Pontelandolfo, l’eccidio a la mia cittadinanza onoraria
di gigi di fiore
Domenica 16 Ottobre 2016 Ultimo aggiornamento 18:50
Stavolta, sarò perdonato, parlerò anche di qualcosa che mi riguarda in prima persona. Un’esperienza che mi ha riempito di emozione e, al tempo stesso, orgoglio: dopo una ventina d’anni di ricerche e pubblicazioni anche sulla storia e le vicende risorgimentali, il Comune di Pontelandolfo mi ha concesso la cittadinanza onoraria.
Chi conosce il valore della memoria e ne comprende le connessioni con la narrazione storica, piccola e grande, sa quanto sia rilevante, nell’unificazione italiana e nella guerra civile nel Sud che ne seguì, il paese di Pontelandolfo in provincia di Benevento. Fu qui, e nella vicina Casalduni, che l’esercito, diventato da piemontese a italiano tre mesi prima, si macchiò di uno dei peggiori crimini nella storia risorgimentale.
Un eccidio con centinaia di morti, studiato e ricordato ormai nelle Accademie, inserito nei libri di storici, dopo che, per anni (è capitato anche a me, quando inviai a un noto giornalista italiano il mio primo libro sulla vicenda) considerato episodio di “cronaca locale” (sic!). All’alba di quel 14 agosto 1861, i 400 bersaglieri guidati dal tenente colonnello vicentino Pier Eleonoro Negri, eseguirono una rappresaglia vera e proprio contro un paese e i suoi abitanti inermi.
Qualche giorno prima, tra Pontelandolfo e Casalduni erano stati uccisi 41 soldati, tre erano riusciti a fuggire. La reazione, voluta dal luogotenente del re a Napoli, generale Enrico Cialdini, fu feroce: di quel paese non doveva restare “pietra su pietra”. Tutte le case vennero distrutte, solo tre ne rimasero in piedi. Scene da massacri di villaggi di pellerossa eseguiti dalle giubbe blu americane. Scene feroci. Gran parte dei cadaveri rimasero bruciati nelle case, tanti morti non vennero denunciati per paura. Molti pontelandolfesi in fuga furono catturati e fucilati nei giorni successivi.
Ho scritto e ricercato documenti su quell’eccidio, tra l’Ufficio storico dell’esercito a Roma, l’Archivio di Stato di Torino, l’Archivio di Stato di Benevento. Aldo De Jaco lo considerava fondamentale per capire cosa era stata la guerra contadina del brigantaggio. Ho trovato tanto, l’ho pubblicato nel 1998 raccontando quanto accadde nel libro “1861, Pontelandolfo e Casalduni un massacro dimenticato”. Poi, altre scoperte e integrazioni hanno preso posto in mie libri successivi: “I vinti del Risorgimento”, “Controstoria dell’unità d’Italia – fatti e misfatti del Risorgimento”, “La Nazione napoletana”.
Lavoro in progress esaltante, nella ricerca di verità. Man mano che proseguivo, ho cominciato ad amare questi luoghi, le sue tradizioni di derivazione toscana, le celebrazioni di agosto, i suoi rapporti con gli emigranti nel Connecticut. Ho guardato con favore e ammirazione il lavoro di Renato Rinaldi, professore pontelandolfese che si è appassionato alla ricerca di questa storia, restando accanto a molti sindaci alla ricerca della memoria. Oggi, Pontelandolfo è “città martire dell’unità d’Italia”, è stato creato un percorso storico dell’eccidio, è venuto qui nel 2011 Giuliano Amato a chiedere scusa, con il sindaco di Vicenza, in un gesto di rappacificazione nazionale. Anche a Vicenza c’è una strada intitolata all’eccidio.
Un successo della memoria, che si inserisce nella storia con un episodio emblematico. Memoria inserita in uno dei grandi avvenimenti della storia d’Italia: l’unificazione. Nessuno può più ignorare cosa accadde a Pontelandolfo 155 anni fa. Se ne parlò subito in Parlamento nel dicembre 1861, ne scrisse Carlo Alianello che fu ospite a Pontelandolfo qualche mese prima di morire. Di questo risveglio di memoria, concentrato negli ultimi 10 anni, mi è stato riconosciuto una parte dall’intero consiglio comunale di Pontelandolfo che, all’unanimità, ha accolto la proposta del sindaco Gianfranco Rinaldi e dell’amministrazione. Sì, da due giorni sono cittadino onorario di Pontelandolfo. E ne sono orgoglioso.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Leggi l’articolo completo su
Il Mattino