UN TEMA, UN CONVEGNO
Le difficoltà che l’unificazione italiana incontrò nel Mezzogiorno dopo il compimento dell’impresa garibaldina e la proclamazione del Regno d’Italia furono, per molti aspetti, addirittura superiori a quelle che si erano dovute affrontare tra lo sbarco di Garibaldi in Sicilia e la caduta di Gaeta. Il cosiddetto brigantaggio fu soltanto una di tali difficoltà. Delle altre — amministrative, istituzionali, economiche, psicologiche, sociali — troppo spesso non si tiene tutto il conto dovuto. L’urto fra quei due mondi così diversi anche dal punto di vista antropologico-culturale, che erano il Nord e il Sud della penisola, fu quale doveva riuscire, e quale era facile prevedere che riuscisse per chi non avesse la mente e lo spirito dominati dalla meta dell’unificazione. Fu, cioè, un urto violento. Se ne erano accorti già i garibaldini durante la marcia da Marsala a Napoli. Basterebbe ripercorrere qualcuno dei loro diari o racconti della spedizione: quello, ad esempio, di uno straniero, il francese Maxime Du Camp, veramente esemplare nella tipologia dei giudizi che presenta rispetto al modo di essere e di vivere degli italiani del Sud: esemplare dei giudizi e dei pregiudizi, degli atteggiamenti e delle reazioni di un forestiero sorpreso, prima ancora che impressionato, di ritrovare tanta singolarità e arretratezza di costumi nella parte meridionale di un paese, che si pretendeva costituisse un’unica nazione e dovesse formare un solo Stato. Non c’è dubbio, tuttavia, che, di tutte le difficoltà affrontate nel Mezzogiorno a partire dal 1861 per stabilirvi di fatto e con sufficiente solidità e stabilità il regime dello Stato liberal-nazionale affermatosi in Italia, il brigantaggio abbia rappresentato la difficoltà più grave e che come tale esso sia stato sentito anche dai contemporanei.
La natura dei movimenti e dei gruppi armati che vanno sotto il nome di brigantaggio non ha ricevuto, nonostante tale sua riconosciuta rilevanza, la considerazione più appropriata ad essa: a lungo quei movimenti e quei gruppi hanno formato l’oggetto di una disputa politica e ideologica più che di una valutazione storica e di una conforme ricerca. È tipico — da questo punto di vista — l’atteggiamento che, a più di un secolo di distanza, si può cogliere, in materia di brigantaggio e di briganti, presso le comunità e nelle zone che furono teatro della loro azione. Le figure dei briganti, le loro gesta sembrano essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali, assumendovi il significato di ragioni di fama e di distinzione di quei luoghi. Non che sempre e dappertutto se ne esaltino le motivazioni, benché, vagamente almeno, e più spesso con molta forza, si continui a vedervi annesso il carattere di una lotta sostanzialmente giusta. Piuttosto si sottolinea che si trattò di una vicenda di una grande importanza storica, di fatti per cui oscuri villaggi e impervie gole appenniniche meritano di essere ricordati dalla grande storia, e che in qualche modo ne hanno determinato il non molto felice destino nei tempi trascorsi da allora, e continuano a determinarlo.
Gli studi e le ricerche, sempre più numerose di cui si è finito col disporre e si va sempre più disponendo, consentono, per fortuna, orientamenti e giudizi più adeguati alla natura, che si può riconoscere come più autentica, del fenomeno. E già a cominciare dal nome con cui esso è designato: poiché di brigantesco vi fu molto nei protagonisti e nelle loro gesta, ma non fu tutto, e limitarvisi nel giudizio o, peggio ancora, nella ricostruzione, significa rinunciare a capire, a poter giudicare. Al di là del piano più proprio di un autentico brigantaggio, due altre proiezioni si prospettano come possibili di quelle gesta: la dimensione di una guerra sociale e quella di una guerra nazionale per bande; e né l’una, né l’altra sono, in effetti, estranee alla vicenda. Tanto più si penetrerà, dunque, nei fatti, nella loro logica e nel loro significato, quanto più elemento sociale, elemento nazionale ed elemento del brigantaggio verranno stretti nella trama di un’unica consideratone. Reciprocamente, né le mene borboniche e le congiure clericali e reazionarie bastano a spiegare l’intenso pullulare di agitazioni e di lotte anti-unitarie per alcuni anni; né la volontà di dominio della borghesia e lo spirito di conquista del Piemonte sabaudo bastano a rendere ragione di tanti stimoli all’insurrezione armata e della dura repressione che ne fu fatta.
I contemporanei ebbero già buon avviso di tutto ciò, e scrissero, al riguardo, pagine che la storiografia posteriore ha spesso assai bene collocato nel contesto della logica politica a cui esse appartenevano, ma più spesso non ha dimostrato di saper sviluppare nei motivi di verità che esse contenevano. Basterebbe mettere a raffronto, in una lettura sinottica, l’opuscolo borbonico di Pietro Calà Ulloa, Delle presenti condizioni del Reame delle Due Sicilie, pubblicato nel 1862, e la relazione su II brigantaggio nelle provincie napoli tane, scritto nel 1863 da Giuseppe Massari per la Commissione di inchiesta della Camera dei Deputati del nuovo Regno d’Italia, per rendersene conto. Certo, è intento del Massari di attenuare al massimo il contenuto politico-dinastico-nazionale del brigantaggio e del suo legittimismo borbonico. Ma ciò che egli scrive sulle ragioni suscitatrici dello stesso brigantaggio, al di là di quelle dovute al mutamento politico, da cui esso prendeva le mosse, non per questo perde nulla della sua validità. Allo stesso modo, è facile mettere in evidenza nello scritto del Calà Ulloa l’intento di addebitare all’oppressione politica e sociale — di cui egli attribuisce l’istituzione a Garibaldi e al Piemonte, e alla volontà di resistenza e di riscatto dell’antica nazione napoletana, senza bisogno che Borboni e Chiesa la stimolassero — il dilagare della grande insurrezione nelle campagne e sui monti del Mezzogiorno diventato per forza italiano. Ma ciò non priva le pagine del ministro di Francesco II di un aspro sapore di verità in tutto ciò che egli scrive a proposito della spontaneità sia politica che sociale di una gran parte dei movimenti di resistenza allo Stato italiano unitario in tutto il Mezzogiorno.
A ben vedere, in un secolo e più di letteratura sul fenomeno i termini del dibattito e del giudizio storiografico oscillano ancora tra questi limiti estremi. Ma ciò non vuol dire affatto che gli studi siano rimasti fermi e non abbiano portato a registrare novità ragguardevoli nell’approfondimento delle fonti e della materia e opere tra le più interessanti della storiografia italiana contemporanea.
Non a caso, questo è accaduto soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. Allora la crisi dello Stato unitario uscito dal Risorgimento si tradusse, del tutto spiegabilmente, in un forte incentivo a negare legittimità e positività alla genesi stessa di quello Stato: non erano messi in causa e stigmatizzati soltanto gli svolgimenti che avevano in ultimo portato ad un profondo mutamento del quadro istituzionale, e quindi della civiltà politica, instaurati in Italia con l’avvento dello Stato risorgimentale; non erano messi in discussione soltanto le vicende conclusesi con il crollo militare e politico-diplomatico e il disastro civile ed economico del paese, provocato dal regime che lo aveva governato per un ventennio. Veramente, mai come negli anni *40 ebbe fortuna l’amara affermazione del Fortunato, secondo cui il Fascismo non era stato — come da esso si pretendeva — una rivoluzione, bensì piuttosto una rivelazione delle vere e antiche magagne della società e della storia d’Italia, a cui l’unificazione politica e il regime liberal-democratico non avevano portato sostanziale e risolutivo rimedio.
Era un giudizio ingeneroso, benché comprensibile nelle circostanze storiche, in cui venne maturato. Di esso resta, comunque, un frutto duraturo; e, cioè, una messe non trascurabile di studi e di ricerche, che toccarono, tra i tanti temi della storia italiana unitaria, anche il brigantaggio. E questo era giusto, poiché il brigantaggio fu effettivamente un episodio significativo e caratterizzante della vicenda italiana nel primo periodo dell’unità.
Né era meno giusto che il brigantaggio fosse subito — e pressoché senza residui — identificato col Mezzogiorno: e non solo per la collocazione geografica del fenomeno, bensì, ancor più, per i problemi di storia sociale e civile che esso, sotto ogni aspetto, poneva.
Il corso degli studi ne ha dimostrato, del resto, appieno il carattere di fondo. In un’atmosfera culturale e politica del tutto diversa da quella di quarant’anni prima, anche gli anni ‘80 hanno visto un non casuale riaccendersi dell’interesse scientifico per la storia del brigantaggio meridionale, dopo che negli anni ‘70 la cultura della cosiddetta « contestazione » aveva ripreso in chiave assai più virulenta il « processo al Risorgimento » degli anni ’40, e dopo che reviviscenze o nuove esigenze regionalistiche e particolaristiche hanno occupato uno spazio addirittura maggiore di quel che appariva nei momenti più critici degli anni ’40. La fecondità scientifica, lo stimolo intellettuale, la valenza civile e morale del tema non avrebbero potuto ricevere conferma migliore.
La Società Napoletana di Storia Patria ha perciò ritenuto di rispondere, con l’iniziativa di un convegno ad hoc, ad un’esigenza reale del contesto in cui essa si muove. Ad essa Giustino Fortunato legò carte e libri fondamentali per lo studio del brigantaggio. Ad essa e ai suoi fondi bibliografici e documentari fanno capo ricerche e studiosi delle più varie esperienze e tendenze. La fortunata circo stanza offerta dal poter affiancare il convegno della Società alla Mostra, che la Sovrintendenza ai beni artistici e storici ha promosso insieme con la stessa Società, servirà — si spera — a dare ai lavori del convegno un completamento, anche metodologico, prezioso. E poiché Mostra e Convegno furono ideati insieme e, dal primo momento, insieme promossi dalla Società e dalla Sovrintendenza, è giusto ricordare, per l’occasione, il Sovrintendente di allora, oggi scomparso e compianto, il prof. Raffaello Causa, già a lungo componente prestigioso e prezioso del Consiglio Direttivo della Società.
Giuseppe Galasso