Prefazione
I briganti nella storia della lingua
Il lavoro di Angela Gentile va inquadrato in una prospettiva di studio che a partire dagli anni Settanta del Novecento è stata dedicata al cosiddetto italiano popolare, ovvero a una varietà dell’italiano caratterizzata dall’interferenza tra italiano e dialetto. Le prime ricerche in questa direzione sono state avviate da Manlio Cortelazzo e Tullio De Mauro, negli anni in cui si avviavano, grazie a Giovan Battista Pellegrini, anche studi più articolati sull’italiano regionale, che mettevano in evidenza che tra italiano e dialetto, nell’Italia del Novecento, si potevano riconoscere diverse forme intermedie di comunicazione: a una prospettiva tradizionale che tendeva a presentare l’italiano e i dialetti come entità lontane, quasi esclusive e tra loro impermeabili, cominciava quindi a sostituirsi un’altra prospettiva che presentava la realtà linguistica come un insieme di varietà tra loro differenziate anche per gradazione.
In precedenza si tendeva a immaginare che un parlante bilingue adottasse o l’italiano o il dialetto, in un caso e nell’altro, con comportamenti tendenzialmente uniformi; si riteneva cioè che un parlante usasse o un italiano “puro” o un dialetto “integrale”, a suo modo altrettanto puro.
Nella seconda metà del Novecento, invece, si cominciavano a mettere meglio a fuoco i reali comportamenti dei parlanti, che non solo potevano passare dal dialetto all’italiano e viceversa, ma di fatto usavano anche dialetti più o meno aperti alle influenze dell’italiano o un italiano più o meno modificato da elementi dialettali.
Il merito di Cortelazzo e di De Mauro fu quello di mettere in luce che molte persone, che avevano acquisito una parziale competenza della lingua scritta e abitualmente parlavano per lo più in dialetto, nelle occasioni in cui si trovavano a scrivere, potevano esprimersi per iscritto in una lingua che non era identificabile con alcun dialetto, ma che non era neanche in tutto e per tutto simile all’italiano messo abitualmente per iscritto da scriventi colti: per questa lingua sembrò adeguata l’etichetta di “Italiano popolare”. In questa lingua si riconoscevano alcune incertezze grafiche, condivise da parlanti di diverse parti d’Italia, per esempio imprecisioni nell’ortografia, impropria separazione delle parole, uso arbitrario delle maiuscole, una punteggiatura mal controllata, difficoltà nel rispettare il rigo e altre caratteristiche del genere. In queste scritture erano presenti d’altro canto forme dialettali che gli scriventi possedevano nel proprio bagaglio linguistico.
L’individuazione dell’italiano popolare, però, dal punto di vista dell’osservazione culturale, non comportò soltanto la possibilità di isolare e descrivere una serie di fenomeni (per esempio la prossimità alla lingua parlata), che tra l’altro erano in comune con certe scrittture scolastiche, come tempestivamente dimostrò Francesco Bruni, ma permise anche di dedicare una certa attenzione a tanti scriventi che ricorrevano alla comunicazione scritta pur avendo conseguito una non compiuta capacità di controllare le caratteristiche specifiche della comunicazione scritta.
Una volta riconosciuta l’esistenza dell’italiano popolare nell’età contemporanea, si cominciò a sondare la situazione linguistica anche in prospettiva storica: fu così che l’attenzione cominciò a indirizzarsi anche verso gli scriventi popolari del passato e, per merito degli storici della lingua, fu progressivamente chiarito che sarebbe stato necessario rivedere alcune idee correnti sulla storia della nostra cultura. In nome della visione che presentava italiano e dialetto come entità contrapposte e lontane, si tendeva anche a dire che in passato l’italiano era una lingua tradizionalmente usata solo per scrivere sonetti, canzoni (nel senso metrico e letterario) e madrigali, o, in prosa, trattati, epistole di letterati o narrazioni di alto livello. Quando invece le ricerche degli studiosi di storia linguistica cominciarono a indirizzarsi, con adeguate metodologie filologiche, verso le carte d’archivio, furono anche scoperti piccoli giacimenti in cui spiccavano lettere di soldati, lettere di emigranti, scritti di carcerati, autobiografie di contadini,tesamenti olografi scritti di cronisti attenti più ai contenuti e al fascino del racconto che al bello scrivere, lettere di collaboratori di mercanti, i quali già nel Trecento o nel Quattrocento imparavano a scrivere quel tanto che bastava a conquistare una grafia leggibile. Una caratteristica comune a tutte queste scritture, distanti dagli interessi letterari, era la tendenza ad adottare, nella sintassi e nella strutturazione del testo, forme simili a quelle della comunicazione parlata.
Anche per i secoli passati si profilavano quindi testimonianze di un italiano scritto diverso da quello letterario, ma anche diverso dai dialetti, ai quali pure per qualche aspetto si avvicinava. Attraverso questa lingua si riconoscevano alcuni riflessi di una circolazione dell’italiano anche nella comunicazione parlata: prendeva in questo modo forma una storia dell’italiano più movimentata e meno compatta di quella che si era soliti ricostruire attraverso gli scritti dei letterati e degli autori più colti.
Un’idea di quanto sia articolata e complessa la storia della nostra lingua si riceve, per esempio, dall’opera L’italiano nelle regioni curata da Francesco Bruni (Utet 1992 e 1994), in cui tra l’altro trova posto anche qualche riferimento alle scritture dei briganti, in particolare di quelli che agivano in Basilicata. Per i motivi fin qui accennati è evidente quale pos¬sa essere l’interesse storico-linguistico delle scritture dei briganti: i loro testi rientrano tra quelli di scriventi che possiamo definire non abituali.
Anche i testi dei briganti nascevano dalla necessità di comunicare a distanza, in situazioni estreme, in cui lo scrivente, per quanto inesperto, doveva scegliere tra il comunicare (nell’unico modo possibile) e il silenzio. Di fronte alla stessa scelta si trovavano del resto gli emigranti, i prigionieri di guerra, gli autori di testi memoriali che per lasciare un ricordo ai posteri dovevano tentare l’avventurosa sperimentazione di carta, calamaio e penna, avendo come unica alternativa l’oblio definitivo di eventi che desideravano raccontare.
Nel caso dei briganti è poi possibile che il genere testuale specifico della lettera di ricatto (ampiamente rappresentato anche in questo libro) svolgesse una funzione precisa, che aggiungeva una sorta di valore aggiunto alla comunicazione a distanza. La lettera, rispetto al ricatto solo verbale, da un lato con ogni probabilità rappresentava un’aggravante (perché dava luogo a una prova certa), da un altro lato però conferiva immediata credibilità alle minacce in quanto la scrittura funzionava come una forma di certificazione di autenticità. Inoltre non è impossibile che la lettera del brigante avesse una qualche utilità anche per il destinatario, il quale, di fronte a minacce scritte che imponevano la consegna di denaro, di vettovaglie o di armi avrebbe potuto disporre di una prova persuasiva da esibire per evitare di essere imputato di favoreggiamento.
Nella storia multiforme dell’alfabetizzazione le scritture dei briganti rimandano non di rado a storie individuali molto particolari, come quella di Carmine Crocco (“generale” dei briganti del Vulture) che nella sua autobiografia di cui purtroppo risulta perduto il manoscritto autografo, compone anche dei versi: o come quella di Michele Di Gè di Rionero in Vulture, che impara a scrivere in carcere e una volta libero (perché non colpevole di omicidio), scrive l’autobiografia per restare un ricordo” di sé alla sua famiglia e ai suoi compaesani; o come quella di Teodoro Gioseffi, di cui in un portafogli, che rappresenta forse uno dei più singolari manoscritti della Biblioteca Nazionale di Napoli, rimane un piccolo taccuino con poche frasi e qualche firma faticosamente tracciata(N. De Blasi, “Carta, calamaio e penna”. Lingua e cultura nella Vita del brigante Di Gè, Potenza, Il salice, 1991; N. De Blasi, “Col mio debbole e rozzo scritto”. Che cosa e come scrivevano i briganti del¬la Basilicata, in E. Banfi e P. Cordin (a cura di), L’italiano e le forme dell’italianizzazione, Atti del XXIII congresso internazionale della Società di Linguistica Italiana (Trento 18-20 maggio 1989), Roma, Bulzoni, 1990, pp. 373-99.)
A parte i casi ora ricordati, che per vie fortunose sono giunti alle stampe o in una biblioteca, la quasi totalità dei testi briganteschi richiede ricerche minuziose e lunghe, da svolgere non nelle biblioteche ma negli archivi, poiché le loro lettere, in quanto prove d’accusa sono allegate agli incartamenti processuali. Lo studioso interessato a indagini del genere per individuare testi rilevanti da un punto di vista storico-linguistico deve quindi individuare fondi d’archivio di carte processuali per poi sfogliare le carte di diversi processi, sperando di imbattersi prima o poi in processi che abbiano come imputato almeno un brigante alfabetizzato. Più o meno è questo il percorso di ricerca che con buone capacità di indagine analitiche e minuziose ha compiuto Angela Gentile quando si è dedicata al lavoro che qui viene presentato.
Va dunque messo in risalto che il suo merito principale è stato proprio quello di scoprire e di isolare l’oggetto della sua ricerca, un oggetto che è stato da lei definito, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, in un puntiglioso dialogo con le carte d’archivio, che alla fine hanno consegnato, un pezzo dopo l’altro, i testi che qui vengono presentati. Senz’altro è stata questa la parte più difficile del lavoro, perché esposta anche al rischio di un esito infruttuoso o di un “raccolto” esile; rispetto a questa, la parte successiva del lavoro è stata meno impervia, anche se non è stata certamente agevole, perché ha richiesto capacità di analisi sistematica e precisione nella trascrizione, oltre che nella descrizione dei fenomeni.
Un altro merito di Angela Gentile è quello di aver cercato, nei limiti del possibile, di riunire informazioni sugli scriventi, noti, nel migliore dei casi, alla cronache giudiziarie o solo a una bibliografia storica specialistica.
Di fronte ai testi qui editi e studiati, l’autrice ha adottato i consueti criteri filologici conservativi che si consigliano in casi del genere: alla luce di quanto si è detto a proposito delle testimonianze di questo tipo, è senz’altro evidente che nello studio di tali scritti è importante poter valutare le caratteristiche grafiche e linguistiche nella loro forma originaria, perché solo in questo modo è possibile tentare di tracciare un profilo culturale degli scriventi. La scelta di un’edizione conservativa non risponde quindi a una pedanteria, ma all’esigenza di non alterare testi che vanno valutati come testimonianze di rilevanza storico-culturale e storico-linguistica.
Questi scritti incerti, scoperti e studiati da Angela Gentile, sulla scorta di una bibliografia precedente ben nota alla studiosa, se per la loro natura particolare rinviano a un contesto doloroso e criminoso, offrono dunque ai lettori anche la possibilità di cogliere parole e frasi che avvicinano a brani di diversi episodi comunicativi reali del secondo Ottocento.
NICOLA DE BLASI
Professore ordinario di Storia della lingua italiana – Università di Napoli “Federico II”