Tanta parte di storia, che ora per noi è cronaca, tanti documenti che ora per noi sono muti, saranno volta a volta percorsi da nuovi guizzi di vita e torneranno a parlare” scriveva Benedetto Croce. Forse mai parole più appropriate potrebbero essere espresse a racchiudere, in un pensiero, quel complesso di situazioni abnormi, di avvenimenti particolari, di testimonianze dirette, di relazioni sofferte, di giudizi disparati e contrastanti che si creò, già da subito, su quello che resta uno degli eventi più tragici che possano colpire una piccola comunità: l’incendio di Pontelandolfo e l’eccidio indiscriminato di cui rimase vittima la cittadinanza in quel lontano 14 agosto del 1861. L’evento, che solo il tempo e la memoria vivida degli uomini potranno e sapranno illuminare di verità e giustizia, se ancora ce ne fosse bisogno, è uno di quelli che segnano profondamente la vita, presente o futura, della gente e del luogo che ne restano vittime ed è anche uno di quelli che scuotono le coscienze di tutti, anche di quanti, venendone a conoscenza, provano a darsi una ragione dell’accaduto in considerazione che la guerra è la guerra. È vero, la guerra è guerra, anche se il termine stesso procura orrore a quanti sono costretti a farla, e di per sé essa si manifesta sempre come mischia furibonda, come conflitto disordinato, qual è il vero senso del termine franco “wërra”, ma ciò non giustifica il fatto che a subirne le conseguenze debbano essere quelli che non combattono, donne, vecchi e bambini, e che per la loro condizione soffrono e trepidano più di quanti, mariti, figli, padri, impugnano per scelta o necessità le armi.
Nel caso di Pontelandolfo, come pure di Casalduni, paese vicino che ne seguì la sorte, si trattò di violenza gratuita, di accanimento feroce, di persecuzione furibonda, che non giustificarono né potevano o potrebbero giustificare alcuna “ragione di stato”, alcuna necessità militare, se mai ce ne fosse stata una, che potesse spingere i “giustizieri” a causare solo nuovi martiri. E su di essi, come pure sul drammatico evento che li provocò, non mancarono di soffermarsi le cronache, coeve e successive, dettate quasi tutte dall’esigenza di lasciare testimonianza diretta e durevole dell’accaduto e pervase da quel diffuso senso di umana commiserazione che sgorgò anche, immediato e partecipe, nell’animo di tutti, della gente comune di città vicine e lontane, di alte personalità, di uomini di cultura, di taluni politici. Anche gli stessi protagonisti dell’eccidio, passata la sbornia di sangue, si mostrarono più disposti a considerare più obiettivamente e più umanamente l’accaduto ed a meditare sulle efferatezze perpetrate. Al momento, però, nessuno si rese o volle rendersi conto di quanto stava succedendo. Lo stesso comandante Gaetano Negri, tenente poi promosso colonnello, dopo aver seminato morte e distruzione scrisse nel suo dispaccio telegrafico: “Giustizia è fatta contro Pontelandolfo e Casalduni”. Non possiamo immaginare quale fosse il concetto di “giustizia” del comandante Negri, perché nel giudizio comune si parla di giustizia quando, dopo aver catturato il colpevole di un qualsiasi crimine e dopo averne celebrato il processo, lo si condanna alla pena meritata.
Ma per conoscere veramente cosa avvenne in quel triste giorno di agosto non si possono trascurare le tante cronache redatte sulla scorta delle testimonianze, delle relazioni, delle lettere, dei diversi scritti, immediati o successivi, dei sopravvissuti. Notevole, a tale proposito, per le testimonianze e per l’analisi delle cause della drammatica vicenda, resta lo scritto di Rocco Boccaccino che rievoca, con dolore e commozione, “i momenti ed i particolari di quelle terribili giornate” e li rende particolarmente incisivi attraverso le parole dell’onorevole Ferrari che degli eventi rese la sua relazione alla Camera (2-12-1861): “mai io potrò esprimere i sentimenti che mi invasero in presenza di quella città incendiata … vie abbandonate … le case erano vuote ed annerite … Soltanto tre case furono risparmiate per ordine superiore; soltanto tre case in una città di cinquemila abitanti! Chi può dire il dolore di quella città?”. È un interrogativo che rimbomba come un tuono nella coscienza di chiunque non sa e non può restare insensibile in presenza di uno spettacolo di morte e di desolazione.
Davvero giova ricordare per sempre, come è riportato in un punto di uno dei lavori della presente opera, “questo momento di storia del nostro Sud, che per lo scorrere degli anni comincia a sbiadirsi”, affinché esso “riviva come motivo di riflessione e di monito, soprattutto per i giovani” ma non solo per i giovani, a ravvivare ed a perpetuare la fiamma della memoria e del sentimento, l’unica in grado di illuminare l’oscuro cammino verso il futuro. In tal senso lo stimolo perviene forte dal lavoro di Nicolina Vallillo, le cui pagine, pregne di cruda cronaca, evocano immagini raccapriccianti che è impossibile dimenticare e che suscitano un’infinità di sentimenti. Quello che scrive la Vallillo è un susseguirsi di parole dolenti che sono un indubbio angoscioso atto d’accusa, appena temperato dalla speranza del cambiamento e del ritorno alla vita, su cui è senz’altro necessario soffermarsi per meditare. Le sue parole, però, devono essere lette come una continua esortazione a quanti ancora non conoscono, come i giovani, gli eventi che hanno caratterizzato o segnato positivamente e soprattutto negativamente la vita della loro comunità, affinché non trascurino lo studio consapevole di tante meditate pagine di opere storiche o di sentiti interventi rievocativi che sono sempre estremamente educative. E tra esse vanno annoverati senz’altro quell’ esempio di eccezionale sintesi e mirabile completezza che risulta essere il lavoro “Per Egildo Gentile” e gli interventi sentiti racchiusi nella parte intitolata “Giustizia per Pontelandolfo – terra di briganti”.
Non sono state pagine edificanti nella storia dell’Italia nascente quelle scritte col sangue degli sfruttati e degli oppressi a Bronte, non lo sono neppure quelle grondanti lacrime e sangue che raccontano dei fatti di Pontelandolfo e Casalduni. La cecità del Cialdini, che non seppe o non volle guardare ai veri responsabili della distruzione del drappello di soldati inviato a Pontelandolfo, contribuì a rendere tristemente famoso questo paese, insieme a Casalduni, ma non accrebbe la sua fama ed anzi l’additò come il principale responsabile delle stragi e della distruzione dei due paesi. Il suo operato, anzi, non segnò alcun punto decisivo nella lotta contro i briganti, contro i quali si rivelarono inefficienti sia la Legge Pica sia le altre misure restrittive. Inoltre per la loro scarsa oculatezza gli uomini di governo del novello Regno d’Italia non riuscirono a constatare che per eliminare il fenomeno “Brigantaggio” sarebbe bastata semplicemente la promozione di attività produttive e la costruzione delle più elementari opere pubbliche. Si sarebbero risparmiate tante stragi ed uccisioni, si sarebbero evitate tante vendette private che sono la negazione del concetto di crescita sociale e civile. Ma questa è un’altra storia, uscita sempre da tante cronache e da tanti documenti, che grida forte per farsi ascoltare.
Enrico Garofano
Ricerce e Monografie a cura del Prof. Renato Rinaldi