LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO | 20° episodio ANGELA, O DEGLI ESPEDIENTI PER SFUGGIRE ALLA GIUSTIZIA.
di Valentino Romano (*)
Acerra, novembre del 1864
Nella narrazione dei fatti del brigantaggio, e soprattutto di quello al femminile, quasi mai si è prestata soverchia attenzione al ruolo che ebbero i cosiddetti “manutengoli”, cioè quella genia di individui che, o per calcolo o per interesse, fornirono supporto agli uomini e alle donne alla macchia. Chiamateli fiancheggiatori, complici o come meglio vi pare: furono sempre quelli, ai margini o al di là della legalità, che rimasero nell’ombra e che dall’ombra determinarono spesso le loro sorti. Di certo non erano benefattori e tantomeno idealisti. Tutt’altro! Nella stragrande maggioranza dei casi erano approfittatori della peggior specie che intravedevano la possibilità di qualche facile guadagno immediato. A questa grigia e folta schiera appartennero sicuramente Carlo e Mauro Mugnolo di Acerra la cui azione ebbe un ruolo (e che ruolo!) determinante nel destino della protagonista della storia di oggi, Angela Simaldone. Ma procediamo con ordine: i fratelli Mugnolo da tempo erano in collegamento con la banda del noto Crescenzo Gravina e spesso prestavano rifugio ai suoi uomini. Uno di questi che occasionalmente approfittava dei servizi ospitali dei due fratelli era Giuseppe Iovino, detto Curcio. Il brigante aveva una donna, Angela Simaldone di Cervinara, poco più che ventenne: accusata di complicità con i briganti, Angela era stata arrestata il 4 dicembre del 1863, ma era riuscita ad evadere dopo pochi giorni, il 19, dalle carceri del paese. Datasi subito alla macchia, si era unita alla banda ed era diventata la donna di Iovino; questi, credendo, di metterla al sicuro, nell’agosto del 64 l’aveva affidata – naturalmente dietro lauto compenso – ai fratelli Mugnolo che la ospitavano a Verderosa, la loro masseria. Qui la donna, che viveva sotto falso nome come la comare di Teresina Di Monda, moglie di Carlo, partorì una bambina che venne portata all’ospizio dei trovatelli in Napoli.
La truppa e la guardia nazionale, però, incalzavano senza tregua la banda e anche Iovino fu costretto a rifugiarsi nella masseria: venne nascosto allora in un anfratto scavato nel terreno, una “tana”, da cui usciva solo nottetempo. Intervenne, però, un fatto nuovo che rendeva sempre più compromettente la posizione dei Mugnolo, già in odore di sospetto: il suocero di Carlo, Antonio Di Monda fu arrestato per complicità con i briganti. Era chiaro a questo punto come il cerchio intorno ai manutengoli si stesse restringendo sempre di più: occorreva allontanare in ogni modo i sospetti e, per raggiungere questo risultato – pensarono i due fratelli – occorreva liberarsi definitivamente di Iovino e della sua donna. Carlo e Mauro escogitarono allora un piano terribile: Mauro, con uno stratagemma, fece uscire il brigante dal suo rifugio e lo massacrò a colpi d’arma da fuoco e da taglio. Iovino, però, non morì subito e, pure ferito a morte, con l’aiuto di alcuni contadini riuscì a portarsi ad Acerra dove si consegnò al Delegato di P.S; morì il giorno appresso, ma fece in tempo a raccontare sia l’accaduto che le sue giustificate paure per la sorte della donna. Il Delegato si recò immediatamente con i suoi uomini a masseria Verderosa ma di Angela non c’era più traccia: le ricerche si protrassero per parecchio tempo fino a quando nella zona detta “Parco del pantano”, ad un centinaio di metri dalla masseria, in una buca coperta da un mucchio di letame, venne trovato il cadavere della donna trafitto da quattordici pugnalate. Gli inquirenti accertarono che i Mugnolo, dopo aver ferito Giuseppe Iovino, si erano portati all’interno della masseria dove era rifugiata Angela, le si erano avventati contro e “l … ’assassinano con molti colpi di pugnale e caricatisi del di lei cadavere ancora caldo e palpitante si dirigono a sotterrarlo nel parco del pantano”.
Amaro è il commento dell’Avvocato fiscale che si occupò del processo per manutengolismo alla famiglia Mugnolo: “non c’era proprio bisogno di assassinare una disgraziata giovane che contava appena venti anni”.
L’omicidio della donna, però, ricadeva nellauno scarno appunto competenza del Tribunale ordinario e quello militare poté solo condannare i due fratelli a quindici anni di lavori forzati per favoreggiamento del brigantaggio.
Restava, però, ancora in piedi un altro processo: era proprio quello nei confronti di Angela per l’evasione nel 1863. Nel fascicolo relativo non ci sono particolari notizie: uno scarno appunto a margine manifesta, però, il disappunto degli inquirenti che, loro malgrado, dovettero dichiarare estinta l’azione penale per “l’evasione della manutengola Somardoni Angiolina dalle carceri di Cervinara”.
Riporto fedelmente l’appunto: “Come risulta dai suestesi documenti si sarebbe resa estinta il 2 novembre 1864”.
Eccolo la causa del venir meno del contendere: ‘sta tizia, pur di non farsi giudicare e condannare, si è … “resa estinta”. Come dire che, secondo i giudici, Angela aveva preferito quattordici pugnalate piuttosto che altrettanti anni di carcere.
Certo che erano strani, assai strani questi imprevedibili contadini-briganti. Pur di non farsi condannare da un Tribunale di guerra, erano capaci pure di “rendersi estinti”.
Le pensavano proprio tutte.
(*) Promotore Carta di Venosa