CAPITOLO I
TERRA DI FRONTIERA
(Briganti e musica popolare dal nord del sud / Pierluigi Moschitti)
L’area di riferimento di questo saggio la parte più settentrionale dell’antica provincia di Terra di Lavoro. Un’area a ridosso del confine storico tra lo Stato Pontificio ed il regno Borbonico (Regno di Napoli ed in seguito Regno delle due Sicilie), dove il Brigantaggio dell’Italia meridionale è stato un fenomeno sociale e politico, lasciando ricordi, leggende e tracce della sua esistenza.
Un territorio situato nell’Italia centro-meridionale che affaccia sul Tirreno e dove insistono i Monti Ausoni e i Monti Aurunci che, con le numerose caverne, corsi d’acqua ed una fitta vegetazione, offre un habitat naturale per il brigante o per chiunque cerchi un nascondiglio.
E’ questa una zona di frontiera a cavallo di due nazioni: a nord lo Stato Pontificio, con la provincia di Marittima e di Campagna; a sud la Terra di Lavoro, la parte più settentrionale del regno borbonico: il nord del sud.
Lo Stato Pontificio aveva il suo confine all’Epitaffio, a Terracina, mentre il Regno Borbonico cominciava storicamente dalla struttura della Portella di Monticelli (attualmente Monte San Biagio). Tra Epitaffio e Portella si formava un lembo di terra largo circa 3 Kilometri, questa era una zona di rispetto tra i due Stati ed era chiamata Terra di nessuno in quanto senza giurisdizione. Qui i Briganti trovavano un rifugio sicuro e vi facevano da padroni, avendo anche la possibilità di spostarsi da uno Stato all’altro, senza problemi ed a seconda delle necessità.
Ed è così che, in modo particolare nel periodo che va dal 1799 al 1865, bande di briganti operarono sui monti Lepini, Ausoni e Aurunci, cacciati dai gendarmi francesi prima, dai carabinieri pontifici dopo, ed infine dalle truppe piemontesi.
A delimitare tale confine vennero utilizzati dei cippi in pietra recanti da una parte lo stemma pontificio e dall’altra lo stemma borbonico. A scopo bene augurante, sotto questi cippi veniva collocata una moneta recante i due stemmi. Il cippo n. 1 si trova ancora adesso nel territorio di
Terracina.
Durante il brigantaggio legittimista a sostegno dei Borboni, la contiguità geografica tra Stato pontificio e Regno borbonico fu determinante per i briganti che operavano nei pressi del confine.
Inizialmente le bande si mantenevano circoscritte alle zone a ridosso della frontiera ma ben presto, inseguite dalle truppe, presero a rifugiarsi nel territorio pontificio dove trovavano la protezione della Chiesa che, appunto, appoggiò i Borbone sia contro i francesi nel 1799 che contro i piemontesi nel 1860.
Questo territorio che attualmente fa parte della Regione Lazio, ha condiviso da millenni le sue radici storiche e le proprie tradizioni con il napoletano ed il Sud in generale, facendone parte, nella provincia di Terra di Lavoro, fino al 1932, quando in era fascista entrò a far parte della provincia di Littoria, attualmente Latina.
Il nome originario della provincia storica di Terra di Lavoro Liburia, in quanto abitata da un’antica popolazione chiamata Leborini, divenne poi Campi dei Leborini (o Laborini) in latino Terra Laboriae o Laboris, qui, probabilmente per un errore di trascrizione, il termine Laboriae fu interpretato come labor (lavoro) e fu cosi che la denominazione Campi dei Leborini si trasformò in Terra di Lavoro.
In antichità tutta la regione era chiamata Campania Felix, ed era conosciuta come il giardino d’Europa, in virtù delle favorevoli condizioni ambientali e della produttività della terra.
Terra di Lavoro, che ebbe come capitale prima Capua e poi Caserta, era una delle province più vaste d’Italia e comprendeva la parte meridionale dell’attuale provincia di Latina, l’intero territorio dell’attuale provincia di Caserta, parte dell’attuale provincia di Frosinone (il cassinate), tutta la parte
dell’agro nolano compresa nell’attuale provincia di Napoli e ancora una parte del Sannio.
I centri principali erano Capua, Caserta, Gaeta, Fondi, Formia, Cassino, Isola del Liri, Itri, Nola, Sora e, per importanza storica, Aquino, Arpino e Roccasecca, ne facevano parte, inoltre, i comuni delle isole di Ponza e Ventotene.
Nel 1863 l’alta valle del Volturno fu scorporata dalla provincia per costituire la nuova provincia di Campobasso, mentre tutti i comuni dell’area della Valle Caudina, passarono alla nuova provincia di Benevento.
Nel 1927 venne istituita la provincia di Frosinone. Lo scioglimento della provincia di Terra di Lavoro avvenne nello stesso anno, poichè Mussolini ritenne politicamente opportuno smembrare questa provincia ideologicamente contraria al regime fascista. I suoi comuni passarono alle province di Roma (compreso l’attuale Sud Pontino), Napoli, Benevento, Campobasso e alla provincia di Frosinone appena istituita.
Nel 1934 fu istituita la provincia di Littoria, (oggi Latina), che fu creata unendo l’Agro Pontino con l’area di Fondi e con quella di Formia e Gaeta, fino al Garigliano.
L’unità d’Italia, specie in Terra di Lavoro, che dopo quella di Napoli era la seconda provincia borbonica per benessere economico e sociale, nel giro di qualche decennio provocò il tracollo delle attività produttive agricole e industriali; sollevò enormi problematiche sociali a tutti i livelli, con effetti irreversibili su tutto il centro sud d’Italia, compreso il fenomeno dell’emigrazione.
“Quella che era la più vasta,la più popolata, la più ricca, la più produttiva provincia del regno delle Due Sicilie, con la sua agricoltura fiorente e le sue manifatture prestigiose, la prediletta dimora estiva dei sovrani, l’area più fornitadi infrastrutture dell’intero Meridione, anche per il crollo degli investimenti pubblici e un insostenibile aggravio del sistema fiscale doveva diventare una delle più depresse e diseredate aree del nuovo Regno d’Italia, ricca solo di pauperismo e di disoccupazione”: a scrivere il prof. Carlo Zaghi, nella prefazione del libro La questione meridionale in Terra di Lavoro di Di Biasio (1976).
Era questo un territorio ricco di beni artistici ed ambientali, con il suo mare, i pescosi laghi, la fertile pianura, le colline produttive e le rigogliose montagne. Con una popolazione, in maggioranza agricoltori, pastori e pescatori, depositaria di una cultura millenaria arricchita dagli scambi che avvenivano con le province limitrofe e con i commercianti che attraccavano nel porto di Gaeta.
Il senso della comunità, tradizionalmente forte come in tutto il Sud, coinvolgeva intere famiglie e spesso tutta la cittadinanza che sovente si ritrovava a festeggiare con musica e balli le varie ricorrenze come la fine dei lavori nei campi (mietitura, vendemmia), le occasioni importanti (sposalizi, nascite), feste popolari e religiose.
La forma musicale tipica dell’area, appartiene alle tarantelle ed in modo particolare al saltarello, una antica forma di ballo e di musica che affonda le sue origini nella Saltatio romana.
A sua volta il Saltarello comprende altre forme che differiscono tra loro da varianti nell’ esecuzione del ballo o della parte musicale. Tipica della zona dei nostri Monti Ausoni ed Aurunci la Ballarella.
Sono musiche di festa che avevano il compito di portare allegria e gioia dopo lunghe giornate di lavoro.
Venivano usati strumenti popolari arcaici che spesso i pastori ed i contadini riuscivano a costruirsi da soli oppure in piccoli laboratori artigiani. Gli strumenti usati erano zampogne, ciaramelle, flauti di canna o di corteccia, tamburelli e percussioni varie, chitarre, mandole, mandolini ,violini.
Come nella cultura classica greca, il mondo agropastorale sceglie di cantare l’amore, le passioni, la convivialità, le gioie della vita semplice e i piaceri della campagna. Quasi mai i testi sono diretti, generalmente sono allegorici e ricchi di metafore.
Nel testo di questa ballarella, una giovane riferisce della sua condizione di adolescente ed il pensiero della precarietà della vita la induce a non lasciarsi scappare “l’attimo che fugge” come il “Carpe diem” di Orazio e come Lorenzo de’ Medici nel “Trionfo di Bacco e Arianna”: “quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”.
MÒ CHE SO GIOVANE
(Anonimo) cd Briganti di frontiera – canzone n. 2
Mò che so giovane voju cantare
Quannu so vecchia m’ ricu la crona
Mò che so giovane voju viaggiare
Alla Turchia c’voju arrivare
Mò che so giovane voju giocare
Giochi d’amore li vojo fare
Giochi d’amore chi perde, paga
Me le portasti le carte da gioco?
Mò che so giovane voju vulare
Aju cielu c’ voju arrivare
Mo che so giovane voju sunar’
Cu st’urganetta m’ voju ndunà
Mò che so giovane voju ballar’
Alla festa m’ c’ara mannan’
Na vesta nova m’ l’ara fa
Nù giuvinottu m’ voju truvà
Trad.; adesso che sono giovane voglio cantare, quando sarò vecchia reciterò il rosario/ adesso che sono giovane voglio viaggiare, fino in Turchia voglio arrivare/ adesso che sono giovane voglio giocare, giochi d’amore voglio fare/ giochi d’amore chi perde, paga, le hai portate le carte da gioco?/ adesso che sono giovane voglio volare, voglio arrivare fino in cielo/adesso che sono giovane voglio suonare, con questo organetto mi voglio accordare/ adesso che
sono giovane voglio ballare, alla festa mi ci devi mandare/ un vestito nuovo mi devi fare (perchè) un giovanotto voglio trovarmi.