Agosto 1861 di Antonio Pagano
da: “Due Sicilie 1830/1880” – Capone Editore, 2002
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A Casalduni, il primo agosto, il sindaco Ursini avverte tutti i capifamiglia che i piemontesi avevano stabilito che quelli che non si fossero presentati in tempo utile alla chiamata alle armi sarebbero stati fucilati appena presi, ma la reazione dei convenuti è unanime nella decisione di non ottemperare agli ordini di truppe straniere Il 2 agosto Massimo D’Azeglio, invia una lettera al senatore Carlo Matteucci, pubblicata poi dai giornali, nella quale scrive : “Noi siamo proceduti innanzi dicendo che i governi non consentiti dai popoli erano illegittimi: e con questa massima, che credo e crederà sempre vera, abbiamo mandato a farsi benedire parecchi sovrani italiani; ed i loro sudditi, non avendo protestato in nessun modo, si erano mostrati contenti del nostro operato, e da questo si è potuto scorgere che ai governi di prima non davano il loro consenso, mentre a quello succeduto lo danno. Così i nostri atti sono stati consentanei al nostro principio, e nessuno ci può trovare da ridire. A Napoli abbiamo cacciato ugualmente il sovrano, per stabilire un governo sul consenso universale. Ma ci vogliono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti e non briganti, tutti non ne vogliono sapere. Mi diranno: e il suffragio universale? Io non so niente di suffragio, ma so che di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là si. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si deve, quindi, o cambiar principi, o cambiar atti e trovare modo di sapere dai Napoletani, una buona volta, se ci vogliono sì o no. Capisco che gli Italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i Tedeschi in Italia; ma agli Italiani che, rimanendo Italiani, non vogliono unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate… perché contrari all’unità”. Ma questa è la risposta personale che l’allora presidente del Consiglio, Bettino Ricasoli, dà a D’Azeglio il 14 agosto: “Se (i Napoletani) non consentono, più se ne fucilerà e più cresceranno il numero delle prove contro di noi: e bisognarà cercare altre vie. E mi permetterei di non accettare la tua parola “Essi rifiutano non noi, ma l’Italia”. Sarebbe vera se volessero mettersi con stranieri. Ma l’Italia si può intendere in più modi. E quantunque io l’intenda come l’intendi tu, non per questo vorrei fucilare chi la pensa altrimenti”. Il D’Azeglio scrive quello che moltissimi pensano, ma che nessuno ha il coraggio di parlarne apertamente. Il 2 agosto, intanto, l’insorgente Gennaro Rinaldi, detto Sticco, si presenta al sindaco di Pontelandolfo portandogli una missiva e, senza attendere una risposta, va subito via. Nella missiva c’è scritto che il sergente dei regi Marciano, comandante la brigata Frà Diavolo, chiede al sindaco 8.000 ducati, due some d’armi e viveri entro 48 ore, altrimenti avrebbe messo a ferro e fuoco le case dei traditori liberali. Tale somma doveva essere consegnata al latore del biglietto. Il sindaco Melchiorre tuttavia avvisa il delegato di P.S. Vincenzo Coppola e l’architetto Sforza, chiedendo subito dopo aiuto immediato al governatore di Benevento. Cosi due giorni dopo arriva in città il colonnello della Guardia Nazionale De Marco a capo di una colonna di 200 mercenari. La notte tra il 4 e il 5 agosto le montagne che cingono Pontelandolfo sono piene d’insorgenti: i fuochi accesi sono tantissimi e i mercenari del colonnello De Marco decidono di fuggire in segreto, avvisando nascostamente il sindaco Melchiorre, l’architetto Sforza, il delegato di P.S. Coppola e pochi altri liberali. La fuga avviene verso mezzogiorno e la colonna di De Marco scorta 10 carri pieni di casse degli averi dei liberali. Come a sfregio, Melchiorre, prima di partire delibera che la fiera di San Donato non deve svolgersi. La colonna si dirige verso San Lupo. A Pontelandolfo, il 6 agosto, l’arciprete Epifanio De Gregorio chiama Filippo Tommaselli, da tutti conosciuto come “il Generale”, a sostituire Melchiorre e ad istituire un governo provvisorio. Una delegazione di popolani si reca da Don Epifanio per chiedergli di far entrare in paese gli insorgenti di Cosimo Giordano. Don Epifanio acconsente e invia una delegazione presso l’accampamento di Giordano. La delegazione è formata da Saverio Di Rubbo detto Bascetta, Salvatore Rinaldi detto Matteo, Andrea, Nicola e Michelangelo Mancini, Scudanigno, Carlotommaso Bisconti, Gennaro e Michele Rinaldi di Giuseppe ed i figli di Romualdo Rinaldi. Sentite le parole della delegazione di pontelandolfesi Giordano promette di inviare una trentina d’uomini. Il giorno dopo, il 7 agosto, ha luogo lo stesso l’antichissima fiera di S. Donato. Il viale che porta dalla provinciale alla piazza principale di Pontelandolfo, attraverso lo spiazzo della chiesa di San Donato, è gremitissimo di almeno cinquemila persone: contadini di Casalduni, di Morcone, di San Lupo, di Sepino, di Campolattaro, di Fragneto, di Guardia. Durante la processione, alla quale partecipa tutto il paese, arrivano anche gli insorti di Cosimo Giordano che sono accolti festosamente da tutti gli abitanti al grido di “Viva Francesco II”. L’arciprete comincia a laudare il Signore con il Te Deum in onore di Francesco II. Finita la cerimonia, Giordano ed i suoi guerriglieri, seguiti da oltre tremila popolani, si dirigono verso il Corpo di Guardia, disarmano i pochi ufficiali rimasti e lo devastano. I quadri di Vittorio Emanuele II e Garibaldi sono fatti in mille pezzi, le suppellettili sono distrutte. Gregorio Perugini stacca la bandiera tricolore e strappa dal panno bianco lo stemma sabaudo, mentre Gregorio Polletta ne infrange l’asta di legno. Il popolo, represso per lungo tempo dai liberali, sfoga la propria rabbia contro il terrore, le ruberie e le violenze subite. Sono scovati e fucilati Agostino Vitale e Michelangelo Perugino, collaborazionisti dei piemontesi. La casa del sindaco Melchiorre, fuggito due giorni prima, è devastata. La stessa sorte tocca alle case di Iadonisio, del medico condotto Dionisio Lombardi e dell’architetto Sforza, tutta gente collaborazionista dei piemontesi. Agli insorti danno il loro appoggio con denaro e viveri i signori Samuele Perugini, Gaetano Fusco, Nicola Rinaldi e Tommaso Pesce. Cosimo Giordano ed il suo vice, seguiti dal popolo, si dirigono poi verso la casa comunale, ove distruggono i registri dei nati per evitare la chiamata alle armi dei giovani di Pontelandolfo in caso che i piemontesi avessero rimesso i piedi nella città sannita. Dopo aver appiccato il fuoco all’ufficio anagrafe, gli insorti si dirigono nella sala del Municipio ed abbattono gli stemmi sabaudi; la bandiera tricolore è bruciata sul balcone e al suo posto è issata quella delle Due Sicilie, tra le grida festanti e gli evviva della gente. Con la benedizione di Don Epifanio, gli insorgenti si dirigono sull’antico torrione per issarvi la bandiera del Regno delle Due Sicilie e per istituire un governo provvisorio. Ai legittimisti di Giordano si uniscono uomini di Casalduni e Campolattaro. Il 7 di agosto Casalduni è quasi deserta perché numerosi abitanti si sono trasferiti a Pontelandolfo per la fiera, ma verso le 18,00 qualcuno porta la notizia che alla Fiera di San Donato sono arrivati Giordano e la sua banda, che dappertutto i vessilli delle Due Sicilie sventolavano e che era stato proclamato il governo provvisorio. La gente si raduna spontaneamente e si dirige alla caserma della guardia nazionale, scardina l’ingresso e s’impadronisce delle armi e delle munizioni ivi depositate, abbattendo gli stemmi sabaudi e le bandiere tricolori. Le stesse cose avvengono a Campolattaro. I liberali erano fuggiti la sera precedente. Sentite le notizie provenienti da ogni dove, la folla incendia le case di Don Luigi Tedeschi e di suo fratello Salvatore e quella di Don Carlo Nardone, liberali collaborazionisti dei piemontesi. A Napoli Cialdini teme che la situazione possa diventare incontrollabile tanto che telegrafa al generale Cadorna: “Nel caso di avvenimenti gravi ed imprevisti a Napoli od altrove, concentri la sua truppa a Teramo, Aquila e Pescara ed agisca seconda le circostanze se le comunicazioni con me venissero interrotte”. A Casalduni, verso mezzogiorno dell’8 agosto, una cinquantina di casaldunesi si avviano verso il municipio, portando legato il garibaldino Rosario De Angelis, per farlo processare. Il sergente duosiciliano Leone va incontro alla folla inferocita, cercando di frenare la loro sete di vendetta, proponendo di non comportarsi come i piemontesi e di incarcerare il traditore. Il garibaldino è trascinato nel carcere di Pontelandolfo, ma il nuovo governo provvisorio decide di liberarlo. Tuttavia verso Fragneto, riconosciuto, il garibaldino è ammazzato da alcuni contadini. Intanto il generale De Sonnaz, incitato da Cialdini, invia da S. Lupo un drappello di 45 uomini del 36.mo fanteria, comandato dal tenente Cesare Augusto Bracci, per sedare la rivolta di Pontelandolfo. Alle prime ore dell’alba del 10 agosto il tenente Bracci, parte da Campobasso, ma appena fuori della città molisana la truppa piemontese comincia a razziare i campi e le case dei contadini. Alla stessa ora cinquanta insorti, si dirigono verso Guardia Sanframondi, ove disarmano la guardia nazionale e assalgono la casa del cassiere del Comune di Faicchio, prelevando fucili e denaro. Il drappello di Bracci, non appena arrivato in località Borgotello, è accolto da colpi di fucile e un bersagliere rimane ucciso. Le campane suonano a stormo per dare l’allarme e molti scappano sulla montagna a piedi o a cavallo, mentre i bersaglieri piemontesi si accostano ai muri delle case con i fucili spianati verso la folla che si stava accalcando sulla piazza. Arrivati a Pontelandolfo, i militari piemontesi scavalcano il muro di cinta della torre medievale e si accampano nel giardino, ma dalla piazza i contadini sparano contro la torre. I piemontesi, rispondendo al fuoco, decidono di allontanarsi. Riescono ad arrivare a le Campetelle, dove però vistisi circondati da numerosi partigiani a cavallo nei pressi della masseria Guerrera, si danno alla fuga in ordine sparso. I savoiardi, arrivati poi sulla sommità della collina San Nicola, accorgendosi che anche la strada per San Lupo è bloccata dagli insorti, si dirigono verso Casalduni, inseguiti dalla folla inferocita. Arrivati nei pressi della cappellina De Angelis, i soldati piemontesi, sono sorpresi dal sergente duosiciliano Angelo Pica e dal suo vice Pellegrino Meoli, che sono a capo di una trentina di soldati duosiciliani sbandati. Comincia una sparatoria tremenda e due militi piemontesi rimangono uccisi. Nel frangente uno dei soldati piemontesi, accusando il tenente Bracci di incapacità di comando, gli spara col fucile uccidendolo. Tutti gli altri, tranne un sergente che si nasconde tra i rovi della boscaglia, si consegnano ai guerriglieri. Il sergente Pica ed i suoi uomini, dopo averli disarmati, fanno incolonnare i piemontesi e si dirigono verso Casalduni, ove i guerriglieri sono accolti da una folla festante che li incita a fucilare i prigionieri. Tra la folla in piazza vi è anche il vice sindaco Nicola Romano, che aveva fatto brogli durante il plebiscito di annessione. Anche lui si era messo a gridare contro i militari piemontesi, ma, riconosciuto, è legato ad un albero della piazza ed è fucilato. E’ istituito un processo sommario, ma mentre i soldati duosiciliani sbandati volevano salvare la vita ai piemontesi, i cittadini di Casalduni scelgono per la morte. I Piemontesi vengono fucilati tutti alle ore 22,30 dell’11 agosto del 1861. Il reato loro addebitato è giudicato gravissimo: avevano invaso un regno pacifico senza dichiarazione di guerra; avevano ucciso migliaia di contadini e di giovani renitenti alla leva piemontese. Intanto Cosimo Giordano ed Angelo Pica sono chiamati a Pontelandolfo per prendere nuovi ordini dal Generale Filippo Tommaselli e per stabilire un piano per respingere eventuali attacchi. Infatti, al Tommaselli erano arrivate notizie su circa duecento bersaglieri che stavano marciando verso Pontelandolfo con alla testa il garibaldino De Marco. I soldati si fermano a Solopaca nell’attesa d’ordini. A San Lupo stazionano altre duecento guardie nazionali. La notizia degli avvenimenti di Casalduni arriva anche a San Lupo al collaborazionista Jacobelli, il quale, alla testa di duecento guardie nazionali bene armate pensa di dirigersi verso la città del sindaco Ursini, ma accortosi che ogni strada era controllata dagli insorti, si dirige verso Morcone, da dove stabilisce di inviare a Cialdini una missiva, che in pratica decreta la fine di Pontelandolfo e Casalduni. Eccone il testo: “Eccellenza, Quarantacinque soldati, tra i più valorosi figli d’Italia, il giorno 11 agosto 1861 furono trucidati in Pontelandolfo. Arrivati sul luogo vennero tenuti a bada dai cittadini fino al sopraggiungere dei briganti. Giunti costoro, i soldati avevano subito attaccato, ma il popolo tutto accorse costringendoli a fuggire. Inseguiti si difesero strenuamente, sempre combattendo, fino a ritirarsi nell’abitato di Casalduni ove si arresero e passati per le armi. Invoco la magnanimità di sua eccellenza affinché i due paesi citati soffrano un tremendo castigo che sia d’esempio alle altre popolazioni del sud”. Cialdini ordinò allora al generale Maurizio De Sonnaz che di Pontelandolfo e di Casalduni “non rimanesse pietra su pietra”. Questi, il giorno 13, forma due colonne con il l8mo reggimento bersaglieri, una con 500 uomini al comando del tenente colonnello Negri, che si dirige verso Pontelandolfo, l’altra di 400 uomini al comando di un maggiore, il conte Carlo Magno Melegari, che si dirige verso Casalduni. Prima di entrare nei paesi, le colonne hanno uno scontro con una cinquantina d’insorti, che però, dato il numero soverchiante dei piemontesi, sono costretti a fuggire nei boschi non senza avere ucciso circa 25 bersaglieri. I piemontesi proseguono la marcia e all’alba del giorno 14 agosto circondano Pontelandolfo. Dopo che un plotone accompagnato dal collaborazionista De Marco ebbe contrassegnato le case dei liberali da salvare, i piemontesi, entrati a Pontelandolfo, fucilano chiunque loro capiti a tiro: preti, uomini, donne, bambini. Le case sono saccheggiate e poi tutto il paese è dato alle fiamme e raso al suolo. Scene di un orrore inimmaginabile. Tra quegli assassini vi sono anche truppe mercenarie ungheresi che compiono vere e proprie atrocità. I morti furono oltre mille e per fortuna numerosi abitanti erano riusciti a scampare a quel massacro rifugiandosi nei boschi. Nicola Biondi, un contadino di sessant’anni, è legato ad un palo della stalla da dieci bersaglieri, i quali denudano la figlia Concettina, di sedici anni e la violentano a turno. Dopo un’ora la ragazza, sanguinante, sviene per la vergogna e per il dolore. Il bersagliere che la stava violentando, quasi indispettito nel vedere quel corpo esanime, si alza e le spara. Il padre della ragazza, cercando di liberarsi dalla fune che lo teneva inchiodato al palo, è fucilato anch’egli dai bersaglieri. Le pallottole rompono anche la fune e Nicola Biondi cade ai piedi della figlia. Nella casa accanto, un certo Santopietro, con il figlio in braccio, sta per scappare, ma è bloccato dai piemontesi, che gli strappano il bambino dalle mani e lo uccidono senza misericordia. Il maggiore Rossi è il più esagitato. Dà ordini e grida come un ossesso, ed è talmente assetato di sangue che con la sciabola infilza ogni persona che riesce a catturare, mentre i suoi sottoposti sparano su ogni cosa che si muove. Dopo aver ammazzato i proprietari delle abitazioni, le saccheggiano: oro, argento, soldi, catenine, bracciali, orecchini, oggetti di valore, orologi, pentole e piatti. Angiolo De Witt, del 36.mo fanteria bersaglieri così ha descritto quell’episodio: “… il maggiore Rossi ordinò ai suoi sottoposti l’incendio e lo sterminio dell’intero paese. Allora fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari del giorno prima, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti, vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro. Molti mordevano il terreno, altri rimasero incolumi, i feriti rimanevano ivi abbandonati alla ventura, ed i superstiti erano obbligati a prendere ogni specie di strame per incendiare le loro catapecchie. Questa scena di terrore durò un ‘intera giornata: il castigo fu tremendo…”. Due dei giovani, che erano stati salvati dal De Marco perchè liberali, nel vedere tanta barbarie e tanto accanimento contro i loro concittadini e contro la loro Città, dopo essersi consultati col proprio padre, si dirigono verso ol colonnello Negri. I due giovani avevano appreso le idee liberali frequentando circoli culturali a Napoli, sognavano un’Italia una, libera, indipendente; sognavano la fratellanza. Ma a quelle scene di terrore e di orrore aprono di colpo gli occhi. Il più giovane dei due aveva finito da poco gli studi all’università di Napoli e stava per cimentarsi nella libera professione dell’avvocatura; il più grande era un buon commerciante a Pontelandolfo. I due fratelli sono accompagnati al cospetto del colonnello Negri dal garibaldino De Marco per protestare contro quel barbaro eccidio. Il Negri per tutta risposta dà immediatamente ordine di fucilarli tutti. Dieci bersaglieri prendono i Rinaldi, s’impossessano dei soldi che hanno nelle tasche e li portano nei pressi della chiesa di San Donato. I due fratelli chiedono un prete per l’ultima confessione; ma è loro negato. Istantaneamente sono bendati e fucilati. L’avvocato muore subito mentre il fratello, nonostante colpito da nove pallottole, è ancora vivo. Il colonnello Negri si avvicina e lo finisce con un colpo di baionetta. Il saccheggio e l’eccidio durano l’intera giornata del 14agosto 1861. Numerosissime donne sono violentate e poi ammazzate; alcune che s’erano rifugiate nelle chiese furono trucidate dopo essere state denudate davanti all’altare. Una, oltre ad opporre resistenza, graffia a sangue il viso di un piemontese; le sono mozzate entrambe le mani e poi è ammazzata a fucilate. Tutte le chiese sono profanate e spogliate dei doni centenari. Le ostie sante sono gettate, le pissidi, i voti d’argento, i calici, le statue, i quadri, i vasi preziosi e le tavolette votive, rubati. Numerosissimi che erano riusciti a sfuggire al massacro, sono rastrellati e inviati incolonnati a Cerreto Sannita, dove circa la metà di loro è fucilata. A Casalduni la popolazione è più fortunata perché è avvisata in tempo dell’arrivo delle truppe piemontesi. Rimane però in paese solo qualche malato e qualcuno che non crede ad una dura repressione; qualche altro pensava di farla franca restando chiuso in casa. Alle quattro del mattino il 18.mo battaglione, comandato dal maggiore Melegari e guidato verso Casalduni dai collaborazionisti traditori Jacobelli e Tommaso Lucente di Sepino, ha già circondato il paese. Melegari, attenendosi agli ordini ricevuti dal generale Piola-Caselli, dispone a schiera le quattro compagnie di cento militi ciascuna e attacca il paese baionetta in canna concentricamente. Subito dopo comincia la carneficina ed il saccheggio di tutto l’abitato. La prima casa ad essere bruciata è quella del sindaco Ursini. Sentendo gli spari e le grida dei bersaglieri, i pochi rimasti in paese escono quasi nudi da casa, ma sono infilzati dalle baionette dei piemontesi. Dopo aver messo a ferro e fuoco Casalduni ed aver sterminato tutti gli abitanti trovati, il maggiore Melegari chiama il tenente Mancini e gli ordina di andare a Pontelandolfo per ricevere istruzioni dal generale De Sonnaz. Dalle alture i popolani osservano ciò che stava accadendo nei due paesi, ma si sentono impotenti di fronte a tanto orrore. Numerosi sono quelli che vogliono attaccare i piemontesi, anche sapendo di andare incontro a morte certa, visto il divario delle forze in campo. A Pontelandolfo e Casalduni i moni superano sicuramente il migliaio, ma le cifre reali non sono mai svelate dal governo piemontese. Il Popolo d’Italia, giornale filo governativo e quindi interessato a nascondere il più possibile la verità sui morti, indica in 164 le vittime di quell’eccidio, destando l’indignazione persino del giornale francese Patrie, filounitario, e quella del mondo intero. Ma nessuno interviene presso il governo piemontese. Dopo qualche giorno i piemontesi decidono di ritornare nei due paesi messi a fuoco per eseguire ordini precisi: dovevano completare l’opera iniziata il 14 agosto. I bersaglieri, per ordine di Cialdini, rastrellano per le strade e nei cimiteri dei due paesi non meno di 400 uomini che sono tutti arrestati. Alcuni sono riconosciuti come probabili esecutori dei soldati di Bracci e fucilati subito; altri sono percossi col calcio dei fucili e portati a Benevento per essere imprigionati.