LE DONNE DEL BRIGANTAGGIO | 7° episodio
‘A PACCHIANOTTA.
di Valentino Romano *
Nell’universo delle “donne del brigantaggio”, tra realtà e fantasia, s’aggira la figura evanescente di una di esse: Mariannina Corfù, detta ‘a pacchianotta.
La memoria di questa donna è affidata unicamente a Jacopo Gelli, sulla cui attendibilità storica è meglio far scendere un pietoso velo: egli scrive che è “incerto addirittura il cognome” della brigantessa. Gelli ne avrebbe avuto notizie consultando i documenti del Tristany e quelli del suo segretario Scordino: avrebbe trovato anche una foto della donna, sul cui retro era scritto “Marianna Aligiera o Alighieri, amante di Michele Caruso”. Per inciso, giusto per offrire un esempio dell’attendibilità del Gelli, la foto riprodotta dallo stesso autore a pagina 176 del suo lavoro è invece quella di Maria Oliverio. Tanto, però, gli bastò per imbastire un’altra truculenta leggenda da dare in pasto ai suoi lettori, avidi di storie in cui si miscelavano sanguinarie violenze e libidinosi amori. Il romanziere di Orbetello attribuisce a Mariannina, ça va sans dire, una vita avventurosa; in sopraggiunta, tanto per non farsi mancare nulla, precisa che la brigantessa avrebbe “consolato tanto il Caruso quanto Ninco Nanco”. Un altro, tra i tanti, luoghi comuni: tutte queste donne, secondo Gelli, De Witt e (squallida) compagnia sarebbero allegramente saltate da un giaciglio all’altro. Il che, a prescindere dal giudizio negativo su queste donne che ne discenderebbe, ci porterebbe a pensare che la loro prevalente attività brigantesca sarebbe stata, come dire, l’ars amatoria. Ma il luogo comune di questa loro eccessiva “disponibilità” era ed è funzionale alla deprivazione della dignità e all’immiserimento della dolorosa scelta della via della macchia.
Gelli si scopre anche fine psicologo, attento a scavare nell’animo umano. Così s’interroga retoricamente sulle cause del tradimento di Mariannina che avrebbe fatto catturare Michele Caruso: “Quello che rimane indecifrabile e il mistero che tuttora avvolge l’anima di lei e la indusse a lasciare catturare dalla forza italiana il suo Sansone (Caruso) Fu gelosia, fu denaro? Fu stanchezza della vita travagliata di pericoli? Fu come pare vendetta. Il feroce Caruso fu, alla fine, catturato e al sacerdote che gli chiedeva se volesse svelare il luogo dove gli diceva di aver sotterrato i frutti delle sue rapine, rammentando che i due figlioletti avuti dalla Mariannina erano privi di tutto e nella più grande miseria e da tutti scacciati il brigante avrebbe risposto che ci avrebbe riflettuto. Pochi momenti prima di essere condotto al luogo della fucilazione fece chiamare il sacerdote e gli indicò con precisione ove trovavasi seppellito il famoso tesoro. Deposto il cadavere di Caruso nella fossa, il sacerdote con l’aiuto di soldati andò al luogo indicatogli; e scavò ai piedi di un grosso albero. Alla profondità di circa un metro trovò uno scheletro, che dall’abito non ancora completamente distrutto dallumidità fu riconosciuto per quello del padre della Mariannina, scomparso da alcuni mesi”. Non è improbabile – ipotizza il Gelli – che la cattura del Caruso fosse stata predisposta dalla sua amante, Mariannina per vendicare l’uccisione del padre. L’odio più forte dell’amore!”
Inutile precisare come la fantasiosa ricostruzione del Gelli non trovi alcun riscontro con la realtà. Michele Caruso fu effettivamente tradito da una donna che si chiamava, però, Filomena Ciccaglione: era – come correttamente ricostruisce Luisa Sangiuolo, desumendo le notizie dalle fonti archivistiche (Tribunale Militare di Guerra di Caserta e dalla tradizione orale – figlia di un contadino di Decorata, frazione di Colle Sannita, che fu ucciso dal Caruso nel settembre del 1863; il mese successivo Caruso rapì e violentò la fanciulla, costringendola a seguirla. Filomena maturò il proposito della vendetta che si concretizzò poco dopo: Caruso dispersa la banda e catturati molti suoi componenti, si era rifugiato in un pagliaio di Molinara, dove era arrivata Filomena. La donna, però aveva, trovato modo di avvertire le autorità e cosi il 13 dicembre del 1863, un drappello di guardie nazionali circondò il rifugio e catturò il brigante. Caruso non rivelò alcun nascondiglio del suo ipotetico tesoro: si sarebbe limitato, prima della fucilazione a rispondere sarcasticamente con un semplice “scavate, scavate …”.
In tempi più recenti per il Di Matteo, che al Gelli attinge abbondantemente, Marianna sarebbe stata la moglie di un impiegato del tribunale che la tormentava con scenate di gelosia: armatasi di uno spillone, lo avrebbe conficcato nel collo del marito, uccidendola.
È inutile precisare come si confonda il tutto con la leggenda che accompagna la ricostruzione (si fa per dire) della biografia di Filomena Pennacchio, anch’essa additata come … una “specialista” dello spillone!
In pratica sull’esistenza stessa della “Pacchianotta” non se ne sa nulla. Potrebbe anche non essere esistita ed essere soltanto il parto della penna pruriginosa del Gelli.
E allora perché ne parliamo?
Perché, “’a Pacchianotta”, persona reale o fantasma letterario che sia, è, suo malgrado, paradigma della lettura ricorrente delle vicende umane delle donne tutte del brigantaggio: creature di quell’orrido che, da un lato muove alla ripulsa dei perbenisti e, dall’altro, ne solletica la morbosità; amorazzi libidinosi, violenze sanguinarie, vendette feroci. Tutto ciò, insomma, che si può raschiare dal fondo del barile di quella bestialità nella quale – ad ogni costo – si vuole far sprofondare queste donne e il loro dramma esistenziale: lo stigma deve essere totale, irreversibile. E, per raggiungere l’obiettivo, cosa c’è di meglio che sostituire la realtà con la fantasia?
Bisogna parlarne allora, bisogna rileggere attentamente gli scritti di questi creatori di mostri in gonnella. Proprio per potere, a nostra volta, stigmatizzare …lo stigma, tutti gli stigmi che, ancora oggi, vilipendono queste poveracce.
* Promotore Carta di Venosa