“Senza tocco di campane” di Giuseppe Gangemi

“Senza tocco di campane” di Giuseppe Gangemi nella lettura di Fernando Di Mieri

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È ora in libreria il terzo volume[i] della trilogia che Giuseppe Gangemi ha dedicato ad un’autentica controstoria di quanto accaduto nel Sud durante il periodo immediatamente postunitario. Nel primo (Stato carnefice o uomo delinquente?) dei due volumi precedenti aveva affrontato il pensiero e l’azione di quel Cesare Lombroso, vero teorico della presunta e antiscientifica atavica inferiorità meridionale, mentre nel secondo (In punta di baionetta) si era occupato delle vittime civili obliate nell’Archivio di Stato di Torino.

In questa terza pubblicazione Gangemi tratta, come recita il sottotitolo, dei civili trucidati e di cui abitualmente si tace. Ovvero, quando proprio non si riesce, si cerca di sminuire nel numero e di gravare nelle responsabilità al punto di precipitare nell’ignominia, pur di tenere ancora credibili certe ricostruzioni artificiose a sostegno di maschere oleografiche della realtà. Un orrore che neanche centosessant’anni, o giù di lì, riescono a far notare neanche ad autori che per altri versi spesso nulla hanno a che fare con l’ideale risorgimentale, ma che proseguono imperterriti un’operazione mistificatrice, mettendo con ciò in discussione il fine stesso del lavoro dello storico, che, almeno a tale distanza temporale, dovrebbe sentirsi più libero di abbandonare le posizioni preconcette ad uso proprio del vincitore.

Giuseppe Gangemi, già docente di Metodologia e Tecniche della Ricerca Sociale presso l’Università di Padova, nel libro che qui presento ancora una volta applica il suo metodo di base, ponendosi dinanzi ai fatti sempre con grande rigore in vista della ricostruzione dei fatti medesimi. Egli non si nasconde alcun riferimento, ma ogni documento sottopone ad una serrata analisi in termini di plausibilità, coerenza con il contesto dei fatti e delle situazioni. E tutto ciò rende testimone vivo quello che sarebbe altrimenti un semplice diario, una scheda d’archivio, una vecchia ricostruzione. Muovendosi su queste linee metodologiche, passando ancora lunghi periodi negli archivi, valorizzando gli spesso negletti ricercatori locali (quelli che con certosina pazienza si recano quotidianamente negli archivi, raccolgono antiche memorie, conoscono luoghi), Gangemi, in circa quattrocento fitte pagine, riesce a ricostruire con altissima plausibilità accadimenti controversi, spesso ribaltando opinioni consolidate nel nostro immaginario o acquisizioni di una storiografia recente che talvolta, pur espressione di accademici,  manco si preoccupa di mantenere quei livelli minimi di scientificità che proprio l’appartenenza al mondo accademico richiederebbe.

La differenza rispetto ad una storiografia ideologizzata risulta evidente e difficilmente contestabile. È bene dire subito quello che va riconosciuto: a proposito degli argomenti toccati, Gangemi ha argomentato tesi che renderanno difficile, e credo per un tempo piuttosto lungo, ad ogni ricercatore non tenerle nella giusta considerazione. Chiunque vorrà parlare dell’azione garibaldina in Sicilia, della strage di Pontelandolfo, delle rivolte siciliane o di quanto ha significato la legge Pica per le popolazioni meridionali interessate (e tanto altro), dovrà necessariamente confrontarsi con quanto Gangemi ha scritto in questo libro.

Non è possibile dar conto di tutta la sua ricchezza documentaria e della sua forza interpretativa, per cui mi limiterò ad esporre il modo di procedere di Gangemi accennando ad un solo caso, la strage di Pontelandolfo (14 agosto 1861 e settimane successive), che, com’è noto, si cerca di diminuire, da parte di accademici di successo e no, nella sua portata di ferocia. Tuttavia, nulla possono contro un’intelligente lettura della documentazione ancora disponibile. È impossibile continuare a sostenere che i civili vittime della violenza sabauda che si abbatte su Pontelandolfo si limitino a tredici (un numero che comunque non avrebbe dovuto esserci), come ostinatamente si vuol insistere da parte di taluni custodi dell’illibatezza risorgimentale. Non possono essere tredici già per intuito, perché quell’azione è la rappresaglia per la morte di quarantadue militari. E, si sa, le rappresaglie non mirano mai a creare solo danni materiali (l’incendio di gran parte del paese), ma devono moltiplicare di un numero variabile quello dei morti subiti. Già questo deve farci guardare con sospetto a certe ricostruzioni, la cui parzialità balza evidente agli occhi. Per procedere adeguatamente e cogliere la verità storica (per quel ch’è possibile) nella varietà dei suoi aspetti è necessario un approccio “sistemico”, che prenda in esame tutte le fonti possibilmente utili e soprattutto non si fermi appena le conclusioni spingono in direzione opposta a quella propria. Allora non ci si può fermare a quanto riferito, ad esempio nel libro parrocchiale dei morti (peraltro già carente), bensì occorre insieme prendere in esame anche i diari di osservatori diretti o di protagonisti della vicenda; gli interventi parlamentari, gli articoli apparsi su autorevoli periodici dell’epoca, gli stati delle anime, le statistiche della popolazione prima e dopo la strage, mettendole anche a confronto con quella di comuni viciniori.

Quando questo lavoro vien fatto, si vede che allora la cifra dei defunti sale, e non di poco. Si giunge allora a risultati di assoluta precisione matematica? Questo non sarà possibile perché vari casi si intrecciano e sono resi molto complessi, ad esempio, dalle considerazioni da farsi a proposito dei morti dovuti alla situazione sociale in cui tanti scampati erano venuti a trovarsi dopo aver perso casa, affetti ed averi. Ad un certo punto subentra la varietà interpretativa delle cause di certi decessi, ma di sicuro una vera ricerca sul piano archivistico generale conferma che il numero delle vittime procurate direttamente da quella tragica giornata del 14 agosto 1861, dalle settimane immediatamente successive e dai tristi eventi che  sempre si accompagnano ai grandi lutti per violenza, diventa impressionante ed è inutile far ricorso a epidemie, della cui realtà troppo si discute perché possano essere accettate acriticamente.

Quella di Pontelandolfo non è stata l’unica strage di civili dovuta al nuovo ordine sabaudo. Gangemi dedica numerose pagine, come già ho anticipato, anche ad altre tragedie procurate, dopo promesse ingannevoli, dal conquistatore. Gli eccidi di Castellammare del Golfo e del Sette e Mezzo palermitano non sono i soli che chiedono di vivere nel nostro ricordo. Da Auletta a Scurcola Marsicana, da Bronte a Montefalcione e così via sono tantissimi i luoghi che hanno assistito alla dura repressione dell’invasore. Tale brutalità riscosse il biasimo di tutta Europa, ma nessuno fece alcunché di concreto per farla cessare, mentre non erano mancati quelli che si erano dati da fare per abbattere la monarchia borbonica. Una monarchia detta feroce, ma che, nel confronto con altri sistemi repressivi e polizieschi, si rivelava, ripeto nel confronto, molto più tollerante. Il Regno del Sud rivelava al momento dell’attacco garibaldino uno spirito rispettoso dei patti, della religione, degli equilibri, che lo rendevano onorato presso ogni Stato, ma proprio questo spirito, insieme con numerosi altri fattori (geopolitici etc.), sarebbero stati esiziali per la sua sorte.

Ancora oggi sentiamo gli effetti della caduta del Regno. Esempi? Appena conseguita l’Unità si impone il problema del rapporto tra dati di fatto e altisonanti dichiarazioni di diritto: non v’è chi non veda che in questo Terzo Millennio tale rapporto è ancora tutto da risolvere. Ancora, a pochissimi lustri dall’Unità comincia la tragedia dell’emigrazione di massa. Esplode la “questione” di un Meridione, che era stato nei secoli luogo di ricchezza e di cultura, eppure neanche oggi, complice il suo stesso notabilato, esso intravede significative risoluzioni.

   Fernando di Mieri

[i] G. Gangemi, Senza tocco di campane. 1860-1870: le vittime civili taciute della Guerra Meridionale, Magenes, 2023.

Posted by altaterradilavoro on Mar 18, 2024

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