Estratto dal libro di Gigi Di Fiore “1861 Pontelandolfo e Casalduni Un Massacro dimenticato”
da pag, 127 a 137
“Per distruggere il brigantaggio, abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi; ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato. In questa, come in altre cose, l’urgenza dei mezzi repressivi ci ha fatto mettere da parte i mezzi preventivi, i quali soli possono impedire la riproduzione di un male, che certo non si è spento e durerà un pezzo. In politica noi siamo stati buoni chirurghi e pessimi medici. Molte amputazioni abbiamo fatto col ferro, molti tumori cancerosi estirpati col fuoco, ma di rado abbiamo pensato a purificare il sangue”
(Pasquale Vinari, 1878)
VIII
Rimorsi isolati
Scrutava dal finestrino della carrozza il deprimente scenario. Non era piacevole quel viaggio, tra strade disagevoli e l’umidità penetrante, che non faceva certo bene alle sue ossa malandate. Ma Giuseppe Ferrari aveva voluto vedere di persona. Non si era accontentato dei racconti lontani, delle chiacchiere che, nei salotti, qualche ufficiale vanitoso diffondeva con superficialità. E non gli erano bastati neanche gli articoli delle gazzette, che gli parevano troppo scarni per i suoi gusti. Sì, lui, Giuseppe Ferrari, era abituato a scrutare nell’animo umano, a capire dove fosse il bene e dove il male. Non per nulla si era dedicato allo studio della filosofia e all’insegnamento. Non per nulla aveva scritto molti libri. E quel viaggio, sul filo del rimorso provato dalla sua coscienza rimasta troppo spesso silenziosa, lo aveva deciso senza alcuna esitazione.
Così, a 50 anni, in un freddo novembre, scendeva nella Bassa Italia. Era un deputato, un illuminato uomo di sinistra che voleva capire fin dove si fosse spinta la necessità politica dell’unificazione. Non aveva mai nascosto le sue simpatie per l’idea di un’Italia federale: non credeva che un colpo di bacchetta magica potesse all’improvviso eliminare divisioni, incomprensioni, diversità di
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culture e – perchè no? – di capacità di governo, che erano stati il sale della vita italiana per interi secoli. Ora c’era l’unità, voluta da chi aveva saputo strillare più forte, ma non era detto che si dovesse accettare ogni cosa nuova senza critiche, come se si trattasse di un’ineluttabile necessità positiva. Lui, e lo aveva ripetuto anche in Parlamento, credeva che il bene per l’Italia fosse una divisione in tanti Stati, federati tra loro. Una vecchia idea del suo amico Cattaneo, ma la storia, per il momento, l’aveva bocciata.
Ora era lì, a pochi passi da Pontelandolfo, dopo aver affrontato un viaggio lunghissimo. Era stanco, molto stanco. Ma doveva andare avanti. A Torino, in Parlamento, lo avevano quasi dileggiato. E i più agitati erano stati proprio i deputati che venivano dall’ex regno delle Due Sicilie, desiderosi di mostrare un blasone immacolato di italiani puri. Per questo, si dimostravano sempre i più severi verso i loro fratelli meridionali.
Ma lui era un filosofo e non lo avevano spaventato i fischi. Anche se possedeva solo poche notizie non ufficiali arrivate fin lassù dalla Campania, dalla Basilicata, dalla Lucania, dalle Puglie, era riuscito ugualmente ad imbastire un discorso, che si era attirato le ire dei più inferociti nella storica sala di Palazzo Carignano, già tempio della monarchia sabauda. Chiuse per un attimo gli occhi e rivide la scena: voleva dire la sua sul brigantaggio nelle province meridionali. L’aula era una bolgia, qualche scalmanato gli mostrava i pugni, qualcun altro fischiava. Ma lui, impassibile, era andato avanti con le sue parole. E aveva detto: “Frattanto, o signori, noi sappiamo che si fucilano, si arrestano famiglie intere, che vi sono de’ detenuti in massa. È una guerra da barbari, se il vostro senso morale non vi dice che voi camminate nel sangue, io più non vi comprendo. E ciò che ho detto del regno di Napoli io lo dico altresì della Sicilia. Anche colà arresti, esecuzioni, fucilazioni senza processi. È un sistema di sangue, co’fiumi di sangue non si rimedia al male. Nel mezzogiorno d’Italia non si vuole abbandonare questo sistema e tutti coloro che portano un cappotto si credono autorizzati ad uccidere quelli che non lo portano “.
I fischi erano proseguiti ininterrotti, ma lui si era sforzato di non ascoltarli. Fu costretto ad abbandonare l’aula, ma giurò che avrebbe portato le prove della bontà del suo discorso. Gli altri deputati lo accusarono di esagerare, di provare pietà per dei briganti assassini. E lui, quasi come se avesse voluto sfidarli nella solenne partita della verità, ora era lì. Aveva lasciato la sua casa di Milano ed era sceso ad osservare i luoghi dove eran stati compiuti gli eccidi dalle truppe italiane.
L’onorevole Ferrari aprì il libretto, che stringeva nella mano destra, alla pagina che aveva segnato con una piega. Lesse: ” I battaglioni piemontesi, sguinzagliati per ogni dove in quei paesi, riempivano le province napoletane di
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rovina e di sangue”. Lo richiuse. Sul frontespizio c’era il nome dell’autore: monsignor Dupanlup, vescovo di Orleans. Sì, doveva vedere, capire di persona. Non era possibile che dei soldati, soldati italiani, avessero compiuto dei massacri contro altri italiani.
«Siamo arrivati, eccellenza, questo è Pontelandolfo”. La voce del cocchiere interruppe i suoi pensieri. Cercò di superare i dolori alla schiena, si sporse dal finestrino e fu subito assalito da una avvilente sensazione di malinconia. Una mestizia che non riusciva ad abbandonarlo: grigio e nero gli appariva il paesaggio, che non lasciava spazio ad altri colori. La vita e le sue gioie gli sembravano lontanissime. Tutt’intorno, silenzio, desolazione. Quasi tutte le case erano distrutte, in ogni dove i segni chiarissimi di un incendio. Scese subito, per vedere meglio. Lo accompagnavano una decina di soldati, che gli avevano affidato come scorta al comando di Maddaloni. Mentre camminavano, li seguivano gli occhi di alcune donne con i loro bambini. Pochi gli uomini, in gran parte vecchi. Li fissavano con curiosità e diffidenza. Qualche bambino scappò, impaurito. Si avvicinò a un piccolo, che era con la mamma. Non fece in tempo a dire una parola, che i due erano già fuggiti. Lesse, dentro tutti quegli occhi, il terrore. Sapeva che, nei tre mesi trascorsi dall’eccidio, molti erano fuggiti. Profughi: c’era chi diceva che fossero almeno tremila. Quelli rimasti in paese, lo scrutavano come si può scrutare un animale sconosciuto di terre lontane, che si incontra per la prima volta.
” Signor Ferrari, signor Ferrari “, don Lorenzo Melchiorre corse ad incontrare l’ospite illustre. Gli avevano comunicato che il deputato, nel suo giro meridionale, avrebbe toccato anche Pontelandolfo. Da quando era ritornato da Napoli, subito dopo quel terribile 14 agosto, il sindaco aveva cercato di radunare gli amici del Comitato unitario liberale, per tentare di rimettere in ordine le loro cose. Ridare vita al paese. Ma non era impresa facile.
L’onorevole Ferrari ebbe un sussulto. Finalmente incontrava qualcuno che gli rivolgeva la parola, senza mostrarsi impaurito. Appena fu dinanzi a lui, Melchiorre si presentò: “Sono il sindaco, signor Ferrari, onorato di fare la vostra conoscenza..
.Vi guiderò a visitare il paese… ”
- “Ma, ..io non voglio fare una visita. Voglio vedere i segni dell’attacco” disse, senza indugi e con chiarezza, il deputato.
- “Camminate con me, allora, che c’è solo l’imbarazzo della Il paese è ancora tutto distrutto. Venite, venite”.
Il gruppetto si incamminò. Ferrari fissava ogni scena, ogni volto, ogni
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sguardo, per renderlo incancellabile nella sua memoria. Molte case erano in gran parte vuote, tante mura apparivano danneggiate. Dominava il nero lasciato dal fumo. Resti di mobili bruciati languivano, abbandonati, sulle strade o nelle case semidistrutte. Cani e topi razzolavano tra le rovine abbandonate. Il deputato si affacciò appena un poco, dentro qualche edificio.
- ” State attento, che può essere Tante case sono crollate dopo
…sapete… ” lo avvertì il sindaco.
Il deputato fece attenzione. In molti casi, il tetto era scomparso dalle abitazioni, divorato dalle fiamme. Poi mucchi di sassi, simili a delle collinette, riversati sulla strada. Erano arrivati quasi a metà paese, quando il sindaco li fermò.
- “Da qui non si può proseguire, è davvero pericoloso” disse don L’onorevole Ferrari lanciò lo sguardo lontano, per riuscire a scrutare la parte proibita. Tutti gli edifici erano puntellati da pali di legno. Ogni pietra minacciava di cadere da un momento all’altro. Guardò più lontano e vide, sotto un ammasso di pietre, una veste lacera, certamente appartenuta a una donna.
“Di chi era quella casa?” chiese. Il sindaco fu costretto a sporgersi, per vedere meglio. Si fece indicare con precisione il posto e gli rispose: “Lì abitavano Rosa e Concetta Biondi. Purtroppo.. .purtroppo. . . sono morte negli… accadimenti del 14 agosto”.
“Capisco” commentò Ferrari, a testa bassa. Poi si girò tutt’attorno, disorientato. Non sapeva dove andare. Vedeva solo distruzione, avvertiva ancora odore di morte. Provò a chiedere: “Sindaco, è in grado di raccontarmi qualcosa sugli avvenimenti?”
- “Certo, signor Ferrari, anche se non c’ero posso farvi incontrare dei .
.Possiamo metterci in una delle tre case risparmiate. . .dall’incendio. Vi ospiteranno volentieri”.
Il deputato si sentì risollevato. Potevano andare in una casa. Avvertiva un po’ di stanchezza e si sentiva turbato da ciò che aveva visto. Mentre camminavano, notò quello che gli dissero era palazzo Gogliotti, distrutto dal fuoco. Lo colpirono, in quel quadro, i resti di una specie di museo di abiti e medaglie antiche. Si era illuso di trovare smentite a quello che si diceva. Ma non era stato così. Entrarono nella casa che li avrebbe ospitati.
Giuseppe Ferrari si guardò intorno, ma c’era poco da notare. Fissò il sindaco e lo sollecitò a fornirgli informazioni documentate, testimonianze, elementi precisi da poter riferire in Parlamento. Don Lorenzo riprovo una sensazione già avvertita altre volte, da quando era tornato da Napoli. Rivedere il paese, le sue distruzioni, ascoltare tanti racconti di morte gli aveva provocato
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profondo turbamento, come ogni volta che un racconto lo spingeva ad immaginarsi le scene che quei ruderi custodivano. Accadeva anche con quell’onorevole che, attraverso la sua visita, riapriva una piaga ancora dolorosa. Tanti di quei morti don Lorenzo li conosceva da sempre, sapeva che in maggioranza non si occupavano di politica. Gente desiderosa solo di vivere tranquilla. E allora aveva provato orrore per la politica, rendendosi conto di essere stato baciato della fortuna: lui era ancora in vita, in uno scenario di morte.
Ora sentiva, d’istinto, che di quel deputato si poteva fidare. Che quell’uomo nato a Milano poteva essere un testimone onesto, per restituire a Pontelandolfo l’onore che aveva perso. Prese un documento, che conservava spiegazzato, e glielo consegnò. “Leggete” disse.
Giuseppe Ferrari appoggiò i suoi occhialini sul naso e, senza dire una parola, cominciò a leggere il documento. Era una lettera, con rischieste di risarcimento, indirizzata al governatore di Benevento. Lesse le firme: Girolamo Gentile, Francesco Perugini, Salvatore Longo, Antonio D’Addona, Lorenzo Pulzella, Florindo Perugini.
“Chi sono?” chiese.
- “Brava gente di Pontelandolfo. Su questo posso darvi ampie garanzie. Gente perbene, ma leggete, leggete”.
Il deputato riabbassò gli occhi sul foglio e lesse: “Signore. È risaputo in diritto pubblico che il Governo deve abbattere le opposizioni. Nell’esercizio però di questo diritto deve reggere la Giustizia contro coloro che le promossero e non già contro coloro che ne furono alieni e molto meno contro i loro beni… ”
Si interruppe, alzando gli occhi per riflettere su quelle parole. Poi continuò a leggere: ” Da ciò, signore, che il paese di Pontelandolfo abitato da seimila individui, quantunque avesse offerto al governo scandali e reazioni, queste dovevano punirsi e la pena doveva esercitarsi contro gli individui e non già contro l’università e molto meno contro gli abitanti. E tanto più doveva tenersi questa norma di diritto, quanto che la reazione fu procurata da briganti esterni e dalla maggior parte dei contadini che non abitavano l’interno del paese, ma vivevano in campagna e lo sono tuttora, ove hanno la somma delle loro cose intatte… I sottoscritti, individui di Pontelandolfo, nonostante la loro professione liberale e l’allentamento sostenuto dal detto paese fin dal giorno sette corrente, epoca in cui fu invaso dai briganti, per non essere ac- cagionati di sospensione reattiva, hanno sofferto l’incendio delle loro case, la perdita dei loro beni, la morte dei loro innocenti amici e parenti e oggi si rattrovano nudi, miseri e infelici vittime di ogni sciagura”.
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– “Che ne è stato di questa richiesta, signor sindaco?” chiese, con aria incuriosita, il deputato.
– “Respinta. Il luogotenente Cialdini non ne ha dato seguito.. .Ha risposto che ogni liberale deve correre dei rischi per il bene dell’Italia unita …E poi il governatore di Benevento gli riferì che chi aveva scritto la lettera aveva abbandonato il paese in momenti difficili. Sì, proprio così ha scritto.. .Abbandonato, capite? Quasi come se quei miei concittadini fossero stati soldati… Cosa potevano fare, affrontare da soli i briganti? Aspettare i soldati e spiegare che erano liberali.. .A qualcuno non è servito… ”
Tacque di colpo. Proprio mentre nella stanza venne introdotto Nicola Rinaldi. Era il fratello di quell’Antonio Rinaldi, massacrato dai soldati insieme con i figli: l’avvocato Francesco e il negoziante Tommaso.
L’uomo era alto, distinto. Il volto era pieno di fierezza. Lo sguardo nobile. Composto nel suo pallore, non mostrava timore, ne abbassava gli occhi come la gente che il deputato aveva incontrato al suo arrivo in paese. Lo sguardo, quello sì, pareva però spento. Quasi inanimato. Come se quell’uomo avesse subìto un trauma tanto forte da non poter più riprendersi. L’onorevole Ferrati capì subito che l’uomo doveva essere una vittima dell’eccidio, che doveva aver perso qualche parente, qualche amico.
Prese forza, cercò di superare l’imbarazzo naturale provocato dalla situazione, poi il deputato sussurrò, con un filo di voce: “Non è così che da noi s’intendeva la libertà italiana.. .non è così”. Non gli venne più nulla da aggiungere. Si sentiva quasi colpevole, avvertiva che il silenzio ufficiale, durato tre mesi, sui fatti del 14 agosto suonava come una sorte di acquiescenza. Una complicità indiretta con gli ordini del luogotenente colonnello Negri. Erano le regole ciniche della politica. Adesso, però, si trovava di fronte a un uomo sofferente, doveva dimenticare di essere anche un politico. Doveva tirare fuori tutta la sua umanità. E non gli venne difficile: la comprensione per quell’uomo gli arrivò spontanea. Non parlò più. Volle solo ascoltarlo.
– ” Non chiedo nulla, signore – cominciò Rinaldi – Avevo due nipoti. Uno era avvocato, l’altro commerciante. Avevano entrambi vagheggiato da lontano la libertà del Piemonte. Quando sentirono che si avvicinavano i soldati piemontesi.. .italiani..
.sapete, così si chiamano da noi i militi della truppa italiana, furono i più felici. A nulla valsero le loro professioni di fede liberale, i loro evviva. I due miei nipoti sono stati massacrati. Con loro, mio fratello. La casa …beh, quella non c’è più …le loro ricchezze, scomparse”.
L’onorevole Ferrati non ebbe la forza di replicare nulla. Neanche una frase di circostanza, neanche un piccolo commento di conforto. Tutte le parole gli si bloccarono; le sentiva inutili. Strinse forte l’uomo. Commosso. Ma le
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emozioni non erano finite. Subito dopo Rinaldi, entrò un uomo sui trent’anni. Aveva la solita aria rassegnata e dimessa, ormai diffusa tra tutta quella gente.
– “Questo giovane è stato con Garibaldi, sul Volturno… ” lo presentò don Lorenzo.
Ma l’uomo non voleva raccontare i giorni dell’avventura garibaldina. Nella sua mente, si affollavano ben altri ricordi, ben altre scene di sangue. Aveva combattuto contro i borbonici, ma non aveva mai visto scene come quelle capitate in paese. E provò a spiegarle al deputato milanese: ” Non dimenticherò mai il 14 agosto. Ho cercato… ho cercato di salvare quanta più gente possibile.. ”
Si interruppe, vinto dall’emozione. Si coprì il volto con le mani. Poi proseguì: ” Ero nei pressi di una delle case che ha visto, quelle salvate dall’in- cendio. Sapevano tutti che ero un garibaldino, nessuno ha osato toccare la mia casa. Gridavo di correre verso di me, cercavo di nascondere nelle mie cantine la gente che fuggiva. Volevo salvarli dalla morte. Vidi una giovinetta fuggire, per salvare l’onore del suo corpo …Venne uccisa …Orrore, tanto orrore”.
Il silenzio avvolse quei racconti. Per Giuseppe Ferrari fu una giornata tremenda. Fu duro far lottare i suoi ideali con la realtà di ciò che aveva visto e ascoltato. Dove era più il confine tra il bene e il male? Dove era andata a finire l’etica dell’agire umano? In compagnia dei suoi pensieri, il deputato guardava, fuori dal finestrino, Pontelandolfo allontanarsi. La carrozza tornava verso Benevento e lasciava alle spalle la terribile esperienza. Aveva visto e sentito abbastanza. Tutto quell’orrore non poteva essere taciuto. Doveva raccontarlo in Parlamento.
Erano già passati quattro mesi dai giorni degli eccidi a Pontelandolfo e Casalduni. Il Parlamento di Torino non poteva più rinviare la discussione su quegli accadimenti. Anche perché dalla Francia arrivavano richieste di chiarimenti.
Il vociare era alto. Non si poteva parlare di eccidi, il giovane Parlamento e la giovane nazione italiana non ne avrebbero fatto una bella figura. Ammettere che la tanto decantata volontà popolare all’annessione mostrava tante crepe dopo appena un anno non era bello. E allora i deputati decisero che si sarebbe discusso delle difficoltà socio-economiche crescenti nelle regioni meridionali, collegate in maniera diretta ai pericoli del brigantaggio “reazionario”. Quasi tutti consideravano le violenze nel meridione d’Italia solo una questione di sicurezza pubblica, scaturita esclusivamente da ragioni politiche.
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Taglieggiamenti e omicidi da delinquenza comune, alimentati dalla corte borbonica in esilio che pescava nel torbido e favoriti dall’atteggiamento ambiguo della Francia. Questioni militari, al più diplomatiche, dunque, che non meritavano interventi sociali, né tanto meno riforme economiche. La maggioranza dei deputati, così, era convinta che il dibattito si sarebbe risolto in una semplice formalità. Qualcosa da liquidare in poche battute. Giuseppe Ferrari lo aveva capito, aveva scambiato qualche parola con altri parlamentari e non ne aveva ricavato nulla di buono. Eppure lui, dopo la visita a Pontelandolfo, si era convinto della necessità di istituire una commissione d’inchiesta sulla rivolta di quella gente, sulle ragioni profonde che spingevano migliaia di ” cafo- ni” ad armarsi e correre sulle montagne. Anche se avvertiva che nessuno mostrava di provare almeno un po’ di pietà per tanti morti. Se avessero visto le scene che ho visto io, si comporterebbero diversamente, pensò Ferrari. Si rendeva conto che i più intransigenti, ancora una volta, erano proprio i deputati meridionali e questo lo disgustava. Per non parlare poi dei napoletani che erano stati costretti all’esilio dal regime borbonico. Aveva provato a scambiare qualche idea sui fatti di Pontelandolfo con il barone Nicola Nisco, ma quello era stato inflessibile nell’approvare l’azione dei soldati.
Lui però no, lui era milanese, era un filosofo. E sedeva finanche nei banchi della sinistra. Poteva parlare a cuor leggero, senza timore di essere accusato di simpatie per i borbonici. Lui era vissuto in Lombardia, con i Borbone non aveva mai avuto a che fare. Non era come quelli della Bassa Italia, che ora dovevano urlare, accusare, condannare più forte degli altri per dimostrare di essere contro. Contro i Borbone, contro la reazione, contro il male. La verginità politica costava: valeva una cattiveria, un atto di crudeltà, una condanna senza appello.
Giuseppe Ferrari cominciò a parlare del suo viaggio. Cercò di non essere troppo crudo nel suo racconto, ma descrisse ciò che aveva visto e i suoi incontri. Poi concluse: ” Intendo la vostra voce, l’inesorabile voce di tutti i burocrati italiani, non si poteva fare diversamente.. .ma il sacrificio di Pontelandolfo ha forse distrutto i briganti? Il primo novembre io non potei avviarmi a quella volta senza ricevere molti consigli di prudenza e anzi un vero biasimo sul mio progetto. Quando giunsi a Maddaluni mi presentai al comandante per chiedere due o tre uomini, per avere un’apparenza di difesa, mi risposero non potermi dare meno di venti uomini, se no i briganti ci fucilerebbero. Voi non permetterete che regni la forza e che i nostri nemici ripetano contro di noi le parole di un tiranno esiliato da Milano. Io attendo che i delitti dei Torriani abbiano sorpassato quelli dei Visconti”.
Lo ascoltarono a lungo nel più profondo dei silenzi. Poi però, quando
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ebbe finito, dai banchi moderati si levarono fischi e grida feroci. «Basta, basta, non vogliamo sentire più queste eresie. Dimentichi il sacrificio di tanti nostri soldati, dimentichi… ”
Abbozzò una risposta: “Non lo dimentico, ma non dimentico neanche che tutti quei civili inermi erano italiani come noi …È Caino che uccide il fratello”. Non riuscì a far sentire la sua breve replica. Le urla coprirono le sue parole. Il presidente dell’assemblea dovette riportare la calma. Vi riuscì il barone Nicola Nisco, il deputato irpino esiliato e incarcerato dai Borbone. Aveva accumulato tutto l’odio che può produrre una passata sofferenza, ancora viva nel ricordo. Tutta la rabbia da sfogare contro chi gli aveva procurato dolore e chi non gli era stato solidale. Ora quei sentimenti si manifestavano contro ogni episodio che nelle sue terre natie potesse esprimere comprensione verso la passata dinastia borbonica. Perciò, parlò subito. Di getto. E disse: ” Chi lamenta la fiera repressione, come monsignor Dupanloup, forse ignora le iniquità dei briganti e dei villani di Pontelandolfo. Senza dubbio le distruzioni non vivificano e la giustizia fra genti civili non deve essere vendetta. Tuttavia, in alcuni momenti di infermità sociale, se ai reggitori di uno Stato manca la virtù e l’energia del cerusico che, occorrendo, caustica e amputa, si va alla dissoluzione, alla morte”.
Gli applausi si levarono da quasi tutti i banchi. Quel discorso sembrava aver colpito nel segno. Gli eccidi, le distruzioni? Si era in guerra, tutto era permesso. Chiese la parola Francesco Proto, duca di Maddaloni, che sedeva nei banchi della destra. Un napoletano. I suoi epigrammi avevano guastato più di una digestione al re Ferdinando. Poi, quasi per scherzo, aveva anche aderito alla setta liberale “Unità d’Italia”. Insomma, non era mai stato un borbonico fedele, su questo non c’era dubbio, anche se la sua era un’antica famiglia della nobiltà napoletana: i deputati fecero silenzio, per ascoltarlo.
Il duca cominciò a parlare: “La mente mi si turba e tremami la destra, pensando alle immanità che faranno terribilmente celebre la storia di questa rivoltura. Gli imbelli che perirono in questa guerra passarono di gran lunga gli armati, e infinite sono le famiglie, che scorrono prive di pane e di tetto per la campagna e ricoverano come belve negli antri e ne’ sotterranei; e gli orfani che cercano indarno de’ loro genitori morti nelle fiamme del borgo natio, o passati per le armi da’ piemontesi, o periti in luride prigioni, dove a migliaia stavansi i sospetti. I delitti perpretati in questa guerra civile ci farebbero arrossire dell’umana spoglia che vestiamo. Gente della nostra patria viene passata per le armi senza neppure forma di giudizio statario, sulla semplice delazione di un nemico, al semplice sospetto di aver nutrito o dato asilo a un insorto”…
“Basta, basta. Duca smettetela di ingiuriare la Patria” le urla partirono
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dalla destra. Poi si fecero alte anche dagli altri banchi. Il duca se l’aspettava, era preparato a quella reazione. Tanto da alzarsi subito dal suo posto, per andare verso lo scranno del presidente Umberto Rattazzi, che con autorità gli aveva fatto interrompere il discorso. Lo fissarono con curiosità, ne seguirono i movimenti. Il duca aveva scritto per intero il suo intervento, per lasciare traccia del suo pensiero: anche lui, come Ferrari, avrebbe voluto trasformare il suo discorso in una mozione per costituire una commissione d’inchiesta sugli orrori della repressione nel Mezzogiorno. Consegnò il suo intero intervento, scritto, al presidente.
Sorrise soddisfatto. Quelli non strepitavano più. Fu tutto un applauso ai soldati, un elogio al generale Cialdini. Sorrideva amaro, il duca, come quando scriveva i suoi epigrammi che in passato avevano sferzato l’alta società napoletana. Ora era lì, in mezzo a quel gregge che applaudiva. Teneva alta la fronte, alto lo sguardo. Rilesse ciò che non gli avevano fatto dire: “Nei vortici di fiamme che divoravano il vecchio ed adusto Pontelandolfo, udivansi alcune voci di donne cantanti litanie e miserere. Certi uffiziali si avanzarono verso l’abituro …Il giorno posteriore a tanto eccidio, leggevansi sul Giornale ufficiale di Napoli questo telegramma `Ieri mattina, all’alba, giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni’. No! Il diario di Nerone non avrebbe più cinicamente portata la novella di quelli orrori”.
Lesse e sorrise. Forse non avrebbe più fatto il deputato, probabilmente avrebbe per sempre abbandonato quell’aula, ma una soddisfazione se l’era tolta: scrivere ciò che pensava, ciò che aveva sullo stomaco. Lo aveva sempre fatto. Anche nel regno borbonico. E ora volevano impedirglielo. Ma il vecchio duca di Maddaloni non poteva essere zittito tanto facilmente. Forse, di quel suo intervento ne avrebbero parlato i posteri.
Camminavano ormai da troppi giorni. I soldati erano sulle loro tracce. Pasqualino procedeva scalzo, con il suo fucile stretto e la baionetta alla cintola. Il ricordo di Concetta era un soffio lontano che riusciva a malapena ad alleviare la stanchezza e attenuare la rabbia. Avrebbe voluto fermarsi, affrontare i soldati. Ma non potevano, erano pochi. Cosimo Giordano usava la solita tattica: ogni tanto la banda si divideva, qualcuno assaliva i soldati nella boscaglia e fuggiva. Poi, cercavano da mangiare e bere nelle masserie, in qualche paese. Ma dovevano correre, fuggire lontano. I soldati erano diventati troppi e li braccavano come cani all’inseguimento di una lepre sempre più stanca e avvilita.
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Pasqualino era spesso tra gli assalitori di isolati gruppi di soldati. Erano una trentina ed avevano deciso di dirigersi verso Cerreto Sannita. Si erano fermati a una masseria. Trovarono una donna. Era una vecchia: poteva avere 70 come 80 anni. Il suo sguardo fisso, il suo volto inespressivo non riuscivano a farne distinguere l’età precisa. Portava un fazzoletto scuro annodato sui capelli, una gonna e una camicia nere. Le rughe profonde riempivano il viso dagli occhi chiari, che avevano conosciuto ben altri splendori. Era scalza e portava, sul capo, un fascio di legna. La bloccarono, ma lei, quando li vide, non si spaventò.
Li avvertì che per loro c’era pericolo. Non aveva paura, era gente come lei, se ne accorgeva dai loro volti, dalla stessa espressione che parlava di fame, di umiliazioni.
“Zì nonna, dicci qualcosa sui soldati. Dove stanno?” chiese Pasqualino, abbassando istintivamente il fucile, sentendola ben disposta ad aiutarli.
– “Tanti, tanti. Hanno già fucilato i briganti di Pontelandolfo. Tutti fucilati.
Solo uno venne graziato. Altri sono stati fucilati a Benevento”.
Venti morti. Fucilati senza processo. Pasqualino capì che i piemontesi stavano applicando la loro giustizia. Con le loro leggi, i loro giudizi senza appello. Non c’era da perdere tempo, ogni attimo di sosta poteva essere peri- coloso.
Si avviarono in fretta, lasciando la vecchia che li guardava compatendoli.
Scutanigno annunciò l’arresto di don Epifanio De Gregorio. Lo aveva appreso dal vetturino di una carrozza assalita. E con lui, aggiunse, in galera è finito anche don Luigi Orsini. Li avevano arrestati. Arciprete e sindaco erano rinchiusi in qualche cella ammuffita, ma Giordano non provò solidarietà nei loro confronti. In fondo, erano solo un prete e un sindaco. Anche se li ave- vano appoggiati, non erano cafoni come loro. Insieme gridavano viva France- sco, ma ognuno lo faceva a modo suo, per una sua ragione. Un matrimonio di convenienza, insomma, non d’amore.
“Generale, mi dispiace per don Epifanio… ” disse Pasqualino.
“Ma che ti deve dispiacere, Mattone. Stanno ai ferri, ma a loro faranno un processo”.
- “Ma la causa .. “
- “La causa siamo Che può fare il re Francesco senza di noi? Pensi che qualche sindaco e qualche prete, da soli, possono riuscire a cacciare i piemontisi? La causa siamo io, tu, Scutanigno, Chiavone, Crocco, Ninco Nanco, La Gala, Romano, Pilone.. .e tanti altri senza nome… “.