LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO | 35° episodio FILOMENA PENNACCHIO, UNA DONNA.
di Valentino Romano (*)
San Sossio Baronia, Melfi, Avellino, Torino e macchie varie, 1863-1915
Amici cari, volevate la storia di una “guerriera”? Bene, vi accontento. Eccovi la storia di Filomena Pennacchio, la Regina delle Selve.
A dire il vero non è propriamente una storia completa questa che racconto oggi ma solo alcune brevi note (più che altro interrogativi) sulla donna che racchiude in sé tutte le sfaccettature dell’universo femminile che attraversò il “grande brigantaggio”. Nello stenderle non posso che partire da un brano splendidamente recitato per “La Storia bandita” da Jole Franco nel bosco della Grancia, la cui immagine ha accompagnato tutte le puntate precedenti:
«Quando scappai nel bosco sapevo quello che facevo … non c’era nessuno che mi diceva quello che dovevo fare e sono stata quello che volevo io, Filumèna Pennacchio. Una donna libera! E mò, se me vulìt cundannà facìt, facìt pure … io sto ca’».
Ecco la consapevolezza dell’agire che, se pure non presente in tutte le donne che dettero alla macchia, lo è nel caso di Filomena.
Certamente nel corso del processo si difese sostenendo di essere stata rapita e condotta nel bosco con la forza da Schiavone. Ma cos’altro avrebbe potuto fare per tentare di alleggerire una condanna, peraltro già scritta?
Filomena percorse le macchie della Baronia e seguì il suo uomo nelle sue scorrerie. Arrivò a guidare lei in prima persona, armi alla mano, gli uomini della banda e uccise in battaglia, anche commettendo gesti di ferocia indicibile. Come nel caso dell’assalto di Sferracavallo, prima fra tutti nel galoppo, incitando la banda come un’ossessa, destra nell’usare il pistolone che si portava dietro, feroce fino al punto di calpestare i corpi dei soldati uccisi con gli zoccoli del proprio cavallo. Ma fu la stessa che curò i prigionieri nemici feriti; fu la stessa che invitò Schiavone a desistere da un assalto.
Un atteggiamento contradditorio? Forse sì. Ma non è forse contraddittorio tutto l’agire di ognuno di noi, anche in tempi “normali”?
E quello che visse Filomena fu forse un tempo “normale” o non, piuttosto un periodo nel quale – a causa di una sporca guerra, di una guerra cafona, erano saltate le regole a entrambe le parti in lotta?
Commise i delitti per gusto, per sadismo, per l’ebbrezza del sangue?
Risponde lei, sempre attraverso la “Filomena-Jole”: «Si l’ho ucciso, è vero! Ma non per quello che pensate voi, perché a me piace l’odore del sangue. No, io non l’ho mai potuto digerire quell’odore! Mio padre faceva il macellaio, puzzava sempre di sangue d’animale, si portava sempre quell’odore di morte addosso. No, a me non è mai piaciuto quell’odore!» Sta qui l’altra, profonda verità per Filomena e per tutte le altre: le donne del brigantaggio non scelsero con leggerezza la via della macchia e la strada del sangue. Vi furono costrette dai tempi, dalle situazioni, dalla mancanza di alternative. E, nel bene e nel male tirarono fuori un coraggio che prima non avrebbero pensato di avere. Prendiamo un animale qualsiasi, anche il più docile, minacciamolo, invadiamogli il suo territorio, priviamolo del suo spazio vitale e, inevitabilmente, diventerà aggressivo. Ma poi non potremo sostenere che sia aggressivo per natura, lo abbiamo indotto noi ad esserlo. Proviamo, amici, ad applicare questo assunto dell’etologia a noi umani e diamoci la risposta.
Filomena pagò (e a caro prezzo pure) le sue colpe con anni di lavori forzati nelle carceri torinesi.
Ne uscì diversa: lei che ci era entrata analfabeta, ad esempio, ne uscì in grado di firmare e far di conto.
Scelse (o fu costretta?) a non tornare più nella Baronia. Sposò un borghese torinese e mori da benefattrice riconosciuta.
Morì lontana da quella Baronia che l’aveva già trasformata in leggenda, criminale per alcuni, eroica per altri. Morì lontana dalla sua vera casa.
Io ho tentato, nel testo che dovrebbe vedere la luce tra qualche settimana, di dare una spiegazione a tutte queste diverse sfaccettature della sua vita, s’intende una mia spiegazione. Non so se ci sono riuscito. Di una cosa, però sono sicuro: ho cercato di comprendere, ho evitato di giudicare.
Secondo me è questo l’unico approccio metodologico corretto a Filomena e a tutte le donne del brigantaggio: comprendere, non condannare, non esaltare, non giudicare insomma! Quest’impostazione non piacerà, come sostiene l’amico fraterno che mi conosce più di altri e che ha letto il mio lavoro, a tutti. Ma, esattamente come pensa anche lui …ecchisenefrega!!! Così è per me e tanto può bastare a lui, a me e a pochi altri.
I resti mortali di Filomena giacciono in un posto individuato da alcuni altri amici, sotto le zolle di una terra non più nemica. E se è così allora anche la sua vita avventurosa non sarà stata vissuta invano.
Finisce lì, tra quelle zolle, la storia della Regina delle Selve.
E, almeno per ora e in questo format, finiscono anche le storie di varia umanità al femminile che finora ho sottoposto all’attenzione degli amici tutti di Carta di Venosa.
Siate comprensivi: Natale è dietro l’angolo e io devo ancora cominciare a pensare al presepe, all’albero, agli addobbi natalizi e ai regalini vari, devo mettere in ammollo il baccalà e preparare gli ingredienti per i dolci. Insomma, … maiora premunt, come si diceva una volta qui a Roma.
Tuttavia, amici miei, non posso lasciarvi senza ringraziarvi, senza infingimenti, per l’attenzione che fin qui avete voluto rivolgere alla rubrica: “ridendo e scherzando” (giusto per usare un’espressione gergale della mia terra) abbiamo passato insieme poco meno di un anno e per me è stato bello, importante e gratificante.
Grazie a voi, grazie a tutti, allora!
Come sempre, buona domenica. E, perché no, anche … arrivederci.
(*) Promotore Carta di Venosa