Cronache dal brigantaggio e dintorni di Valentino Romano (VII)
Posted by altaterradilavoro on Mar 6, 2025
Il fiume della Storia trascina e sommerge le piccole storie individuali, l’onda dell’oblìo le cancella dalla memoria del mondo; scrivere significa anche camminare lungo il fiume, risalire la corrente, ripescare esistenze naufragate, ritrovare relitti impigliati sulle rive e imbarcarli su una precaria Arca di Noè di carta.
Claudio Magris
Agropoli, settembre del 1861
Il 26 settembre 1861 il generale Della Chiesa, comandante della 16ª Divisione Attiva, relaziona su uno sbarco di borbonici nei dintorni di Agropoli, nel cuore del Cilento, al Comandante Generale del VI Gran Comando Militare.
Il nome di Della Chiesa negli annali dell’Esercito Italiano d’occupazione risulta, a dire il vero, alquanto chiacchierato: verrà infatti rimosso successivamente dal comando, ufficialmente per la scarsa efficacia del suo operato in Lucania, ma in realtà perché pesantemente sospettato di collusione con i rivoltosi. Di lui infatti dirà Crocco che era pronto a passare armi e bagagli dalla parte del nemico, naturalmente previa corresponsione di ricca prebenda.
Ma torniamo allo sbarco che avviene il ventuno: a Roma, qualche giorno prima sono stati reclutati sbandati del disciolto esercito borbonico e poveracci senza arte né parte di origine meridionale. A guidarli vi è un “capo che era stato uffiziale nell’Esercito borbonico, di cui sgraziatamente non si conosce il nome”. Sono stati reclutati facendo ricorso a uno schema collaudato e ricorrente in molte fonti documentali: a loro infatti è stato detto che si sarebbero aggregati ad un esercito di 3.000 uomini che già agiva sui monti. Vien subito da pensare a Borges che è stato illuso con la medesima fandonia, ma non è da escludere che stavolta il riferimento possa avere qualche parvenza di sincerità, atteso che contemporaneamente in Lucania Crocco sta radunando una forza che si avvicina proprio a quella cifra, che sul Taburno i La Gala dispongono di una forza rilevante e che – proprio in quelle settimane – Giuseppe Tardio sta organizzando a Roma un altro sbarco imponente nel Cilento.
L’iniziativa è però comunque subito segnalata dagli agenti filo borbonici infiltrati nei comitati borbonici romani e addirittura nella stessa corte in esilio di Re Francesco: gli uomini di Della Chiesa riescono a catturare subito otto degli sbarcati. E il generale trasmette al Gran Comando a Napoli il verbale d’interrogatorio di due di essi, un siciliano, Mansueto Cattaneo, e un cilentano, Dionisio Casella.
Il 12 settembre sono stati frettolosamente arruolati in una “contrada di Roma” con la “semplice inserzione del loro nome” in una lista già preesistente e con “l’ingiunzione di trovarsi all’indomani, di buon mattino per essere caricati nella ferrovia a Civitavecchia”.
I reclutati hanno aspettato quattro giorni prima di essere imbarcati, ricevendo il soldo giornaliero di due carlini. Il diciassette, circa trenta di essi, partono “alla volta delle Calabrie”. Sull’imbarcazione, non essendovi armi bastanti per tutti, vengono armati solo in parte. Alcuni di loro indossano l’uniforme pontificia: si tratta di sbandati borbonici “già iscritti nella guardia civica di Roma con 3 bajocchi al giorno”.
Il venti arrivano nei paraggi di Castellabate e vi sostano per alcune ore prima di sbarcare. Due di essi si disperdono subito, avendo l’intenzione – secondo quanto dicono – di tornarsene a casa.
Della Chiesa sembra dar credito a questa ipotesi perché uno è “vecchio e impotente”, l’altro è “nativo di quei luoghi”. Quest’ultimo viene catturato mentre “tratta la vendita del suo fucile”.
Fin qui le poche notizie sull’episodio, certamente non eclatante ma ugualmente utile ad evidenziare l’approssimazione e il pressapochismo degli uomini vicini al Re Francesco; ed anche poco gratificante, a ben vedere, visto che se ne deduce come vengano mandati allo sbaraglio dei poveracci che lo stesso Della Chiesa descrive in un “miserabile stato”, gente morta di fame e di stenti, disposta a vendere la pelle per un misero soldo di sopravvivenza.
E a questi poveracci come si risponde da parte del piemontese che sbandiera i suoi propositi di riscatto delle popolazioni “oppresse”? Lo ammette candidamente lo stesso, discusso Della Chiesa quando rivela che gli stessi sono stati “interrogati partitamente [separatamente] sotto minaccia di morte e nel… cimitero” !!!
Davvero edificante per i presunti liberatori che si rivelano per quello che sono: torturatori e…becchini!
A margine della vicenda, c’è da registrare lo sperimentato “senso pratico” dei cilentani: Dionisio Casella viene infatti catturato mentre cerca di vendere il fucile che … non gli serve più!
E non sarò certo io a dargli torto!