14 agosto 2011 Di Gian Antonio Stella
Pontelandolfo, scuse per un massacro
Il ricordo dei civili uccisi come rappresaglia contro i briganti 150 anni fa
«Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente; mi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri…». Un secolo e mezzo dopo la straordinaria requisitoria con cui il deputato milanese Giuseppe Ferrari denunciò in Parlamento la strage e la necessità di un’indagine che rendesse giustizia ai morti, alle donne stuprate, ai bambini e ai vecchi mutilati, lo Stato chiede oggi ufficialmente perdono a Pontelandolfo. Il paese della Campania, in provincia di Benevento, che il 14 agosto 1861 fu messo a ferro e fuoco dall’esercito nel più spaventoso massacro del Risorgimento.
Giorgio Napolitano no, non ci sarà. Troppi problemi a Roma. Per la prima volta, dopo decenni di lettere, appelli, invocazioni, moniti caduti sempre nel vuoto, però, l’Italia infine batte un colpo. E alla cerimonia che oggi pomeriggio ricorderà l’eccidio, sarà presente il più alto rappresentante delle celebrazioni per i 150 anni dell’Unità, Giuliano Amato. Che risponderà finalmente alle parole imploranti che Girolamo Gentile, subito dopo la carneficina, inviò al governatore di Benevento: «Si renda giustizia a coloro che hanno ingiustamente patito l’incendio delle loro case e la perdita dei loro averi ed oggi si ritrovano nudi e miseri, infelici vittime di ogni sciagura. Così l’Europa dirà che se da un lato per i reazionari si vedono gli effetti del terrore, dall’altro risplendono per i liberali quelli dell’amore».
Diciamolo: era ora. Per troppo tempo, infatti, una retorica negazionista prima savoiarda e poi fascista, seguita da una malintesa idea della storia orientata a metterci una pietra sopra (vicende vecchie, ormai è successo, perché rivangare?) aveva impedito di affrontare fino in fondo il tema: lo Stato rase al suolo, con la ferocia delle peggiori ritorsioni militari di un esercito d’occupazione, un «proprio» Paese. Un pezzo della patria.
Giuliano Amato a Pontelandolfo – YouTube
Pier Eleonoro Negri guidava le truppe che distrussero Pontelandolfo
Fu una pagina nerissima, quella strage. I bersaglieri al comando del vicentino Pier Eleonoro Negri, inviati dal generale Enrico Cialdini per vendicare una quarantina di commilitoni massacrati tre giorni prima dai briganti nella vicina Casalduni, piombarono sul paese all’alba.
Ricorda nel suo libro di memorie uno dei soldati, il valtellinese Carlo Margolfo: «Entrammo nel paese: subito abbiamo incominciato a fucilare preti ed uomini, quanti capitava, indi il soldato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l’incendio al paese».
«È indescrivibile», avrebbe annotato Rocco Boccaccino nel libro Memorie dei giorni roventi dell’agosto 1861 , «l’eccidio che ne seguì con tutte le sevizie, a cui uomini e donne, inferociti e privi di ogni senso di pietà, brutalmente si abbandonarono». «Quale desolazione!», ricorda Margolfo inorridito: «Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava…».
I militari del Regno d’Italia, accusa la delibera del Comune che ha dichiarato Pontelandolfo «città martire», «uccisero bambini, giovani, vecchi, donne e fanciulle, molte di esse dapprima stuprate. Molti soldati si impossessarono di danaro, oro ed altri oggetti di valore. Profanarono anche la Chiesa Madre rubando i doni votivi e finanche la corona d’oro della Madonna. Poi il paese dopo la mattanza fu dato alle fiamme, facendo abbrustolire i morti e quanti, ancora feriti o infermi, nelle proprie case imploravano vanamente e cristianamente aiuto!».
I morti ufficiali furono pochi. Al punto che quando nel 1978 il municipio ricordò per la prima volta la strage («la vivevamo come una colpa, come se in qualche modo ce la fossimo tirata», sospira il sindaco Cosimo Testa) la lapide fu dedicata a solo 17 «ignari inermi innocenti» travolti dall’«inconsulto sterminio». In realtà, secondo l’opinione comune degli storici, che da qualche anno hanno cominciato ad approfondire, sarebbero stati quattrocento. Anche se Pino Aprile scrive nel suo libro Terroni che c’è chi ipotizza che le vittime «siano state più di 1.000, alle quali bisogna aggiungere i morti dei mesi successivi per le ferite riportate».
Tra i cadaveri, c’era quello di una ragazzina, Concetta Bondi, che, come avrebbe scritto nel 1919 Nicolina Vallillo, «per non essere preda di quegli assalitori inumani, andò a nascondersi in cantina, dietro alcune botti di vino. Sorpresa, svenne, e la mano assassina colpì a morte il delicato fiore, mentre il vino usciva dalle botti spillate, confondendosi col sangue».
Ci saranno tutti, oggi, a Pontelandolfo, a stringersi con Giuliano Amato intorno alla memoria delle vittime e a quei cittadini che, a partire dal sindaco Testa e dallo storico locale Renato Rinaldi, hanno rifiutato di farsi arruolare tra i neoborbonici, chiedendo invece, proprio perché si sentono italiani, solo ciò cui avevano diritto e che oggi avranno: le scuse dell’Italia. Ci sarà anche il sindaco di Vicenza Achille Variati in rappresentanza della città di Pier Eleonoro Negri. La banda di Pinerolo dell’esercito, orgoglio dei piemontesi. E infine loro, i bersaglieri. Per arrivare finalmente al fraterno abbraccio fra «le due parti della Penisola» invocato 150 anni fa da Giuseppe Ferrari.
Era ora. Resta il rimpianto che, se gesti storici come questo fossero arrivati prima, ci saremmo forse risparmiati intorno al Risorgimento tante ostilità, tante spaccature, tanti conflitti che certo si sono rivelati tutt’altro che “mali passeggeri”
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14 agosto
La ritorsione militare
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Gian Antonio Stella
14 agosto 2011(ultima modifica: 19 agosto 2011 16:27)© RIPRODUZIONE RISERVATA