Enzo Di Brango
1860-2017. Ieri, oggi e domani
Identità progressiva: combinazioni, coincidenze e congiunture in cammino
L’identità progressiva appartiene al Sud proprio perché è al Sud che si guarda al futuro con fiducia, forse anche perché di rassegnazione è stata lastricata la strada degli ultimi 30 lustri.
Sul precedente numero di Quaderni abbiamo cercato di delineare il concetto di identità progressiva come processo fondamentale per le popolazioni meridionali per guardare al futuro con prospettiva inclusiva.
Per sviluppare il ragionamento ci siamo serviti di importanti considerazioni di studiosi della società arrivando alla conclusione che: «Andare avanti vuol dire percorrere ogni passo in direzione della riscoperta del senso della comunità. Anche in questo caso il senso della comunità non potrà pervenirci solo dal passato; esso va, invece, individuato nella comunità complessiva dove dovranno risiedere il comune interesse, morale e civile, dell’insieme degli abitanti meridionali» (1).
Considerato che, come rileva Bauman, «La priorità dell’identità nazionale è ancora com’era prima dell’unificazione, una questione aperta e che suscita vivi contrasti» (2) e che, come amplifica Greblo, «un ordinamento giuridico “cieco alle differenze” finisce per costringere i cittadini che non dispongono di un’identità coerente con l’identità dominante a patire le conseguenze di un’inclusione imperfetta o diseguale nell’area di cittadinanza» (3), nel nostro procedere sui corretti binari di un efficace percorso identitario, ci occuperemo, in questo secondo (e non esaustivo) passaggio, di alcune forme di costruzione dell’identità progressiva che, a nostro giudizio, possono rappresentare un profilo utile come condizione costituente già acquisita di una meridionalità viva e progressiva, di una forma sociale ancora ridotta ma già paradigma esportabile per più ampie strutture comunitarie.
Una recente visita a Pontelandolfo, la cittadina sannitica rasa al suolo il 14 ago-sto 1861 dalle truppe piemontesi esercitanti il “patrio obbligo” dell’unità italiana, ci ha fornito lo spunto per qualche considerazione utile al nostro ragionamento.
Entrando nel paese e fermandosi sull’accogliente piazza principale, si notano
1 E. Di Brango, L’Italia si cerca e non si trova. L’unità d’Italia contro l’identità meridionale,
Qualecultura, 2012/2017, p. 121.
2 Z. Bauman, Intervista sull’identità, a cura di Benedetto Vecchi, Laterza Editori, 2003, p. 23.
3 E. Greblo, Politiche dell’identità, Mimesis Edizioni, 2012, p. 10.
immediatamente due monumenti commemorativi su uno dei corsi principali, quello che risale le case alla destra del visitatore. Tale corso che fino a qualche tempo fa era intitolato a Vittorio Emanuele III (e tale resta sulle mappe più usate dai viaggiatori, quelle di Google, sic!), è oggi intitolato ai “Fratelli Rinaldi”. Si potrebbe pensare ad un semplice aggiornamento per necessità odonomastiche, in realtà ci troviamo di fronte ad un evento che, nella sua generalità, si configura come un utile recupero della memoria e, nella sua particolarità, come una forma progressiva d’identità nei termini in cui l’abbiamo delineata nel saggio pubblicato sul n. 123 di questa rivista.
Molti lettori conoscono la vicenda relativa a questi due sfortunati meridionali, convinti liberali, vittime dell’impeto stragista dei bersaglieri di Cialdini che pure stavano accogliendo, ospitali e grati, nelle mura di Pontelandolfo.
Renato Rinaldi (omonimo ma non discendente), autorevole meridionalista locale, riporta nel sito da lui curato, l’intervento dell’on. Giuseppe Ferrari alla Camera dei deputati: «Mi trassero innanzi un gentiluomo, il Signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto nella persona, nobile il volto, ma gli occhi spenti lo rivelavano colpito da una calamità superiore ad ogni umana consolazione. Appena, appena osai mormorare che non così si intendeva da noi la libertà italica. Nulla chiedo, egli disse. E ammutolimmo tutti. Avevo due figli, il primo avvocato e l’altro negoziante. Entrambi quei giovani avevano vagheggiato di lottare per la libertà del Piemonte, e all’udire che approssimavansi i Piemontesi, così si chiama nel paese la truppa italiana, correvano festosi ad incontrarli. Ma la truppa procede militarmente. E i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi. Poi, tolto loro il danaro, sono condannati a immediata fucilazione. L’uno cadde subito morto, l’altro viveva ancora con nove pallottole nel corpo. L’infelice perì sotto il decimo colpo tirato alla baionetta» (4).
4 https://www.pontelandolfonews.com/storia/14-agosto-1861-2/2629-2/
Come è facile rilevare dalla foto pubblicata, non si tratta di un banale adeguamento dell’odonomastica locale, bensì della progressività identitaria che si mette in moto: non si rimuove il passato a vantaggio di una novella acquisizione storica, si crea una sorta di continuità evolutiva che non cancella ma aggiorna.
La targa stradale, infatti, ci indica espressamente che quello che fu “Corso Vittorio Emanuele III” oggi è “Corso fratelli Rinaldi”, che sì, abbiamo avuto i Savoia che certa storia ci ha indotto a ricordare ma che, per la nostra identità, presente e futura, non basta ricordare i “fratelli Rinaldi” ma è necessario sottolineare che essi più ci rappresentano del “precedente titolato”.
Proprio all’imbocco del corso e di fronte alla targa stradale, insistono i monumenti celebrativi della strage. Uno dei due ricorda le scuse ufficiali dello Stato ita- liano, presentate il 14 agosto 2011 dal presidente del Comitato per le Celebrazioni per il 150° anniversario dell’unità d’Italia, Giuliano Amato, a nome del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Tardive si dirà… Ma come ammoniva il maestro Manzi in una celebre trasmissione televisiva di mezzo secolo fa: “Non è mai troppo tardi”.
Per chi si occupa di storia e, nello specifico, ritiene tale disciplina fondamentale per la ricostruzione identitaria di un popolo, 150 anni non sono un tempo sufficiente a determinare “la scadenza” della memoria; l’atto in questione, scolpito sulla pietra, dà corso ad un nuovo incipit identitario che riconosce: “che quanto qui successo [è] stato relegato ai margini della storia” (5).
Ecco, per un viatico produttivo occorrerà senz’altro disinteressarci del presunto colpevole dell’istigazione all’oblio, sapendo che il riconoscimento ufficiale rappresenta soprattutto l’obbligo da parte nostra a procedere forti della nostra internità alla storia della nazione, ci piaccia o meno quest’ultima e piaccia o meno ai parziali vincitori.
Identità progressive di più facile condivisione sono presenti anche nel mondo delle arti.
Nel cinema, uno dei personaggi cui si può attribuire un’identità progressiva è senz’altro il regista Paolo Sorrentino che, come scrive Vittorio Zambardino su Repubblica: «indossa Napoli perché è la sua pelle. Non la ostenta e non se ne vergogna. Insomma, non è un napoletano di professione», di quelli che ci vengono mostrati come stereotipo del “classico meridionale” i cui difetti annacquano la bellezza di Napoli e la rendono infetta di ideologismi, equivoci, astrattezze e pianti atavici duri da estirpare. Sorrentino esonda, con la sua accertata napoletanità, Napoli, l’Italia e l’Europa, fornendoci chiavi di lettura e parallelismi tra comunità, civiltà e interi mondi; si muove agilmente tra i drammi di una piccola comunità, come nel videoreportage sull‘assegnazione delle tende, realizzato dopo il terremoto all’Aquila, a capolavori come Youth dove si scruta il futuro da un piccolo osservatorio sulle Alpi svizzere, passando per il meraviglioso episodio La principessa di Napoli in Napoli 24, film-documentario corale del 2010 scritto e diretto da registi napoletani che raccontano, attraverso 24 episodi, la vita a Napoli. Capacità indiscussa di portare avanti la propria identità meridionale senza retoriche scialbe un po’come ha fatto finora Gabriele Salvatores, nei lavori del quale la progressività fa rima con la fuga, in avanti, continua, come nel suo capolavoro, Mediterraneo, dove è tutto un fuggire e tornare, sapientemente contaminando presente e futuro, delle proprie esperienze.
Stesso discorso per Mario Martone che ci ha abituato al suo racconto di Napoli a capitoli, la Napoli popolare borbonica ne Il giovane favoloso dedicato a Giacomo Leopardi; la Napoli malinconica (aspetto spesso ignorato da chi, nel bene e nel male, scrive di questa città) de L’amore molesto; la Napoli austera, relegata tra Mergellina e Palazzo Cellammare, in Morte di un matematico napoletano.
In tutti questi lavori è evidente il segno di proiettare quella che fu l’importante capitale di un Regno, verso un futuro nel quale ha un suo posto e nemmeno in po- sizione defilata.
Il Sud sposa e arricchisce la cultura del mondo, impregna di saggezza il pensare globale e scatena sincretismi prodigiosi di cui possiamo percepire l’effetto acustico nei lavori musicali di Max Fuschetto.
Questo “musicista globale” nelle sue composizioni riesce a far convivere in ogni brano i mille mondi che popolano l’universo; nei suoni di sintesi sono evidenti – e all’orecchio percepibili – le antiche culture che tornano a noi in armonia e disegnano la bellezza di cui tutti abbiamo urgenza: nel presente e nel futuro, per respingere le sempre più aggressive disperazioni quotidiane. L’oboe canterino, a volte allodola altre usignolo, sapientemente armonizzato alla chitarra di Pasquale Capobianco, trasferisce nel futuro il ricco dna di un Regno dove la convivenza mediterranea, a caratteri arabi o di matrice arbereshe, è cosa antica e priva di infezioni razzistiche pseudomoderne.
In questo contesto trova collocazione l’azzeccato neologismo coniato da Erri De Luca: “napòlide”, perfetta sintesi tra “napoletano” e “apolide”, che conferisce alla tradizione, alla cultura, agli stili di vita meridionale, un unico e progressivo modello identitario della nostra essenza.
L’identità progressiva appartiene al Sud proprio perché è al Sud che si guarda al futuro con fiducia, forse anche perché di rassegnazione è stata lastricata la strada degli ultimi 30 lustri.
5 Estratto dall’epigrafe.