Cronache dal brigantaggio e dintorni di Valentino Romano (IV) di Valentino Romano
Posted by altaterradilavoro on Feb 13, 2025
Il fiume della Storia trascina e sommerge le piccole storie individuali, l’onda dell’oblìo le cancella dalla memoria del mondo; scrivere significa anche camminare lungo il fiume, risalire la corrente, ripescare esistenze naufragate, ritrovare relitti impigliati sulle rive e imbarcarli su una precaria Arca di Noè di carta.
Claudio Magris
Fratelli briganti
Terra d’Otranto, 1860 e dintorni
Nei moti contadini postunitari conosciuti come “grande brigantaggio” non è infrequente imbattersi in interi nuclei familiari che si danno alla macchia. Spesso, allorché un componente della famiglia sceglie la via delle armi, viene – prima o poi – seguito da uno o più familiari.
Il pensiero corre alla famiglia Ciminelli (le sorelle Maria Teresa e Serafina, il padre Domenico, la madre Maria Luigia Ferrara, il fratello Fiore) e a Michelina Di Cesare (Francesco Guerra, il marito; Domenico, il fratello; Maria, la sorella)
E’ difficile però trovare il caso di tre fratelli che, insieme, decidono di scorrere la campagna. La palma di questo singolare primato spetta senza dubbio al circondario di Brindisi con ben due casi.
La prima vicenda riguarda tre fratelli di Latiano, i Montanaro, detti “Pizzicone”: Antimo Francesco, nato nel 1822, Salvatore Giuseppe Maria, nato nel 1825 e Francesco di Paola, nato nel 1827. Il 1° settembre del 1862 i tre fratelli, a seguito di una rissa scoppiata per futili motivi uccidono nella loro cittadina tale Francesco Battipaglia. Molte sarebbero le circostanze attenuanti (come la mancata premeditazione e la provocazione) ma i tre fratelli vengono mal consigliati e, invece di costituirsi, preferiscono darsi alla campagna. Purtroppo per loro, scorre quelle contrade il famoso brigante Laveneziana di Carovigno che è in cerca di proseliti per la sua banda. I tre lo incontrano alla masseria Cazzato e si arruolano nelle sue fila. Gli eventi si susseguono precipitosamente: Laveneziana si aggrega alla più conosciuta banda del Sergente Romano, divenendone ben presto uno dei capi e scorre il brindisino e il tarantino. I tre fratelli Montanaro partecipano a tutte le azioni brigantesche della banda, non sottraendosi ad alcuno dei cosiddetti “lavori sporchi” della comitiva. Ed è proprio uno di questi che ne provoca la fine: nella banda era stato arruolato – pare contro la sua volontà e con uno stratagemma – Vincenzo Patisso di Carovigno, fratello di Carmine, uno degli uomini più fidati del Laveneziana. Dopo qualche tempo a Vincenzo si presenta l’opportunità di disertare ed il giovane non se la fa sfuggire. Sulle sue tracce vengono inviati diverse “pattuglie” di briganti. Una di queste è composta proprio dai tre fratelli latianesi che riescono ad intercettare il fuggitivo nei boschi di S. Basilio in Mottola. Dopo un estenuante inseguimento catturano il giovane. Allora, forse perché irritati per la fatica, pensano bene di anticipare la vendetta del sergente Romano e gli scaricano addosso due fucilate, ferendolo all’anca e alla gamba sinistra. Conducono poi il malcapitato alla presenza del capo: certamente si aspettano l’approvazione di Romano, ma non hanno fatto i conti con il codice d’onore del guerrigliero legittimista; sperano forse in una ricompensa, ma quella che piove sul loro capo è davvero inaspettata! Romano, indignato perché i tre si sono sostituiti a lui nel giudicare e perché hanno usato gratuita violenza contro un inerme, convoca il consiglio dei capi. Il verdetto è sbrigativo e terribile: condanna a morte. I tre sono immediatamente fucilati sul posto: è il 14 novembre .
L’altro caso riguarda i tre fratelli Cannalire di Francavilla, Emmanuele Felice, nato nel 1836, Antonio Pasquale, nato nel 1842 e Giovanni di Dio, nato nel 1844.
Anche qui la causa del darsi alla macchia è un omicidio commesso il 21 agosto del 1862 (quello di Francesco Ribezzo). La procedura di arruolamento è identica a quella dei Montanaro – come la partecipazione alle azioni brigantesche – ma la sorte è assai diversa: Antonio Pasquale viene arrestato il 3 ottobre dai Carabinieri a Ceglie Messapica, dove si aggirava in compagnia del brigante Francesco Monaco; Emmanuele è arrestato nel marzo del 1863 a Lecce, nell’abitazione del suo avvocato, Bodini. Probabilmente è lo stesso avvocato a consigliargli di costituirsi. Il 20 dicembre del 1864 la Corte d’Assise straordinaria di Trani, sedente in Bari, lo condanna ai lavori forzati a vita.
Giovanni è l’unico a seguire il sergente Romano fino alla fine: è con lui in quel tragico 5 gennaio del 1863, al Parco della Corte, tra Gioia e Santeramo, nel corso del quale la banda è attaccata e distrutta dai cavalleggeri di Saluzzo. E, con il suo capo, resta sul terreno. Oggi una stele, posta qualche anno addietro sul luogo del massacro dalle associazioni borboniche di Puglia, ne riporta, (seppur storpiato in Candeliero) il nome.
Storie di fratelli briganti, storie crude e tragiche come quei tempi, storie quasi del tutto dimenticate, che – riportate oggi alla luce – testimoniano il contributo brindisino di sangue alla difficile nascita dello stato unitario in quella contrada.
(Da Briganti e galantuomini, soldati e contadini, Laruffa Editore, Reggio Calabria, 2016)