IL BRIGANTAGGIO MERIDIONALE POST-UNITARIO NELLA STORIOGRAFIA DELL’ULTIMO VENTENNIO
Alfonso Scirocco
Sul brigantaggio che travagliò il Mezzogiorno nel primo decennio dell’Unità scrissero subito i contemporanei, colpiti dalla vastità e dalla durata del fenomeno.
Ad opuscoli e libri, dati alle stampe per approfondirne le cause ed indicare i rimedi, agli articoli di giornali ed alla relazione della Commissione parlamentare, si accompagnarono ampie, spesso acute relazioni degli ufficiali dell’esercito impegnati nella repressione, pubblicate, magari a distanza di anni, in biografie e ricordi dei protagonisti del Risorgimento. Una ricchezza di contributi praticamente cessata col ’70, parallelamente all’esaurirsi del brigantaggio ed al venir meno dell’interesse del pubblico.
In seguito, poche volte l’argomento fu ripreso con l’intento di cercare più convincenti spiegazioni fino a che, nel secondo dopoguerra l’evolversi degli studi indusse ad una nuova messa a fuoco del problema: anche in seguito alla pubblicazione degli appunti di Gramsci, l’interesse si spostava sui rapporti tra le classi e sulla organizzazione della società nell’Italia dell’Ottocento. Ci si chiedeva se il brigantaggio divampato nel Mezzogiorno dovesse essere considerato un episodio marginale, oppure la manifestazione di un’insufficienza strutturale del processo di unificazione nazionale; se fosse il portato di antichi mali, oppure il risultato della impreparazione della borghesia italiana.
Una risposta la diede Franco Molfese, che, incoraggiato dal ritrovamento di parte dell’archivio della Commissione parlamentare d’inchiesta del 1863, si propose di inquadrare un’ampia nar-
1 Ricordiamo solo F.S. Nitri, II brigantaggio Meridionale durante il regime borbonico (pubblicato per la prima volta nel 1899, ora in Io., Scritti sulla questione meridionale, a cura di A. Saitea, Laterza. Bari 1958); G. DoaiA, Per la storia del brigantaggio nelle province meridionali, «Archivio Storico per le Province Napoletane », 1931.
razione dei fatti briganteschi in una visione politica della sollevazioe della azione governativa2.
Una vera e propria guerriglia contadina, osserva Molfese, ai sviluppò nell’autunno del 1860, incoraggiata dal Borbone, ancora padrone di Capua, di Gaeta e delle province settentrionali del Regno; la componente borbonico- clericale fu prevalente per tutto il 161, fino alla tragica fine di Borges. Poi, mentre sembrava che il brigantaggio fosse stato fiaccato dalla spietata azione militare di Cialdini, nella primavera del ’62 riprese l’attività di bande nume- rose ed agguerrite, sparse in gran parte del Mezzogiorno, contro le quali poco servì nell’estate del *62 lo stato d’assedio decretato per il tentativo garibaldino di Aspromonte. Dopo l’indagine compiuta da una commissione parlamentare ti giunse nell’agosto ’63 alla emanazione di una legislazione speciale, che puntava tutto sulla repressione militare, e stroncò il brigantaggio con grave dispendio di denaro e di sangue.
Perché fu cosi tenace la sollevazione e poco incisiva l’azione governativa? Molfese mette in evidenza gli scompensi della società meridionale, la povertà dei contadini, convinti (giustamente) di essere stati defraudati delle terre dei demani comunali usurpate dalla borghesia, sfruttati dai proprietari terrieri, pronti a ribellarsi contro la classe che li opprime appena si indebolisce l’autorità dello Stato. È difficile, per lui, « negare al brigantaggio il carattere di un movimento di classe », che si esprime in forme rozze, attraverso una nucrriglia, « priva di direzione centralizzata, per obiettivi limitati e con aspetti anarcoidi ». In esso « appaiono combinati inscindibilmente sia la protesta armata contro gli eccessi repressivi delle forze statali e contro i gravami imposti dallo Stato unitario (la coscrizione), sia l’uso della violenza armata per vendicare le sopraffazioni e i tradimenti dei ” galantuomini ” e, soprattutto, per estorcere ai proprietari una aliquota della rendita agraria, negata sistematicamente »\ Perciò i briganti perdono man mano l’appoggio della borghesia borbonizzante e di quella che inizialmente ha creduto di limitare i danni cedendo ai ricatti delle bande.
Per togliere al moto brigantesco la violenza della lotta di classe si sarebbero dovute prendere iniziative coraggiose, tendenti ad appagare la fame di terra dei contadini ed a migliorarne le condizioni di vita. Secondo Molfese, questa esigenza fu capita dai democratici meridionali, e prese corpo nelle proposte di Liborio Romano.
1 F. Molfese. Stori* iti bnt**t*wo dopo l’Unità. Feltrinelli. Milano 1964.
Questi, ministro nel periodo costituzionale di Francesco II e poi di Garibaldi, tornato alla direzione del dicastero dell’Interno nel gennaio *61 eoo la Luogotenenza Carignano, avrebbe avviato la ripresa delle quotizzazioni demaniali in favore dei contadini, avrebbe chiesto l’inizio di grandi lavori pubblici per lenire la miseria, avrebbe progettato il rafforzamento della Guardia Nazionale per ripristinare la tranquillità. Ma una politica rispondente alle aspettative delle masse, che avevano accolto con entusiasmo Garibaldi, non fu adottata dai moderati, i quali, anzitutto, si preoccuparono di eliminare ogni influenza garibaldina nella vita del Mezzogiorno, emarginarono i democratici allontanandoli dalle cariche pubbliche e dall’amministrazione, e sciolsero l’Esercito Meridionale, privandosi dell’appoggio della parte politicamente più impegnata della borghesia e di una forza militare necessaria a controllare il paese in un momento di transizione. Dimostrazione di miopia politica, perché « se i moderati settentrionali avessero avuto sufficiente lungimiranza (alcuni lo capirono, per vero. ma troppo tardi) da condizionare la loro solidarietà di classe, imponendo ai galantuomini il sacrificio (o anche soltanto la limitazione) di taluni loro iniqui privilegi economico-sociali: e se. oltre a ciò. avessero compreso, aldilà delle apparenze, la “ragionevolezza” dei demo* cratici e dei liberali meridionali, accontentandoli nelle loro aspirazioni fondamentali (impieghi, sviluppo economico, sicurezza pubblica). avrebbero grandemente esteso nel Mezzogiorno l’area del consenso alla loro direzione. In tal modo il fenomeno del brigantaggio sarebbe stato ridotto, la ripresa reazionaria sventata, e la costruzione dello Stato unitario nel Sud avrebbe poggiato su fondamenta molto più solide »2.
Passando dal terreno delle ipotesi («sempre largamente opinabili anche se suggestive ») all’analisi dei fatti, l’Autore osserva che « il successo finale arrise alla scelta dei moderati, ma i costi dell’operazione furono altissimi e, alla lunga, controperanti. sul piano politico e costituzionale. Infatti la repressione del brigantaggio concorse validamente ad imprimere fin dall’inizio all’apparato dello Stato unitario una impronta burocratico-poliziesca in funzione anti-contadina e anti popolare (a cui fece pendant la soluzione centralizzatrice), ed instaurò in esso la forte influenza del potere militare. Nell’ordinamento giuridico italiano venne introdotto l’istituto del confino di polizia per motivi politici, mentre la certezza del diritto pubblico veniva minata dalla legge non scrìtta della discriminazione politica anti-democratica »5.
2 Ivi, p. 405.
* Ivi, p. 407.
La Storia del brigantaggio dopo l’Unità fu accolta con molto interesse. Soprattutto apparve degno di nota il respiro politico dato all’opera. « Attraverso lo studio del fenomeno del brigantaggio — scrisse Alberto Aquarone — [Molfese] è riuscito a presentare al lettore uno spaccato quanto mai suggestivo della convulsa vita politica, economica e sociale del Mezzogiorno all’indomani dell’Unità, con tutti i suoi problemi, le sue lotte, le sue strozzature. E protagonista del libro, in un certo senso, non è tanto il brigantaggio, quanto la politica dei moderati nel Meridione, anzi, l’intera classe dirigente italiana post- unitaria, studiata attraverso il prisma del problema meridionale». A differenza di altri lavori privi di una organica e dialettica visione del fenomeno, afferma un altro recensore. Augusto Placanica, « l’opera di Molfese trascende il limite stesso del problema del brigantaggio e si inserisce, con una larga messe di documentazione, nel più ampio dibattito sui caratteri dell’unificazione e dei suoi limiti†.
Però proprio sulle tesi fondamentali sostenute dal Molfese venivano manifestate non poche perplessità, già in coincidenza con l’uscita del volume, perché l’Autore aveva anticipato le sue idee in alcuni articoli7. Riserve erano avanzate da Gaudio Pavone sulla personalità di Liborio Romano, esponente della vecchia classe dirigente borbonica piuttosto che della democrazia meridionale’. Più ampiamente furono riesaminate le tesi del Molfese in un volume di Alfonso Scirocco che ricostruiva analiticamente il periodo cruciale dell’unione tra Nord e Sud, il 1860-61. Dal ministero costituzionale di Francesco II al governo della Dittatura, alle Luogo- tenenze Farini, Carignano, Ponza di San Martino, Cialdini, erano esaminati i singoli momenti che avevano portato alla fine del Regno ed al progressivo svuotamento dell’autonomia napoletana, cessata dal 1‡ novembre 1861 Ne usciva documentata una crisi politico-economico-amministrativa più profonda di quanto si fosse fino allora creduto, cominciata prima dell’arrivo di Garibaldi, col crollo dell’assolutismo borbonico
* Ivi, p. 406.
* A. AQUARONE, recensione in « Rassegna Storica del Risorgimento », Lll (1965), fase. II;
A. PLACANICA, ree. in «Studi Storici», V (1964), n. 4.
* F. MOLFESE, Il brigantaggio meridionale post-unitario, in « Studi Storici». 1 (1959-60). n. 5, e II (1961). n. 2; Io.. Lo scioglimento dell’esercito meridionale garibaldino, «Nuova Rivista Storica
», 1960, n. 1.
* C Pavone, Amministrazione cenitele e amministrazione periferica da fanoni é Riccioli (1859-1866),
Ciotti*. Milano 1964, p. 113, nota 367.
‡ A. SCIROCCO. Governo e psese nel Mezzogiorno metti enti deH’unijica- zione [1860-1861). Giuffré, Milano 1963; nuova cda. lì Mezzogiorno mett* crisi dell’unificazione (1860-1861), Soderà Editrice Napoletana. Napoli 1*1. a coi faremo riferimento.
Ivi. in particolare p. 93 s. Sui veri obiettivi dei democratici meridionali negli «mì successivi al ’60 dr. anche A. SCIROCCO. Democrazie e socialismo a Napoli dopo l’Unità (1860-1878), Libreria Scientifica Editrice. Napoli 1973. capp. II e III.
11Sul piano di Liborio Romano cfr. A. Scirocco. Il Mezzogiorno netta crisi deU’unificazione, cit.,
Il Dittatore e poi i luogotenenti si erano trovati ad affrontare problemi gravissimi, e poco aiuto era venuto da Torino, perché anche il governo centrale si trovava di fronte a problemi non meno gravi, per le ripercussioni internazionali della costituzione del regno, per il deficit finanziario determinato dalla guerra del *59, dalle annessioni del ’59-’60, dalla campagna del ’60, per l’organizzazione dello Stato unitario. D’altra parte, anche se era vero che i moderati avevano sottovalutato nell’autunno ’60 l’ampiezza della crisi, si poteva costatare che pure i democratici non avevano una visione chiara delle esigenze del paese, e pensavano soprattutto a rilanciare l’iniziativa popolare per la liberazione di Roma e Venezia
Nei riguardi di Liborio Romano, lo Scirocco dimostrava che l’azione da lui tentata nel ’61 non era quella descritta dallo stesso nelle Memorie politiche (utilizzate ottimisticamente dal Molfese come una fonte imparziale), ma una manovra di ispirazione conservatrice: le quotizzazioni demaniali, mal viste dalla borghesia, invece di essere favorite erano state rinviate, per tacitare i contadini erano stati proposti lavori pubblici a carico dei comuni (già indebitati), per ristabilire l’ordine si era pensato di rinforzare la Guardia Nazionale, tutrice della proprietà, con lavoratori salariati! Un programma mal congegnato, che non ebbe attuazione, se non nel rinvio delle quotizzazioni 11 riduttivo giudizio sull’operato del Romano, la cui validità appariva evidente u, indeboliva di molto la tesi delTaltemativa democratica sostenuta dal Molfese. D’altra parte, si chiedeva l’Aliberti, era «ammissibile sul piano storiografico giudicare la politica meridionalistica dei moderati isolandola
cap. Ili, in particolare p. 151 ss.
u Cfr., tra gli altri, A. AQUARONE, ree. ci/.; G. CANDELORO. Storia dell’Italia moderna, voi. V, Feltrinelli, Milano 1968, p. 165.
dal contesto generale in cui essa nacque e si sviluppò? Che la Destra Storica fosse socialmente moderata è un fatto che nessuno può mettere in dubbio, ma questo moderatismo è semplicisticamente riconducibile ad una scelta di classe, o non piuttosto ad una complessa serie di cause (rapporti con la Francia, questione romana, precarietà dell’equilibrio politico raggiunto nel Sud del paese, necessità di non turbare quei rapporti intemazionali che avevano reso possibile la soluzione della questione italiana), caute che la Destra non aveva certo create, ma di cui non poteva non tenere conto? Queste cause comunque possono anche essere non studiate o chiarificare da dii si occupa del brigantaggio post-unitario, ma in nessun caso possono essere ignorate *u.
Per esempio, è opportuno sottolineare che la scelta dell’accentramento (come hanno dimostrato il Pavone e lo Scirocco) fu determinata da ragioni di politica intemazionale, dall’esigenza di dimostrare a Napoleone III ed all’Europa che nel giovane Stato non esistevano spinte centrifughe capaci di minarne la compattezza. In effetti, sostiene 3 recensore, Molfese vede che la politica dei moderati dovrebbe essere esaminata nei suoi molteplici aspetti, nei suoi fattori causali, all’interno del contesto storico da cui scaturì, ma, condizionato dagli schemi della storiografia marxista, non svolge la sua disamina con l’ampiezza necessaria. « In altri termini Molfese ha chiaramente individuato che il brigantaggio non fu soltanto una reazione lout court alla politica dei moderati, frutto del prevalere dei circoli militaristici piemontesi o del timore di una ripresa nel Sud del ” garibaldinismo “, ma qualcosa di più complesso non riconducibile semplicisticamente ad un mero conflitto di classe fra ” galantuomini ” e ” cafoni Molfese, però, non sviluppa esaurientemente quest’ultimo e non secondario aspetto della questione, che rimane, per così dire, sul fondo dell’intera opera, laddove, a nostro avviso, esso doveva costituire il centro »M.
* * *
Dal volume del Molfese e dal dibattito che da esso prese spunto emergevano problemi di peso non lieve: l’insufficienza della visione con cui avevano operato i moderati e le ragioni di certe scelte, la reale consistenza dell’alternativa democratica, la governa- Miti di forze garibaldine ai fini del consolidamento deU’ordine.
L’ottica in cui si muovevano gli studiosi era prevalentemente politica. I moti reazionari e briganteschi erano visti dall’esterno, nel senso che la loro ricostruzione si basava sulle fonti tradizionali, « borghesi », note da tempo, o anche inedite, come i verbali della commissione di inchiesta sul brigantaggio, che nelle deposizioni registravano pur sempre le opinioni di proprietari, funzionari statali, notabili locali.
Su questa base i temi indicati furono ripresi ed approfonditi negli anni successivi. In un convegno tenuto nel settembre del 1974, il Molfese ribadì le affermazioni fatte nel suo volume, Io Scirocco ed il Rumi rivolsero l’attenzione ai giudizi sul brigantaggio della stampa contemporanea, mostrando come fosse sotto- valutato e mal compreso il fenomeno da parte della classe dirigente. Che questa poi avesse delle incertezze e commettesse degli errori, è cosa comprensibile, notava Emilia Morelli, perché si trovava di fronte a problemi secolari, che richiedevano interventi a sfondo sociale di largo respiro, non compatibili con l’urgenza del momento u.
Sull’argomento è tornato ancora lo Scirocco, riesaminando la repressione attuata nel Mezzogiorno nel 1862 in occasione dello stato d’assedio, e nel ’63- ’65 con la legge Pica. L’Autore mostra come sia insistente la richiesta di misure eccezionali da parte della borghesia e delle autorità locali, anche se non sfugge agli osservatori più avveduti la componente sociale del problema; ridimensiona, dissentendo dal Molfese, il ruolo svolto dalla Sinistra nell’inchiesta parlamentare; ricostruisce con precisione l’azione per il Mezzogiorno del ministero Farini-Minghetti, ispirata da Silvio Spaventa, segretario generale per l’Interno, che punta sull’efficienza dell’amministrazione e sul coinvolgimento delle popolazioni: un piano fallito sul nascere, perché boicottato dai militari, che impongono una strategia fondata esclusivamente sull’esercitoM.
Il quadro dei rapporti tra governo, Parlamento, gerarchie militari, magistratura, prefetti, esponenti della borghesia agraria, è molto più complesso di quello che si è creduto, e non mancano contrasti vivaci. Lo ha documentato di recente un attento lavoro di Roberto Martucci “,
i* Gli atti del convegno, riguardarne il brigantaggio meridionale dal Medio Evo al tardo Ottocento, tenuto nel settembre 1974, sono in « Archivio Storico per la Calabria e la Lucania». XLII (1975).
i* A. Scirocco, 11 Mezzogiorno nell’Italia unti* (1861-1965), Società Editrice Napoletana, Napoli 1979, in particolare capp. Ili e IV.
in cui si ripercorre Vi ter attraverso il quale al Mezzogiorno dopo l’Unità si impone di diritto, e in molti casi solo di fatto, una legislazione eccezionale, in parte ispirata (e l’osservazione è importante, perché chiama in causa la responsabilità della dasse dirigente meridionale) a leggi e prassi dell’assolutismo borbonico. In un primo tempo l’esercito agisce con metodi arbitrari ed illegali, agevolato dallo stato di guerra nel ’60, dalle circostanze critiche durante la Luogotenenza Caldini nell’estate ’61, dallo stato d’assedio nell’estate ’62, mentre la magistratura, col solo rispetto delle forme legali che impediscono la convalida di arresti di individui sospetti e la detenzione per motivi precauzionali di imputati assolti, sembra ostacolare il ristabilimento dell’ordine pubblico. Dalla necessiti di coprire con una normativa giuridica la realtà degli arbitrii nascono le iniziative legislative che si accompagnano alla relazione della Commissione parlamentare c sboccano nella legge Pica.
Con questa il problema non si esaurisce. Da una parte il Parlamento tende a contenerne l’applicazione nei limiti di tempo inizialmente stabiliti (e concederà proroghe fino alla fine del ’65 con riluttanza e con l’introduzione di norme restrittive) e la magistratura si preoccupa di circoscriverne l’applicazione ai casi in essa contemplati; dall’altra le autorità militari impegnate nella lotta senza quartiere cercano di estendere i loro poteri continuando ad applicare misure arbitrarie, quali l’arresto di sospetti manutengoli e di parenti <£ banditi, ed il mancato deferimento ai tribunali degli arrestati, trattenuti a tempo indeterminato. £ un modo di esercitare pressione sui contadini e convincerli della necessità di cooperare alla distruzione del brigantaggio; ma quando il generale Pallavicini mette a stampa istruzioni di tale tenore, la magistratura non può tacere il suo dissenso. Come non è facile la gestione della legge Pica, per le stesse ragioni non risulta facile la sua liquidazione. La fine del regime eccezionale comporta l’insorgere di un delicato conflitto tra giurisdizione militare e giurisdizione ordinaria, che ri conclude con la dichiarazione di competenza della Corte di Cassazione ad esaminare i ricorsi contro le sentenze pronunziate per i fatti di brigantaggio.
Anche restando nell’ottica tradizionale dell’azione svolta dal «potere» c’è ancora, quindi, molto da precisare, cosi come con- tributi inattesi vengono da fonti straniere, finora non considerate
. ,7„R- Emergenza e tutela dell’ordine pubblico nell’Italia libe rde. 11 Mulino. Bologna 1980.
o malamente sfruttate. È il caso della partecipazione alla lotta contro lo Stato unitario dei legittimisti europei.
Aldo Albonico, in un volume ricco di documenti tratti da archivi spagnoli, italiani e vaticani, bene utilizzati in una narrazione organica, allarga gli orizzonti tradizionali studiando l’aiuto dato dalla Spagna e dai legittimisti spagnoli alla causa borbonica u. Il deludente bilancio finale conferma
l’isolamento della caduta dinastia e le scarse possibilità di riscossa: l’appoggio del governo spagnolo è solo formale, troppi tra i legittimisti che accorrono a Roma sono avventurieri, le bande indigene sono interessate più al brigantaggio che alla guerriglia Dall’ampia ed articolata ricostruzione risultano anche gli eccessi e gli arbitrii della repressione: un quadro che induce a maggiori cautele nei giudizi sui protagonisti ai vari livelli delle aggrovigliate vicende.
* * *
Una cautela da cui volle discostarsi una serie di scrittori animati da intenti politici, che intendevano rivedere le vicende del brigantaggio come momento del ribellismo contadino. Per Renzo Del Carria « occorre esaminare criticamente la storia contemporanca italiana a rovescio, partendo nell’indagine dal punto di vista organico delle classi subalterne » 30. Da questo punto di vista per l’Autore nel ’60 si leva nel Mezzogiorno una guerra, che divampa per un anno con la caratteristica di larghe insurrezioni di masse e nel successivo triennio diventa una vera e propria guerra contadina per bande: essa pur apparendo, per i collegamenti con la Chiesa, e con l’assolutismo, l’ultima lotta repressiva e codina, è soprattutto «la prima delle lotte economico-politico-sociali combattuta dalle classi subordinate in Italia dopo l’Unità ». Lotta destinata alla sconfitta, perché i contadini non compresero (ma come l’avrebbero potuto?) di combattere non più contro la borghesia locale, bensì « contro uno Stato nazionale unitario, frutto ed ancor più molla del mercato unico nazionale, contro una borghesia che si stava unificando dalle Alpi alla Sicilia, contro una sorgente burocrazia unitaria ed un esercito nazionale: lottavano, cioè, contro uno Stato borghese moderno ».
M A. Albonico, La mobilitazione legitlimisiice contro il regno d’Italia: la Spagna e il brigantaggio meridionale postunitario. Giuffrtf, Milano 1979.
w Cfr. M. FBrri – D. Celestino, Il brigante Chiavone. Storia della guerriglia filoborbonica alla frontiera pontificia (1860-1862), Ediz. Cominium. Ca- snlvicri 1984, allento esame dell’azione del famoso capobanda.
w R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione. Storia delle classi subalterne in Italia, voi. I (1860-1892), I
ediz. Milano 1966, II ediz. Savelli. Roma 1975.
Questa « limitatezza di orizzonti » è, per l’Autore, la causa della sconfitta: ma, didimo noi, è la ragione per cui la rivolta non va al di li della reazione filo-borbonica nei primi mesi, e scade subito dopo a brigantaggio, cioè ad azione di bande non collegate, che rapinano e uccidono spinte dalla miseria e dalla disperazione, senza la coscienza di fini politici o sociali. E, d’altra parte, dall’inizio dell’Ottocento il brigantaggio come fenomeno diffuso e ricorrente nella penisola si è gii trovato contro Stati centralizzati « moderni », rigidi tutori della proprieti. Perciò non risultano convincenti gli altri tentativi di collegare col bri* vantaggio in una visione organica i problemi politico-economico- amministrativi affrontati negli anni dell’unificazione. Se, infatti, si può accettare che esso fu « una lunghissima guerra contadina », non si dimostra in che modo «gli effetti e i risultati di questa lotta, che vede coinvolta la popolazione tutta del Mezzogiorno — come sembra alla Cutrufelli —, furono determinanti nel definire il ruolo deH’Italia meridionale nell’Italia unita »>i.
In effetti, è giusto chiedere una ricostruzione storica più comprensiva che renda conto delle « ragioni » del brigantaggio post-unitario: tuttavia in concreto è difficile dare peso « politico » a queste ragioni, che ebbero radici in motivazioni confuse e trovarono espressione in una violenza non costruttiva. Resta tutto da dimostrare che anche in assenza della utilizzazione fatta dai Borboni «il brigantaggio come moto sociale avrebbe preso corpo e consistenza e… avrebbe mostrato il suo vero volto di rivoluzione sociale coscientemente perseguita, ma inquinata da alcuni protagonisti, incompleta nella sua distribuzione territoriale, stravolta dalle interpretazioni e mancata nella sua realizzazione finale »: come dice Ireneo Principe, con un giudizio in cui la seconda parte confuta la prima. Del resto lo stesso Autore afferma che, « in conclusione, non è ancora certo se il brigantaggio sia stato oppure no un auten- tico movimento di classe, e su questo l’accordo è pacifico * (sk!)0.
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Per altri motivi l’ampia ricostruzione del Molfese, benché giudicata l’unico contributo notevole portato negli ultimi anni agli studi sul brigantaggio, non appare soddisfacente ad Aldo De Jaco.
21 M.R. Cutrufelli, L’uniti d’Italia. Guerra contadina e nasata del sottosviluppo nel Sud.
Beruni, Verona 1974, p. 14.
a I- Principe, L’ultima plebe. Contributi per la noria del brigantaggio calabrese.
Chiaravalle Centrale 1977. pp. 14 e 17.
«Si tratta — egli osserva — essenzialmente di una documentatissima storia diplomatico-militare dell’azione del governo piemontese nel periodo del brigantaggio, delle discussioni parlamentari, dell’opera del Cavour e dei suoi successori, dei discorsi dell’opposizione democratica, dell’azione dell’esercito nel Sud. Vi sono anche largamente e giustamente definite le attività del brigantaggio, il suo carattere e le sue origini sociali, nonché il rapporto con le centrali anti-unitarie di Roma; resta però impreciso il volto del brigante, della gran massa dei manutengoli, dei reazionari, degli sbandati, nonché dei loro capi contadini, restano nascoste le ragioni umane che li spingono allo sfascio. Inoltre ci sembra che l’autore rimanga in qualche parte irretito dalla logica stessa — se non dalla fatalità — degli avvenimenti, in particolare del successo del tessitore (e dei suoi successori) nel realizzare la egemonia — così scarsamente contrastata del resto — di una classe dirigente a orientamento moderato. Sicché il brigante resta — in definitiva — ancora confinato nel fondo del panorama, elemento di natura più che di storia
Per mettere il brigante al centro dell’indagine, per vederne il volto, il De Jaco presenta una raccolta di documenti: ma il lettore si trova davanti brani della relazione Massari, discorsi tenuti alla Camera, verbali di processi, relazioni ufficiali, pagine delle memorie di militari e delle ricostruzioni di « borghesi » come Marc Monnier e Riviello; poche le lettere sequestrate ai briganti e le pagine tratte dalle memorie di Crocco (che poi sono narrazioni di imprese e descrizione della tecnica di lotta, non rivelazioni di stati d’animo o di concezioni di vita).
Troppo poco per darci la fisionomia del brigante, per permetterci di dargli una collocazione specifica nella società meridionale. Si sa quanto sia difficile fare delle classi subalterne il centro dell’indagine storica. La difficoltà è ancora maggiore per il brigante, che si identifica da una parte col contadino, col bracciante, col pastore, dall’altra col grassatore, col ladro, col ricattatore. Privo di cultura, incapace di dare una ragione « politica » alla sua ribellione, il cafone diventato brigante può testimoniare l’insofferenza all’ingiustizia sociale, ma non può sollevarsi alla coscienza della rivoluzione. E senza la consapevolezza di fini che trascendano la semplice violenza, il brigante non può avere che un ruolo secondario
21 A. De Jaco, Il brigantaggio meridionale. Cronaca inedita dell’uniti d’Italia, Editori Riuniti, Roma 1969.
nella visione sconca, necessariamente dominata dalle fon* capaci di costruire, sia pure secondo interessi ben determinati.
L’esigenza di un discorso storico che superi la schematica contrapposizione di briganti e galantuomini ed eviri di esaurirsi in generiche constatazioni dell’ampiezza e dell’importanza del fenomeno † ha consigliato l’opposta via dell’analisi minuziosa dei fatti, con una fioritura di studi «locali», talvolta veramente interessanti. Archivi comunali, provinciali, vescovili, parrocchiali, conventuali, privati, offrono documenti di ogni genere. In particolare gli incartamenti processuali contengono relazioni di autorità civili e militari, verbali di interrogatori e deposizioni, documenti anagrafici, manifesti, lettere, biglietti di ricatto: una massa di notizie su fatti e persone, sulla partecipazione agli avvenimenti di borghesi e contadini, sulla coloritura politica o sociale dei moti; talvolta risultano lumeggiati l’ambiente in cui il brigante .vive e le difficoltà della sua esistenza quotidiana. Spesso gli istituti culturali si sono fatti direttamente promotori di mostre documentarie, che, mentre illustrano i problemi ad un pubblico più vasto, segnalano agli specialisti fondi da poco ordinati, documentazioni a volte insospettate *.
L’ottica dei lavori « locali » non è sempre uguale, e lo spirito che anima gli studiosi di memorie patrie non è sempre scevro dì simpatie e nostalgie per la caduta dinastia e per il mondo contadino che ne) vuoto di potere si illude di trovare con la fona la soluzione dei suoi antichi mali. Lo nociamo in un volume del Bo- nanni, che riguarda solo marginalmente il brigantaggio, in quanto ricostruisce gli avvenimenti del Teramano tra il ’60 ed il *61, con particolare attenzione alla difesa di Gvitdla del Tronto: il disordine c grande, garibaldini e liberali unitari, in contrasto tra loco, sono in varie occasioni sopraffatti dai borbonici e devono la salvezza all’esercito sabaudo, i legittimisti si battono e muoiono coraggiosamente.
Sono mesi di tenore e di violenze: sono anche, però i mesi dell’organizzazione del nuovo Stato, cosa di cui l’Autore pare non avvedersi
Altro respiro e più larga problematica troviamo nel volume di Pasquale Soccio su San Marco in Lamis negli anni dell’unificazione: liberali e reazionari, galantuomini e contadini, militari e briganti sono disegnati con precisione; è seguita l’azione degli amministratori e sono illustrati i motivi che impediscono di prevenire le sommosse; lo sfondo economico che spiega vecchie e nuove tensioni sociali è adeguatamente tratteggiato; trovano spiegazione gli orrori della rivolta popolare, l’ingrossarsi delle bande brigantesche e la durezza della repressione. Il piccolo osservatorio di una cittadina garganica ci fa comprendere quanto fossero profondi i contrasti di classe nel Mezzogiorno preunitario, quanto fossero violente le passioni messe in moto dalla crisi del ’60 e quanto fosse difficile per il governo italiano trovare la soluzione di problemi che i Borboni in decenni di regno non erano riusciti a padroneggiare27.
Rivolti principalmente al brigantaggio, con scarsa attenzione all’operato del governo e della borghesia locale sono due lavori di Carella e di Sarego. Il primo ha studiato il brigantaggio nel Brindisino.
* Ad «■-•POMatìoye polemica del problema indulge T. Peno. Brit*n- légpo e quattone merUiomde. a cura e eoo introduz. di M. Sc*cnoktti. Le- vinte. Bari 1979.
u ? ***”■ AKhhrio di Stato di Foggia. 1860-1870. I prò-
Urm Capiitnattf F<*gia 1983; Archivio di Stato di Campo-
È osservazione degna di nota che il brigantaggio in questa provincia, pianeggiante e poco adatta alla guerriglia, fu « importato » nel settembre 1862 dal sergente Romano, un capobanda già affermatosi nel Barese, e fu distrutto in pochi mesi, dopo aver fatto, però, danni ingenti. Obiettivi preferiti dalle bande furono le masserie, isolate, ricche di viveri e di animali, non difese dai contadini, i quali non si sentivano solidali coi padroni.
Il Carella fornisce cenni biografici sui principali briganti della zona, quindi ricostruisce, soprattutto servendosi di carte processuali, le imprese banditesche, con interessanti particolari sulle tecniche usate dai fuori legge, sui rapporti coi proprietari e con i contadini, sugli aiuti ricevuti, sui contrasti che dividono talvolta gli stessi banditi
Più esteso nel tempo il brigantaggio nel Cicolano, una zona che nell’Ottocento faceva parte del distretto di Cittaducale negli Abruzzi: un territorio di collegamento tra dominio italiano e Stato
Mol,teIM0- l Pom MtVmi/i, Campobasso 1983.
* E. BONANNI. La guerra civile nell’Abruzzo Teramano. 1S60-1S61, Eco. San Gabriele di Teramo 1974.
” P. Soccio, Unitàe brigantaggio in una città della Puglia, ESI, Napoli 1969.- . ^
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28 V. CARELLA, Il brigantaggio politico nel Brindisino dopo l’Unità, Grafi- schena. Fasano 1974.
pontificio, per questo luogo di raccolta e di transito delle bande. Il Sarego tratteggia in una prima parte gli episodi reazionari del ’60 e del ’61, e la formazione di grosse bande nel ’62-’63; in una seconda parte trascrive documenti rilasciati da quelli che si costituirono « capi » della riscossa borbonica, i biglietti di ricatto, elenca i fatti briganteschi dal ’61 al ’67, presenta i profili biografici dei principali briganti2’. L’Autore mette a disposizione degli studiosi un’autentica ampia massa di materiale, illustrata da note precise: l’inquadramento politico è esaurito in poche pagine, i collegamenti con le condizioni del paese sono tralasciati.
Pregio di lavori come questo30, dedicati ad una zona ristretta c prevalentemente documentari, è il contributo di archivi minori, in cui possono essere rintracciati documenti poco noti, che fanno conoscere nei particolari come si attuò la repressione (bandi, circolari, relazioni di autorità periferiche), come fu avvertito il peso del brigantaggio (lettere e proteste di proprietari), come agirono le bande nei singoli posti (biglietti di ricatto, lettere minatorie). Il loro limite consiste nella ripetitività di documenti, magari inediti. ma relativi ad aspetti del fenomeno già sufficientemente illustrati. Più utile, talvolta, dal punto di vista documentario, può apparire il recupero dei resoconti giornalistici contemporanei, ricchi di particolari su fatti e retroscena e di commenti indicativi della mentalità della classe dirigente provinciale11.
Da questa rassegna emerge un’assenza. Il richiamo di Hob-sbawm sulla diffusione non solo italiana del banditismo sociale, espressione del ribellismo endemico delle società rurali, è stato praticamente ignorato, e non sono state tenute adeguatamente presenti le sue considerazioni sulle caratteristiche comuni nel tempo e nello spazio di certe forme di rivolta contadina0.
Non si tratta, ovviamente, di applicare meccanicamente alla realtà del Mezzogiorno la tipologia del brigante indicata da Hob-
» L. Sauco. Razione e brig.antau.io nel Cicolano (1860-1871), Il Ve- lino. Rieti 1976.
* Ricordiamo anche M. Giamecna, Brighili moli uni. Casa molisana del libro. Campobouo. 1969; L. Sancitolo. Il britfntawo urli* Provincia di Benevento (1860-1880), De Martino, Benevento uà. (ma 1973).
* Cff. V. PADDI A. Cronachede! brigantaggio in Calabria. 1864-1865. a cura di A. Piromallo c D. Scafoglio, Athcna. Napoli 1974.
“ E-J. HonsBAWM. / banditi. Il banditismo sociale nell’età moderna, «rad. il Einaudi. Torino
1971.
sbawm o altri schemi ricavati dallo studio comparato del fenomeno in tempi e paesi diversi. La lezione di Hobsbawm deve indurre, piuttosto, a collocare il brigantaggio meridionale post-unitario nel contesto del brigantaggio italiano delPOttocento, con particolare riguardo allo stesso Mezzogiorno borbonico, e ad esaminare l’effettiva integrazione del brigantaggio con l’ambiente in cui esso nasce e persiste.
Non è senza importanza rilevare quanto il brigantaggio sia diffuso nell’Italia preunitaria e come sia difficile estirparlo. Nel Piemonte scompare dopo gli anni tormentati dell’occupazione francese, nel Basso Lazio il restaurato governo pontificio lotta per dieci anni prima di eliminare le bande annidate sulle montagne, ma lo stesso governo non riesce ad avere ragione dei briganti romagnoli, ancora in armi negli anni dell’unificazione, né risultati migliori ottiene il più efficiente governo austriaco, che riesce a domare il banditismo solo nel ’50, o il governo borbonico, che ripetutamente fino al ’60, è costretto ad intervenire contro il risorgente brigantaggio calabrese. Dovunque i mezzi ordinari di cui dispone lo Stato assoluto per mantenere la tranquillità si rivelano inefficaci, ed i governanti sono costretti ad adottare misure eccezionali o a profittare dello stato d’assedio promulgato per altre ragioni (per esempio nel ’48 a causa della guerra)w: come farà dopo il ’60 nel Mezzogiorno il governo italiano, con metodi che si riallacciano all’esperienza pre-unitaria, e che perciò vanno valutati in un’ottica più ampia.
Un’ottica che tenga conto delle cause sociali ed ambientali che, per esempio, in Calabria favoriscono lo stesso tipo di reati prima e dopo l’Unità5*. Non basta denunciare genericamente la questione demaniale o la povertà dei contadini. I briganti non appoggiano i moti per le terre o contro le gabelle, le bande non si formano in tutte le zone del paese, in alcune province sono rapidamente eliminate o vivono stentatamente, in altre sono numerose e vigorose: ci sono ragioni geografiche, opportunità ambientali, disponibilità legate alla « cultura » contadina, che vanno esaminate nella loro valenza e nella loro interazione, così come vanno definiti i dati sulla consistenza delle bande, sull’età, sulla provenienza,
w Cfr. A. SCIROCCO, Brigami e poltre néll’Ottoeenio in Italia: i modi della repressione, «Archivio Storico per la Calabria e la Lucania*, XLVIII (1981). . ,
M Cfr. F. GAUDIOSO, Orientamenti per una storia del brigantaggio postimi- tario nella provincia di Cosenza, «Calabria Contemporanca» XIV (1974), n. }.
sul mestiere di quelli che si danno alla campagna, ed approfonditi i legami con le zone in cui le bande operano e le complicità di cui godono.
Inquadrato nell’ambito più vasto dell’Italia pre-unitaria e di tutta la dominazione borbonica, arricchito dai risultati di un’attenta analisi sociologica, anche il giudizio politico su quello che rappresenta per il Mezzogiorno il brigantaggio post-unitario potrà essere meglio articolato.
ALFONSO SCIROCCO