella lotta al Brigantaggio emergono alcune figure che sono passate alla leggenda, come Chiaffredo Bergia, che da semplice carabiniere, terminò la sua carriera con il grado di capitano insignito dell’Ordine militare di Savoia, di una medaglia d’oro, tre medaglie di argento e due di bronzo al valor militare e diciannove encomi solenni. Nato a Paesana, in provincia di Cuneo nel 1840, aveva come campo di operazione l’Abruzzo e il Molise ed usava una tecnica personale contro i briganti: si travestiva da monaca, da cacciatore, o da vecchio vagabondo e, dopo aver studiato le abitudini dei briganti, al momento opportuno li sorprendeva e li colpiva.
Nella lotta al brigantaggio i carabinieri furono sempre presenti per lo più in appoggio ai reparti regolali dell’esercito, dislocati nel Meridione. Un episodio nel quale i carabinieri ebbero modo di distinguersi fu quello che nel 1861 vide la città di San Marco in Lamis, un centro del Gargano, occupata dai briganti, che per circa tre giorni imposero agli abitanti la loro legge.
In un documento che descrive un avvenimento relativo a quelle giornate, troviamo scritto: «I galantuomini però non deposero mai le armi, e notte e giorno; che anzi, dopo la nuova di Viesti, tutti si unirono per la notte nelle case lungo la Piazza. In tale stato, adunque, era S. Marco, quando finalmente, la sera del 2 agosto, ad ore 23, stando tutti in attenzione di rinforzo per lo timore dei briganti, alla volta della Cappella di S. Matteo si veggono molti armati. Sulle prime si credevano briganti, ma poi, riconoscendo taluni con l’aiuto dei telescopi, si distinsero bene i bersaglieri ed una compagnia di guardie mobili a cavallo. Nel mattino seguente arriva ancora una compagnia del 62°, la quale prende la guardia e toglie via ogni timore nella popolazione. Questa stessa notte, porzione della truppa parte per la contrada Tre Querce in dove, unita all’altra che muoveva da Sannicandro e da Cagnano, assalgono una casetta, riferita per luogo di convegno di briganti, e, facendo fuoco, ammazzano il padre e il fratello del brigante Michele Battista (alias Incotticello), con un altro che ivi faticava alla giornata, e bruciano tutta l’aia col grano che vi era. La spia non fu falsa, perché i briganti poco prima ne erano usciti, fatti accorti dello avvicinarsi della forza dall’abbaiare dei cani.
La forza che sempre era in movimento, specialmente per le falde dei monti verso la Puglia, nel giorno otto sostenne un altro attacco nel Calderoso, ed uccise tre briganti; mettendo in fuga il resto per la salita della Torre, ove il Del Sambro fu quasi per essere trapassato dalla lancia di un soldato che solo fino a quel luogo e lontano dai suoi lo inseguiva alla coda del cavallo. I strapazzi continui però sostenuti dai soldati nella corrente canicola apportarongli non lievi nocumenti nella salute, per cui tra i molti infermi che vi erano, uno ne morì emottiaco nel giorno dieci, e fu precisamente il sergente che veniva fatto prigioniero dai briganti nel palazzo di Tardio. L’infelice morì senza il conforto della religione di Cristo, perché non poté ricevere i sacramenti, ma fu gratuitamente accompagnato il cadavere da tutto il clero.
Lo spirito del popolo intanto sempre protervo, sempre indocile, sempre restio alla minima osservanza delle leggi, ad onta del rigore in cui si viveva, non era mica ancora tranquillo. Arrivavano nel mattino del giorno lì vari carabinieri da San Severo, e tosto una voce allarmante nel popolaccio annuncia che qui erano venuti per arrestare tutti i giovani plebei per farli soldati. Niente di tutto questo. E pure se lo fosse stato, modo strano, avrebbe dato a conoscere, come di già lo dicevano, che essi eligevano piuttosto farsi briganti che soldati. Furono per questo obbligati i parrochi a girare per le rispettive parrocchie e persuadere gli sconsigliati padri a far ritornare i loro figli, perché in contrario sarebbero stati trattati come veri briganti, incontrandoli la truppa. Riuscì quest’altra volta il persuaderli e nel giorno dopo tutti si ritirarono. In questo medesimo giorno 4 guardie di Sannicandro accompagnarono qui in arresto varie persone parenti di briganti; ritornandosene in Sannicandro, in quelle vicinanze, con una sola scarica furono uccisi dai briganti che, postati, li attendevano. Intendete bene da questo fatto come e quanto timore dovevano avere i braccianti tutti che menar dovevano quasi tutti i giorni in campagna, della banda malevola, se questa sapeva fare immediata vendetta ancora di chi chiamato veniva dalla giustizia a prestare il suo servizio.
Ma però Iddio di tratto in tratto ne sapeva fare anche delle sue, come nel giorno 15, quando infuse tanto coraggio a tre individui di San Giovanni Rotondo, i quali seppero eludere la vigilanza dei briganti, entrare inosservati nella masseria dei signori De Plato ed ucciderne due, che in compagnia di sette venivano per riceversi un ricatto».
Il 7 Novembre 1862 si verificò uno scontro a fuoco nei dintorni del bosco di Ripalta fra i soldati, con il rinforzo di quindici guardie nazionali, e circa 300 briganti. Nello scontro morì anche un carabiniere, che faceva parte del distaccamento; l’episodio così viene descritto dal capitano della Guardia Nazionale Alfonso de Palma in una lettera inviata al sindaco di Poggio Imperiale.
2. Il brigantaggio nelle province meridionali
Il brigantaggio nelle province meridionali fra il 1860 ed il `70 è un fenomeno storico ampiamente studiato nei suoi due aspetti, quello politico e quello della criminalità comune, ed interessa ovviamente anche la storia dell’Arma, che fu chiamata a combatterlo, con ingenti forze e per molti anni, in Campania, Abruzzo, Puglia, Lucania e Calabria (Per il suo valoroso comportamento nella lotta contro il banditismo già nel 1856 il marescallo Efisio Scaniglia aveva meritato l’Ordine Militare d’Italia..) In tali operazioni i Carabinieri agirono sia con servizi appositamente compiuti dalle singole stazioni e dai comandi di ufficiale, nelle cui giurisdizioni i fatti delittuosi vennero perpetrati, sia insieme a reparti di altre Armi e con squadriglie e servizi appositamente creati. Il Governo, infatti, di fronte alla gravità della situazione, decise l’adozione di severi provvedimenti repressivi, attraverso un piano operativo, che prevedeva l’impiego di ingenti forze dell’Esercito e della forza pubblica e la concessione di pieni poteri ai comandanti. Nel contempo dava vita ad un piano per il risanamento sociale dell’ambiente attraverso un miglioramento delle condizioni economiche delle popolazioni.
Infiniti sono gli episodi e le figure che rientrano nell’aspetto politico di quel brigantaggio, che raggiunse proporzioni imponenti, fino a mettere in crisi il nuovo Stato unitario.
Un piccolo esercito di ex borbonici e di briganti comuni, formato dall’ex colonnello pontificio de Lagrange, dall’ex ufficiale Luvarà e dal pregiudicato Giorgi. occupò Cittaducale ed Antrodoco, spingendosi fino alle porte dell’Aquila, dopo aver tentato d’unirsi alle bande guidate dall’ex generale Scotti, napoleetano, mosso dal Molise e “liberare” l’Abruzzo.
Il tedesco Carlo Mayer operò nella zona di Formia, lasciandovi la vita.
Lo spagnolo Josè Borjes sbarcò in Calabria con un manipolo di conterranei, per tentare di restaurare i Borboni sul trono, ma, rimasto inascoltato dalle popolazioni, si unì al brigante Crocco, da cui venne rapinato e disarmato. Tuttavia non si diede per vinto e con altri banditi della Basilicata continuò a scorazzare per la Campania e l’Abruzzo, fino a quando fu catturato e fucilato da una compagnia di Bersaglieri.
Lo spagnolo Rafael Tristany agì, per fini legittimisti, nel Molise e in Calabria, unendosi al brigante Chiavone, che fece fucilare quando si accorse che il bandito meditava di sopprimerlo per impossessarsi delle sue armi e del suo denaro.
Ma molto più numerosi sono i fatti e le tipiche figure che rientrano nel secondo aspetto – quello della delinquenza comune – del grave fenomeno del brigantaggio meridionale nel decennio 1860-70 ed alcuni famigerati nomi di briganti, autori di crimini più efferati, sopravvissero per lunghi anni: Caruso, La Gala, Chiavone, Crocco, Ninco- Nanco (alias Nicola Summa), Cannone, Fuoco, Pizzichicchio, Sardullo, Argentieri, Coppa, De Lellis, Martone, Masini, Noce, Scarpino, Ciccone, Calamattei e Garofalo. Chiavone, ex guardaboschi e soldato borbonico, autonominatosi generale napoletano, mise insieme una banda armata, vestita di unifonni francesi, e scorazzò per la Campania, commettendo gravi delitti, fino a quando venne fatto uccidere, nel 1863, dal Tristany. I fratelli La Gala, di Nola, evasi dal carcere, commisero con la loro banda crudeltà inaudite e continue rapine tra Avellino e Salerno. Sostennero anche vari scontri con le truppe che agivano nel territorio e, dopo una serie di drammatiche vicende, finirono dinanzi alla Corte d’Assise di S. Maria Capua Vetere.
Carmine Donatello, detto Crocco, ex militare ed ex recluso, costituì una banda di disertori, renitenti e pregiudicati (un migliaio di uomini con 300 cavalli) e, sovvenzionato dai Borboni, creò una situazione di estremo pericolo tra l’Ofanto, Avellino e Matera. Si unirono a lui, in posizione subordinata, altri feroci capibanda, quali Caruso, Ninco-Nanco, Franco, Florio, Mancino; e non mancarono sanguinosi scontri con squadriglie dell’Arma e con altre forze.
Nel 1863 Crocco si firmava «Comandante l’Armata Francescana»; nel 1864 dovettero intervenire le brigate di fanteria «Pisa» e «Cremona» a liberare la zona, ma Crocco riuscì sempre a sottrarsi alla cattura. E quando fu ridotto a mal partito, sconfinò nello Stato Pontificio, ove venne processato. Dopo il 1870, subì altro processo ad opera della giustizia italiana; la condanna a morte fu poi commutata nell’ergastolo.
Ninco-Nanco, crudele e spietato, ebbe per teatro dei suoi misfatti (fra cui l’uccisione di diversi carabinieri) la zona di Monticchio, Melfi Lagopesole. Braccato da truppe e squadriglie dell’Arma, venne ucciso da una guardia nazionale durante un conflitto a fuoco.
Una terribile banda fu quella dei briganti Fuoco, Cannone e Ciccane, che disponevano di molte armi e di cani ammaestrati. Nel 1864, in un accanito scontro nella zona di Cassino fra la banda ed un reparto misto di fanti e carabinieri, vi furono diversi militari morti, e fra essi lo stesso comandante, il tenente Pirzio Biroli.
Mesi dopo Cannone attaccò una pattuglia di carabinieri, uccidendo il sottufficiale e facendo scempio del cadavere.
Triste notorietà ebbero la banda Pizzichicchio, Trinchera, Maniglia, nel Barese, nel Tarantino e nel Salento; e la banda Ciarullo nel Principato Citeriore (Salernitano).
Erano continui assalti alle fattorie, uccisioni, vendette, estorsioni, rapine e furti. Le popolazioni vivevano in uno stato miserando e di permanente allarme. La distruzione di tali bande fu merito di due ufficiali dell’Arma: il Capitano Francesco Allisio, che, a capo di una colonna mobile mista, attaccò la banda Pizzichicchio a Martina Franca, sterminandola con una carica finale; ed il Capitano Salvatore Frau, che attaccò la banda Ciarullo presso Campagnano e con un assalto alla baionetta riuscì a snidarla da alcune impervie grotte e distruggerla. Ai due ufficiali fu concessa la croce dell’Ordine Militare di Savoia.
Tra il 1863 ed il 1864 il brigantaggio nelle province meridionali cominciò a perdere ogni carattere politico, assumendo sempre più forme esclusive di delinquenza comune. In tale periodo acquistarono triste notorietà, per il numero e la gravità dei delitti, anche alcune donne, mogli o amiche di banditi, quali Filomena Soprano, la Pennacchio, la Oliviero, la Vitale, la Tito, Rosa Pezzigni, Anna Caltabellotta, la Casale, Maria Capitanio, Rosa Reginella ed altre.
Contemporaneamente alle bande organizzate, numerose altre formazioni e migliaia di criminali (calcolati in circa 20.000) operarono in quegli anni nelle province dell’ex regno delle Due Sicilie.
Nella campagna contro il brigantaggio, durata ben dieci anni, l’Arma subì la perdita di un centinaio di uomini, tra morti e feriti.
Furono concesse 371 medaglie d’argento al valor militare, 478 di bronzo al V.M. ed un migliaio di encomi solenni. Oltre ai capitani Allisio e Frau, fu concesso l’Ordine Militare di Savoia anche al:
– Luogotenente Stefano De Giovannini, per aver dato battaglia, il 13 gennaio 1867, per più di un’ora, con sei soli dipendenti, a circa 50 banditi, riuscendo a sgominarli ed a liberare 13 guardie nazionali prese in ostaggio;
– Luogotenente Giacomo Acqua, per aver soccorso, il 16 dicembre 1861,un Ufficiale e 22 lancieri accerchiati in un cascinale, dato alle fiamme da circa 200 banditi, liberandoli da sicura morte.
continua pag. 83 OMISSIS…