RELAZIONE DEL SINDACO DI PONTELANDOLFO

di: G. SPADA
 
APPENDICE
 RELAZIONE DEL SINDACO DI PONTELANDOLFO AL GOVERNO LUOGOTENENZIALE DI NAPOLI (1)
 I fatti oltremodo eclatanti avvenuti in questo Comune da me non a guari amministrato, dal giorno 7 agosto ultimo, in poi, mi danno il dovere di raccoglierli e sottoporli alla di Lei giustizia, affinchè possa a ragion veduta disporre tutti quei provvedimenti che la legge di equità e di rigore richiede, per ottenere la pace e la tranquillità dei buoni, come la pena e il castigo dei rei cittadini. Da molti mesi addietro quando l’idea di brigantaggio borbonico si approssimava, in quella borgata e sulla montagna della limitrofa Cerreto già compariva qualche malandrino; tra la bassa plebe circolavano vaghe voci del prossimo ritorno di Francesco Il, della riorganizzazione del suo antico esercito e di vittorie che questo riportava sulle truppe italiane nelle Puglie, negli Abruzzi e in Sicilia, con le quali voci già lo spirito pubblico ritornava ai tempi andati ed il seme della discordia e della reazione forse da più tempo sparso germogliava e diffondeva le sue radici sempre più a lungo. La guardia nazionale e propriamente quella parte di essa composta da contadini, tranne parecchi di essi attaccati all’ordine che mai ha prestato un servizio esatto, allora maggiormente se ne rese restia, nè le minacce e le punizioni furono valevoli a richiamarla a dovere. Ai principi dell’agosto si diceva che una mano di briganti (dalla plebe chiamati Regi), forte di un numero, scorreva la montagna da Pontelandolfo a Pietraroia e che di giorno in giorno veniva ingrossata da sbandati dei paesi circostanti. Non si mancava prendere l’informazioni da persone probe della realtà e costoro assicuravano essere vere le voci sopra accennate, cioè che gran numero di briganti colà si annidavano. La notte del primo agosto, mentre il mio antecessore sig. Melchiorre manteneva sollecita nel corpo di Guardia la sezione di servizio, comandata dall’Uffiziale Francesco Perugino di Michelangelo gli si presentò con un biglietto un tal Gennaro Rinaldi Sticco di Giuseppe, dicendogli che il Sergente dei Regi, dalla montagna glielo mandava e ne desiderava sollecito riscontro. Vi era scritto che il sergente Marciano comandante della banda, chiedeva dal Sindaco ducati Ottomila e due some di armi tra due giorni, altrimenti avrebbero menato il paese a sacco e fuoco. Tal somma voleva si fosse consegnata al porgitore del biglietto. Si è ora scoperto, che il ricatto in parola fu ideato dal detto Gennaro e Michele Rinaldi e anche da altri (Michelangelo, Nicola ed Andrea Mancini Scudanigno) imperocchè costoro presero parte principale nel brigantaggio e il Marciano non ha mai visitato quei luoghi; quant’altro si fosse detto a questo riguardo potrà domandarsi al delegato di P.S. Signor Vincenzo Coppola. Minacciato così il Paese da pochi sconsigliati, tradite le autorità dalle menzogne di coloro che elevavano a più centinaia il numero dei briganti, imbaldanziti i fautori e gli aderenti di costoro ed al contrario scoraggiati i liberali e minacciati fin dai più vili del popolaccio, si avanzarono petizioni al governatore della provincia per ottenere un soccorso. E di fatti il giorno tre agosto arrivò il colonnello De Marco alla testa di 200 guardie mobilitate, le quali dopo tre giorni andarono via, lasciando la borgata in uno stato molto peggiore di prima. Stavano allora sulla montagna alcuni briganti di Cerreto e di altri comuni ma in concerto però con quelli di Pontelandolfo e quest’ultimi che sono i sotto scritti: Nicola, Andrea e Michelangelo Mancini Scudanigno, Salvatore Rinaldi, Matteo, Gennaro e Michele Rinaldi Sticco e loro padre Giuseppe; Antonio e Francesco Rinaldi di Romualdo; Saverio di Rubbo; Bascetta; Antonio Lese, Corso; Donato Palladino; Anguilla; Antonio e Francesco Parciasepe; Carlo Tomaso Visconti; Giosuè Del Negro; Antonio e G.B. Gugliotti; Tommaso Rinaldi, Falcone di Giuseppe; Pietro d’Addona Trippabella fu G. Battista; Donato Terlizzo, Giovanni Barbiero, Vozzacchio e suo figlio; Giuseppe Borrelli di Domenicantonio, Cellone, Giuseppe Bilotta, Lupo De Nicola; Giuseppe d’Addona fu Giacomo, Spaccamontagna; Filippo Lese D’Antonio, Riconto; Domenico d’Addona; Spaccamontagna di Francesco; Antonio Mancini, Cosetto di Giuseppe; Pasquale Ranaudo, Mottone; Salvatore Biondi, Piroli; Vitantonio Ciarlo, Monaco e fratelli; Pellegrini Speccio; Francesco, Domenico e Tommaso Ciarlo; Monaco e Fratelli; Pellégrini Speccio, Francesco, Domenico Petta, di Giuseppe; Vincenzo Longo; Giangiacomo; Giuseppe Ciarlo, Monaco, fratello Nicola, Saverio Longo; Peppelongo fu Giuseppe; Andrea Longo, Giangiacomo. Avevano l’ufficio di fare arruolamenti, seminare idee reazionane nelle menti di tutti, con dire che Francesco Il era prossimo a Napoli, che un esercito tedesco salpava il Tirreno, che Bosco stava nelle Puglie, diffondere scoraggiamento e timore nell’animo dei liberali, delle guardie e dei proprietari, ed infine di eseguire di notte tempo i disarmi di tutte le guardie nazionali abitanti nelle campagne, le quali o mostravansi indifferenti, o poco aderenti ai di loro malvagi voleri; ma tutte queste operazioni erano portate con tale segretezza da non far trapelare nella mente di chicchessia, quali erano i traditori della Patria. In tre o quattro notti furono disarmati tutti i villani e quindi inutilizzati due buoni terzi della Guardia. I rimanenti scoraggiati da non volere più prestare servizio tranne gli ufficiali e pochi militi; il paese tutto fu menato in uno sgomento tale che buona parte dei galantuomini abbandonò il Paese rifugiandosi chi in Napoli chi a Benevento. Fin qui tutto il procedimento, che è stato il preludio della reazione, fu portato con tale sagacia, preveggenza, politica, che addimostra a chiare note l’essere opera diretta da persone intelligenti. Gli organi o le spie dei briganti erano: Giovanni Barbieri, Andrea Longo, Antonio e Francesco Parcesepe, Giosuè del Negro. Il giorno 7 agosto la banda dei malandrini era già ingrossata di circa 50 individui pontelandolfesi, e dopo lunga discussione, fra loro se dovevasi invadare o no Pontelandolfo, fu deciso di doversi discendere per l’ostinata volontà di Saverio di Rubbo, Salvatore Rinaldi, Nicola, Andrea e Michelangelo Mancini, Carlotommaso Visconti, Gennaro e Michele Rinaldi di Giuseppe e i figli Romualdo e Rinaldo. Costoro dicevano al di loro capo Cosimo Giordano di Cerreto: andiamo perchè abbiamo fatto fuggire i galantuomini; i contadini sono con noi in concerto, il basso popolo ci aspetta, dunque non possiamo temere di nulla. Così decisi, piombarono nel paese ove ingrossati da tutti coloro che figurano nell’annesso notamento come pure da altri o non conosciuti o dimenticati, fecero imporre al clero che allora ritornava dalla cappella di S. Donato di arrestarsi per essere dalla croce e dai preti preceduti nella chiesa. Il clero, obbligato, ubbidì; ma la immensa calca di popolo e briganti che quel turbine sfrenato infuriava e devastava senza guida e senza norme si menò dritto nel corpo di Guardia che in men che il dico fu disarmato e devastato tirando colpi allo stemma dei Savoia, rompendo quadri, suppellettili ed altro. Un tal Gregorio Perugini fu Luca, trasse la bandiera tricolore e non contento di lacerarla in minuti pezzi, aiutato anche dal suo compagno Gregorio Polletta (scarponaro) ne infrangeva l’asta di legno, fra i rami di un albero per maggior disprezzo. In tal mentre rimaneva morto Angelo Tedeschi di S. Lupo per mano di Saverio di Rubbo e ferito mortalmente un eremita di Sassinoro. Cadeva di un colpo di fucile Agostino Vitale dentro la propria casa. Poscia quegli assassini condotti da Gregorio Perugini entravano in Casa dell’esattore fondiario Michelangelo Perugini. Lo ammazzavano e ne bruciavano il cadavere alle fiamme della propria casa incendiata. Si vuole che gli uccisori del medesimo fossero Donato Luciano, Gennaro di Rubbo di Saverio, Salvatore Rinaldi, Matteo, Gregorio Perugini fu Luca. Indi si sparsero per tutto il paese saccheggiando le case di Salvatore Longo, del sindaco sig. Melchiorre, di ladonisio in parte, del medico signor Dionisio Lombardi e dell’architetto sig. Sforza. I proprietari di dette abitazioni sarebbero rimasti vittime designate se non si fossero salvati a tempo insieme ad altri ufficiali della guardia che fino a quel giorno non abbandonarono il servizio. Quindi andarono per le altre case dei proprietari e contadini agiati, imponendo tasse, disarmi e altre ruberie. Tra costoro figuravano principalmente Giovanni Longo Cristoforo, Antonio e Francesco Percesepe, Nicola Bilotta Costantino ed altri. Il giorno 8 sollevavansi Casalduni e Campolattaro e convenivano a Pontelandolfo tutti i reazionari degli anzidetti villaggi a stabilirvi l’anarchia, come difatti si fece, ed il luogo di convegno era la bettola di Carlo Orsini un di lui parente di Casalduni era anche uno dei capi. Il giorno 9 passava per la consolare la vettura di un tal Pedata la quale fermata ed aggredita verso san Donato da Francesco Parciasepe, Antonio Longo Cristoforo, Domenico Petronzio fu Giovanleonardo e da Antonio Ciarlo fu Libero Monaco, venivano disarmati e derubati due passeggeri tra i quali il Capitano sig. Campofreda, che a grazia ottenne la vita. Poco dopo fu derubata la posta, dagli stessi assassini sottratte le lettere, e un tal Domenico Petronzio sfondava con una pietra la carrozza nel sito dove era lo stemma dei Savoia; e così quella anarchica forma di governo stabilì il suo quartiere generale in Pontelandolfo e fu issata sulla vecchia torre feudale la bandiera bianca. Continuarono a saccheggiare, taglieggiare e vessare. Cerreto si trovava completamente isolata. Il giorno 11 arrivava a Pontelandolfo un distaccamento di Soldati Italiani al numero di 45 capitanati da un uffiziale. Si insinuavano nel paese con bandiera bianca in segno di pace e senza veruna resistenza. Uno di essi restò dietro per bisogno e fu ammazzato da un colpo di arma da fuoco nella contrada detta Colle o Borgotello. Stanchi dal viaggio e dal digiuno si provvedevano dei viveri che furono subito somministrati per opera mia. Un tal Carlo Tommaso Visconti al vedere quei soldati si portò subito nel vicino villaggio di Campolattaro per riunire le forze reazionarie, e cammin facendo, incitava quei contadini che potè incontrare ad accorrere armati in Pontelandolfo contro i soldati; cluesti ciò faceva, mentre altri Pontelandolfesi che finora mi sono ignoti percorrevano le nostre campagne per lo stesso reo fine e difatti in breve ora si vide in prossimità del paese gran numero di gente armata ed una voce d’allarme echeggiava per tutte le valli. Accortisi i soldati di un prossimo attacco e fatti da me avvertire del comune pericolo cercavano in mia compagnia e di mio figlio Paoloantonio di occupare la torre dei signori Perugini, antico e forte castello adatto a qualunque difesa, ma non vi stettero che pochi minuti e pensarono miglior partito di uscire allo scoperto e ritirarsi a san Lupo. Così fecero. Si avviarono per una ripida e malegevole strada che conduceva nella consolare. Sulla Prainella gran numero di contadini uniti ad altro grosso numero di briganti di diversi paesi e specialmente di Casalduni discesi dalla montagna inseguivano quei pochi prodi sostenendosi così da ambo le parti accanito combattimento. Guadagnato dai soldati l’alto della collina di S. Nicola in prossimità della consolare, incontrarono un agguato preparato contro di essi, da molti briganti, collettizi di diversi paesi, sicchè furono obbligati divergere per Casalduni. E’ questo un villaggio a circa due miglia discosto da Pontelandolfo abitato da gente inumana, rapace e di indole retriva: e difatti appena quei naturali ebbero avviso del combattimento, corse dappertutto voce d’allarme; suonarono le campane a stormo, ed il popolo tutto riunito come un sol uomo, attaccò di fronte quegli infelici eroi e li inutilizzò alla difesa. Assaliti da tutti i lati, costretti a deporre le armi, furono trascinati in Casalduni e rinchiusi nel corpo di Guardia per decidersi del loro destino. Tennero allora i briganti fra di loro una discussione sulla sorte degli infelici: chi li voleva rispettati perchè prigionieri, chi li voleva fucilati, e finalmente un certo Angelo, fratello figli e nipoti Pica, Casaldunesi, reazionari per eccellenza, influenti e forti per la loro agiatezza ed aderenze vollero a forza che fossero morti, e così gli eroi di Solferino e di Magenta vennero barbaramente dai briganti nella Piazza di Casalduni fucilati. E’ questo il fatto dello eccidio di quei piemontesi e quindi, ingiustamente si dà a Pontelandolfo la taccia di averli massacrati. Fu Casalduni il luogo del supplizio e su di essi piombi tutta l’ira ed il rigore della giustizia. A Pontelandolfo convennero tutti al numero di parecchie centinaia, capitanati da Filippo Tomaselli di Pontelandolfo, profugo da molto tempo che spacciatosi per comandante generale con alterego ricevuto da Francesco Il emise ordini, disarmava, armava ed assolveva, predicava nelle adunanze popolari, catturava il Procaccio e si impossessava del danaro” Ma all’alba del giorno 11 al comando del colonnello Negri una spedizione di soldati partita da Benevento il 10 era in vista del Paese. I soldati entrarono nell’abitato tirando contro chiunque incontrassero… un solo brigante fu preso ed ucciso. Il paese venne dato alle fiamme e la prima casa che bruciò fu quella dell’Arciprete Epifanio De Gregorio in voce di reazionario. Dopo i soldati si abbandonarono a saccheggio e ad atti di lascivia. A Casalduni: “uguale ruina che a Pontelandolfo, ma meno sangue, perchè quasi deserto il luogo e più pochi gli assassini”. Il 15 agosto da Fragneto M. il colonnello Negri comunicava al comandante di Benevento: “ieri mattina all’alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni. Essi bruciano ancora. Il sergente del 360 reggimento, il solo salvo dei 40 è con noi”. Tralascio dire che altro successe nel paese perchè la S.V. bene conosce che Pontelandolfo fu divorata dalle fiamme tranne poche case. E’ questa la storia precisa dei fatti veri raccolti com’è sono accaduti, sulla quale mosso da quell’amore di partiottismo di cui sono andato sempre infiammato, mi arbitro esporre alla di lei giustizia le seguenti osservazioni: è Pontelandolfo una borgata di circa seimila abitanti più di due terzi di essi non hanno case nell’interno del Paese, ma dimorano bensì in tante masserie cosparse per le campagne, ove vivono incollati e senza veruna istruzione, non avendo che nei soli dì festivi, consorzio con gli uomini illuminati del Paese. Dell’altra terza parte dei cittadini, buon numero si compone di braccianti e sfaccendati che non hanno tetto proprio, nè beni di sorta. Di simili abitanti appena 116 giusto l’annesso notamento sono i compromessi nel brigantaggio; gli altri, per conseguenza sono innocenti. Orbene nel giorno 14 agosto, quando l’efficacia del castigo piombava sull’intero abitato, restavano immuni da ogni pena tutti i facinorosi i quali appartenendo al ceto dei villani dei braccianti e degli sfaccendati o non avevano tetto proprio o lo avevano nelle campagne ove il rigore della giustizia non arrivò al presente. Signor Segretario ciò posto sarebbe conveniente adoperare i seguenti provvedimenti; prima, mandare qui una forza regolare per procedere in una notte sola all’arresto dei facinorosi e nel tempo stesso dare esempi pubblici di terrore e d’esecuzioni di giustizia da rimaner scolpiti eternamente nel cuore dei cittadini; secondo, confiscare i beni dei principali componenti a favore dello Stato o del Comune; terzo, far rimanere nel paese un drappello di forza regolare; quarto, dare un compenso agli innocenti in risarcimento dei grandi danni sofferti tanto nel saccheggio che nell’incendio; quinto, mandare il Giudice Istruttore per lo scoprimento dei reati occulti e delle segrete fila della reazione; sesto, disporre che tutte le autorità civili, politiche municipali ritornino nel paese; settimo, da ultimo, trovare un modo efficace per la civilizzazione di questo popolo: incoraggiarlo a frequentare il paese, costringerlo ad abitarlo, eccitarlo all’istruzione pubblica che è la base di ogni civiltà e di ogni benessere sociale.

F.to: IL SINDACO Salvatore Golino