MARIA SOFIA DI BORBONE – La Regina in esilio
di Ferrando Mainenti
Alle otto del mattino del 14 febbraio 1861, dopo la firma della Capitolazione della piazzaforte di Gaeta, che aveva, gloriosamente, resistito per circa otto mesi all’assedio dei Piemontesi, Francesco II e Maria Sofia, ultimi sovrani Delle Due Sicilie si imbarcavano sulla fregata francese Mouette per raggiunge Roma,luogo del loro esilio. La capitale della Cristianità aveva offerto alla coppia reale napoletana, ai principi, ai ministri, ai dignitali dl Regno il primo sicuro rifugio. Pio IX in persona memore dell’ospitalità che i Borbone gli avevano offerto al tempo del suo esilio da Roma dopo i tragici avvenimenti del 1849, mise a disposizione della Corte Napoletana il palazzo del Quirinale.
Prima di partire per l’esilio, Maria Sofia aveva consegnato al capitano barone Luigi Vinciguerra, ufficiale fedelissimo alla dinastia, la bandiera ricamata dalla regina Maria Cristina La Santa, appartenente alla Guardia Nobile, il più aristocratico corpo dell’esercito napoletano. La bandiera doveva essere consegnata al comandante della fortezza di Civitella del Tronto, che ancora resisteva eroicamente all’assedio dei Piemontesi- Il simbolo nazionale, benedetto dal Papa, quasi una reliquia, sarebbe stato accolto per incoraggiamento ai combattenti e quale momento di riscossa e di insurrezione popolare contro gli invasori. La bandiera venne consegnata al cappellano militare, il francescano padre Leonardo Zilli, un sacerdote che incarnava la speranza dell’attesa di un nuovo cardinale RUFFO, il prlato a capo della guerra contro i Francesi, che aveva portato alla restaurazione. Dopo la capitolazione di Gaeta ed il proclama del r, la guerra era praticamente finita; nella fortezza di Civitella del Tronto, ostinatamente, ancora resistevano trecento soldati al comando del sergente Messinelli: gli ufficiali avevano abbandonato e a erano dileguati prima che la fortezza capitolasse.
la 13 marmo del 1861 si arrese la cittadella di Messina il 16 marzo Messinelli fece innalzare la bandiera bianca in segno di resa; il 17 mattina le truppe piemontesi avanzarono in attesa che si spalancassero le porte dela fortezza, ma a pochi metri dagli spalti si accorsero che garriva al vento, nuovamente, la bandiera Delle Due Sicilie: non ebbero il tempo di ripiegare quando furono investiti da una raffica di cannonate dei Napoletarti. La rabbia delle troppe piemontesi fu terribile: non si aspettavano quell’ultima beffa dei difensori. Il 21 marzo, allo stremo delle forze, delle munizioni e dei viveri, l’ultimo baluardo borbonico fu costretto a capitolare. Quando i soldati di re Francesco si arresero, si scatenò la vendetta dei fratelli d’Italia: Messinelli, altri 10 soldati e padre Zilli, in dispregio al codice di onore militare, furono fucilati e lasciati insepolti a monito dei paesani. Al coraggioso francescano i Piemontesi negarono anche l’eucaristia un epsodio di guerra coloniale!
A conferma di ciò abbiamo una lettera datata 27 ottobree del 1860, in cui il Luogotenente di Napoli, Luigi Carlo Farini, aveva scritto a Cavour queste testuali parole di pieno disprezzo nei confronti dei meridionali: «Che barbarie! Altro che Italia Questa è Affrica: i beduini, a riscontro di questi caffoni, sono fior di virtù civile».
La notizia della resa di Civitella del Tronto giunse a Roma il 25 marzo: la regina Maria Sofia fu la prima ad esserne a conoscenza e non ebbe il coraggio di comunicarla al marito, che rimase sconvolto dall’episodio della fucilazione del cappellano militare. Il mite e religioso re Francesco si convinse ancora di più come il Piernonte, massone e anglofilo, che prometteva costituzionalità e libertà, in realtà professava un’ottica anticattolica a danno della coscienza cristiana delle popolazioni meridionali.
La soppressione degli ordini religiosi nel 1873 e la confisca di tutti i beni della Chiesa sarà una successiva, dolorosa conferma del pensiero del re. Francesco rimuginava spesso fra sé e sé il primo articolo dello Statuto Albertino, in vigore nel Regno di Piemonte e Sardegna, successivamente esteso al Regno d’Italia dopo l’unificazione: “Lareligione cattolica apostolica e romana è l’unica religione di Stato”. Parole di beffa quando in nome della libertà e della ccstituzione, Cavour- scatenò la grande persecuzione anticattolica che cacciò dalle loro case, privò dei dei beni e mise sul lastrico 57.000 religiosi appartenenti ai vari ordini ecclesiastici della Chiesa Romana.
A fine marzo giunse a Roma il maggiore Luigi Vinciguerra (era stato promosso maggiore dallo stesso re) per riconsegnare a Francesco la bandiera sottratta al forte di Civitella pochi giorni prima della capitolazione. Il re pianse e baciò più volte il vessillo ricamato dalla sua santa madre; poi si pose in ginocchio nel suo studio, dinnanzi al grande ritratto di Maria Cristina di Savoia, che gelosamente custodiva dopo la capitolazione di Napoli.
La regina Maria Sofia, indifferente alle pratiche religiose e mistiche del marito, si rese subito conto che il capitolo della guerra si era ufficialmente chiuso, ma la lotta contro i Piemontesi invasori non era affatto cessata: bisognava riorganizzare l’esercito, fomentare la guerriglia che già serpeggiava nel regno conquistato, coordinare gli aiuti degli Stati europei ostili al Piemonte e scuotere l’opinione pubblica non ancora corrotta dalla propaganda liberalmassonica. La lotta per la riconquista del trono da cui era stata spodestata sarà la passione che la regina perseguirà per tutta la vita.
Per contrastare la popolarità di Maria Sofia, che personificava i simboli e gli ideali del legittimismo borbonico, i vari comitati liberali, sostenuti dai Piemontesi, iniziarono a Roma una feroce campagna di denigrazione e delegittimazione della regina. Si giunse al punto infame di fare circolare dei fotomontaggi in cui Maria Sofia appariva nuda in pose oscene e lubriche: una ventenne prostituta romana, certa Costanza Vaccari, in cambío di 100 scudi, si era offerta come modella posando per il fotografo nelle pose più indecenti (una nell’atto di un rapporto sessuale con uno zuavo pontificio).
Successivamente, sul corpo della donna era stata fotomontata la testa della regina. La polizia pontificia aveva subito individuato gli autori del fotomontaggio: Antonio Diotallevi e Costanza Vaccari, che furono denunciati, processati e condannati. Ma il danno di immagine si era già compiuto, in quanto le foto dello scandalo non solo circolavano a Roma, ma anche in tutta Italia e nel resto d’Europa. Fu un episodio vergognoso e spregevole, che dimostra, ancora una volta, quanto scese in basso la propaganda liberalpiemontese nel suo intento di delegittimare i sovrani sconfitti.
La stampa inglese non fu da meno: il 28 agosto 1861, l’autorevole Times di Londra pubblicò una notizia scioccante: la regina Maria Sofia nei giardini del Quirinale aveva ucciso un gatto, preso a bersaglio con la sua pistola. La notizia era assolutamente falsa, ma rispondeva appieno alle direttive di lord Palmestorn, che doveva dare un sostanziale contributo ai Piemontesi nel progetto di infangare la regina Delle Due Sicilie, simbolo vivente del legittimismo napoletano.
In precedenza, il giornale inglese aveva già scritto al generale Cialdini di trattare i Napoletani «come lupi della foresta», mentre aveva ignorato le fucilazioni di massa, i tanti paesi meridionali bruciati e rasi al suolo, le feroci violenze contro la Chiesa Cattolica, i quasi 30.000 napoletani fucilati e bruciati.
La pietà degli Inglesi era improvvisamente sorta per un gatto ucciso da Maria Sofia nei quieti giardini del palazzo del Papa. Il giornale londinese si guardò bene dal
pubblicare, nell’autunno del 1860 (ancora non era stato proclamato il Regno d’Italîa) il bando del generale piemontese Ferdinando Pinelli, che così recitava: «Il maggior generale comandante le truppe ordina: 1) Chiunque sarà colto con armi da fuoco, coltelli, stili o da altre armi qualunque da taglio o da punta, e non potrà giustificare di esservi autorizzato dalle autorità costituite, sarà FUCILATO IMMEDIATAMENTE. 2) Chiunque verrà riconosciuto di avere con parole, con denaro o con altri mezzi eccitato i villici ad insorgere, sarà FUCILATO IMMEDIATAMENTE. 3) EGUAL PENA sarà applicata a coloro che con parole od atti insultassero lo stemma dei Savoia, il ritratto dei re o la bandiera nazionale italiana».
La ferocia inumana di questo bando da conquista coloniale fu ignorata dal Times per non destare la pietà degli Inglesi che fu invece sollecitata dalla ignobile bugia del gatto ucciso per mano della barbara regina, giustamente scacciata dal suo trono.
Il povero Francesco, colpito da questi avvenimenti, era ricaduto nel suo triste fatalismo e passava le sue giornate in preghiera nella chiesa nazionale del Regno Delle Due Sicilie, Santo Spirito dei Napoletani, in via Giulia; mentre Maria Sofia, per la sua semplicità e bellezza, era diventata popolarissima fra i romani che, incontrandola, la salutavano con entusiasmo e calore.
Nell’agosto del 1861 la regina, contando sul fatto che tranne l’Inghilterra, le altre potenze europee non avevano ancora riconosciuto il nuovo Regno d’Italìa e considerata la situazione che vedeva i Piemontesi in forte difficoltà sul piano militare contro numerose bande di soldati napoletani in guerriglia, cominciò ad accarezzare il disegno della restaurazione, fidando anche nell’appoggio dell’Austria, che lei stessa aveva sollecitato per il tramite della sorella imperatrice.
Lo scopo della regina, che non aveva alcun scrupolo morale, in quanto ai patrioti napoletani si erano aggregate bande di briganti, era quello di raggruppare sotto la bandiera delle Due Sicilie tutti coloro che, in un modo o nell’altro, erano nemici dei Piemontesi.
Spesso Maria Sofia soleva ripetere ai volontari della causa legittimista queste parole: «Tutti i nemici dei Savoia sono miei amici». Affluirono a Roma, pertanto, personaggi da ogni parte d’Europa, soprattutto dalla Francia; giunsero nella capitale anche personaggi discussi: briganti come Chiavone, Crocco, Ninco Nanco, Fuocco, Guerra, Giordana. La regina non guardava tanto per il sottile e accettava con un sorriso tutti coloro che, in un modo o nell’altro, potevano contribuire alla causa della restaurazione. Si affiancarono alla guerriglia partigiana nel Sud anche personaggi di indiscusso valore, quali i francesi Henri de Cathelineau, campione del legittimismo antinapoleonico, il barone Klitsche de la Grange, Emilio de Christen, il colonnello borbonico Francesco Luvarà, il capitano Achille Caracciolo, il belga marchese Alfredo di Trozègies, lo spagnolo Carlo Tristany, il tedesco «Conte Edivino”, e molti altri. Il più famoso dei legittimisti che si posero al servizio della causa fu il generale spagnolo Josè Borges, che, catturato con i suoi uomini a Tagliacozzo, fu fucilato dai Piemontesi senza processo.
La fucilazione di Borges suscitò nell’opinione pubblica europea una fortissima impressione, ed allontanò dalla causa piemontese molti cittadini che avevano parteggiato per i Savoia.
La guerriglia nell’ex reame durò cnque anni e i Piemontesi dovettero impiegare 120.000 uomini contro i quasi 30.000 partigiani del re.
Alla fine del 1862 la coppia reale si trasferì a palazzo Farnese, proprietà della famiglia Borbone; re Francesco aveva ordinato lavori di restauro dello splendido palazzo non volendo più pesare sull’ospitatità del Papa. Mariaa Sofia, ormai disillusa dalla guerra partigiana del Sud, che non aveva sortito alcun effetto positivo per la riconquista del trono, aveva rotto ogni rapporto con la guerriglia e con i tanti avventurieri che si erano posti al servizio della causa borbonica. Ma non mutò mai il suo atteggiamento di tenace ostilità nei confronti dei Savoia, che considerava infidi ed usurpatori; e non perse mai alcuna occasione per rilanciare, la sua persona di regina pretendente al trono delle Due Sicilie. Questo forte sentimento antisavoiardo le durò in cuore per tutta la vita unitamente ad un prepotente desiderio di vendetta che si concretizzò, drammaticamente, con l’assassinio di re Umberto I nel 1900.
Francesco invece cadde in un più cupo e mistico fatalismo: sciolse il governo in esilio, che era ancora in carica, rinunziò al titolo di re e si fece chiamare, più semplicemente, Duca di Castro.
Nell’estate da l867 scoppiò a Roma una violenta epidemia di colera: fu improvvisamente colpita dalla grave malattia L; la regina madre MariaTeresa l’austriaca; la malattia si rivelò ben presto fatale e malgrado le cure del dottor Manfrè, medico di fiducia del Papa, le condizioni dell’inferma si aggravarono rapidamente. Per paura del contagio, tutti i figli della regina madre si allontanarono dal palazzo; rimase solo Francesco al capezzale della matrigna. Incurante di un eventuale contagio. il re, con grande grande spirito di sacrificio, continuò ad assistere la moglie di suo padre sino al momemto della morte, che avvenne di notte, quando l’ex regina contava cinquantuno anni. La lettura del testamento della vedova di Ferdinando II riservò una grande sorpresa: Maria Tersesa lasciava tutti i suoi beni, mobili ed irnmobili, ai suoi figli, nulla a Francesco. Il pio sovrano di Napoli non ebbe alcun risentimento, soffrì sinceramente per la morte della regina e giustificò addirittura le clausole del testamento che lo vedevano escluso, alla pari di un servo, dall’eredità reale.
Maria Sofia, invece, manifestò pubblicamente alla Corte la sua indignancne per l’umiliazione inflitta a suo marito, e chiese con rabbia ed ottenne che i mernbxi della famiglia reale fossero trasferiti in una villa presso Ariccia: re Francesco giustificò questo trasferimento con la scusa di dover evitare loro il contagio con la terribile malattia.
Nei primi giorni di aprile del 1869 Francesco, commosso ed emozionato, annunciò alla Corte l’attesa di un erede. La gavidanza di Maria Sofia fu regolare e serena, considerato anche il fisico sano e forte della regina. La notte del 25 dicembre del 1869 nacque l’infanta Maria Cristina Pia. II battesimo fu celebrato con grande pompa nella cappella di palazzo Farnese e vide una grande partecipazie di Principi, Prelati, dignitari di Corte, diplomatici e rappresentanti dell’aristocrazia romana e napoletana. Presenti l’Imperatrice d’Austria r tutte le altre sorelle di Maria Sofia. Padrino dell’infanta fu il Papa Pio IX madrina Elisabetta d’Austria. La bambina però era nata debole malaticcia,intatti, malgrado le cure e le attenzioni, cominciò a deperire sino alla morte che avvenne la sera del 28 marzo 1870. La notte del 30 marzo fu celebrato il funerale notturno: un uso consentito solo alle famiglie reali, e la piccola bara dell’infelice erede di Francesco II fu sepolta in un piccolo cenotafio dell’abside della chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani.
La morte della figlia fu per Francesco un colpo durissimo: il re si convinse sempre più che la sua santa madre avesse così deciso in cielo per purificare in lui le ataviche colpe dei Borbone. Il sovrano aveva ormai paduto anche la fiducia nei suoi Napoletani: evitava di parlare di politica e di restaurazione, mentre in lui si era aggravato l’atteggiamentoo mistico.
II 25 maggio di quello stesso anno la coppia reale si separava definitivamente: Maria Sofia si recò a Vienna, ospite della rorella imperatrice e Francesco si ritirò in un piccolo castello sul lago di Stamberg in Baviera, sotto il nome di Duca di Castro.
Il 20 settembre del 1870, con la presa di Roma da parte dei bersaglieri di Cadorna, finiva anche il potere temporale della Chiesa.
Maria Sofia, dopo la separazione, aveva vagabondato a lungo tra lìAustria e la Baviera, ma alla fine si era stabilita a Parigi su consiglio del barone Rodolfo di Rothscild, banchiere napeletano e amico personale di re Francesco.
A Parigi l’ex regina delle Due Sicilie entrò in stretto contatto con gli anarchici e strinse un forte legame di amiciza con il capo dell’anarchismo francese, Charles Malato, un estremista violento che la mise in contatto con Giuseppe Ciancabilla e con il capo degli anarchici italiani Enrico Malatesta. La sua frequentazuione con l’ambiente anarchico internazionale fu così assidua da meritarle il titolo di reine aux anarchistes. Ma l’ex regina intendeva sfruttare questo suo prestigio personale nell’ambiente rivoluzionario per poter realizzare, viste le condizioni politiche ed economiche dell’Italia, un suo progetto politico tendente a fomentare la rivoluzione nel nuovo Regno.
Le condizioni dell’Italia nel 1898 erano tragiche: una forte crisi economica provocata dalle ingentissime spese militari volute da Crispi per la folle avventura coloniale in terra d’Africa aveva provocato un gravissimo deficit nel bilancio dello Stato – era stato necessario imporre le tasse sui beni di largo consumo popolare: le tasse sulla miseria, come vennero chiamate, che colpivano pesantemente il sale, il vino, il macinato, il pane. Tasse ingiuste di un sistema tributario non proporzionato al reddito ma che colpivano esclusivamerrtela pavera gente. Le masse popolari, al limite della sopportazione, avevano innescato una serie più o meno rovinosa di conflitti sociali, quasi sempre soffocati da durissime repressioni poliziesche ordinate dal Governo. La situazione era aggravata da scandali e corruzione, che si venficavano con frequenza impressionante.
Il re Umberto I pensava di risolvere i gravi problemi del Paese con un atto di forza: la sospensione delle garanzie costituzionali e la nomina di un generale che avrebbe dovuto governare a forza di decreti reali. Un colpo di Stato, quindi, sempre a danno del popolo! In questa triste atmosfera scoppiarono nel maggio del 1898 gli incidenti di Milano, quando il generale Fiorenzo Bava Beccaris, con pieni poteri reali, massacrò gli operai in sciopero, provocando 80 morii e 450 feriti, fra cui molti vecchi, donne e bambini. In ricompensa dell’eroica impresa ricevette dal re «per i preziosi servigi resi alle istituzioni e alla civiltà» la croce dell’Ordine Militare di Savoia e la nomina a Senatore del Regno.
Due anni dopo, Umberto I veniva ucciso a Monza per mano dell’anarchico Gaetano Bresci.
Si parlò allora di “gesto individuale”, ma molti anni dopo l’anarchico Malatesta ebbe a dichiarare che «… il regicidio non fu un gesto individuale, bensì un complotto organizzato con tutte le regole nella preparazione, nell’esecuzione, nelle necessarie complicità» (il documento è conservato fra le carte di Giolitti all’Archivio di Stato). «Nelle necessarie complicità» affiorò il nome della “Signora”, come veniva chiamata a Parigi dagli anarchici la regina Maria Sofia.
Nel 1894, Francesco II, ultimo, sfortunato sovrano delle Due Sicilie, colpito da una grave forma di diabete, morì ad Arco di Trento, dove si era recato sotto il nome di signor Fabiani per curarsi con le acque termali di quella cittadina, Aveva 58 anni!
Informata della morte del marito, Maria Sofia giunse a Trento per la cerimonia funebre che fu officiata dal vescovo nel duomo della città. Per volontà della regina la salma fu tumulata provvisoriamente ad Arco nella bella chiesa secentesca della Collegiata.
Quando scoppiò la prima guerra mondiale, l’imperatrice Zita d’Austria, nel timore che la chiesa della Collegiata potesse essere colpita dalle bombe, ordinò che la salma del suo prozio Francesco fosse spostata. Nel febbraio 1917 il feretro reale contenente i resti del sovrano fu tumulato nella chiesa di San Francesco Saverio a Trento fino al 1923, per essere, ancora una volta, trasferito nel cimitero civico.
Il testamento del re Francesco rivelò in modo inequivocabile che l’ex sovrano era caduto in uno stato di assoluta miseria: quelle poche cose che ancora possedeva erano andate alfratello conte di Caserta, suo diretto erede. Il resto dell’ingente patrimonio personale dei Borbone, come sappiamo, era stato rubato dai Savoia.
Negli ultimi anni della sia vita, la regina Maria Sofia sì ritirò a Monaco, nell’ala destra del vecchio palazzo dei Wittelsbach, sulla Ludwigstrasse, ancora in parte di proprietà della sua famiglia. L’ala sinistra del palazzo era già stata venduta alla Deutsche Bank. La corte di Maria Sofia, di questa splendida donna che aveva vissuto una vita drammatica ed avventurosa, era costituita da due vecchi servitori, due cameriere e il segretario. II segretario che la serviva da più di venti anni era un catanese, il signor Barcellona. Pochi, pochissimi amici; un’amica fedele dei tempi lontani, la duchessa Della Regina, contessa di Macchia di Napoli, per il quattro di ottobre, compleanno di Maria Sofia, le inviava un pacco con dei maccheroni napoletani, il buon formaggio di Caserta e la conserva di pomodoro san marzano. Il pacco arrivava a Monaco con la scritta Liebesgaben -‘dono d’amore’, segnata con mano tremante dalla vecchia duchessa. Un cuoco napoletano che viveva a Monaco, un certo Tagliaferri, preparava per la regina un’ottima pastasciutta, che fu anche assaggiata dal nunzio pontificio,monsignor Pacelli, il futuro PIO XII, ospite occasionale della regina. Anche un devoto siciliano, Gaetano Restivo di Ficarazzi in provincia di Palermo, le inviava ogni anno una cassetta di arance rosse, frutto del sangue generoso della Sicilia.
Maria Sofia conservò sempre la cittadinanza italiana; nel corso della prima guerra mondiale visitò spesso i campi dei prigionieri italiani, i quali si meravigliavano della presenza di quella bella e vecchia signora, che parlava perfettamente l’italiano. La regina portava loro provviste e liquori, bonbon e sigari e si soffermava con emozione a parlare, soprattutto, con i meridionali. Abbracciando un sergente napoletano ferito, la vecchia regina pianse a lungo, ricordando Napoli, gli anni della sua gioventù, e i suoi nni di regno.
Maria Sofia di Borbone, ultima regina delle Due Sicilie, morì dolcemente nel sonno la notte del 18 gennaio 1925. Alcuni giomi prima aveva confidato al fido Barcellona di aver sognato gli spalti di Gaeta con la bandiera gigliata dei Borbone svettante al vento sul palazzo reale.
Fu sepolta a Monaco, sua città natale.
Nel 1935, per volontà della principessa Maria Josè, moglie del principe ereditario Umberto di Savoia (una Wittelsbach per parte di madre- la regina Elisabetta dei Belgio, figlia del duca Teodoro, fratello di Maria Sofia), i resti mortali dell’ultima regina di Napoli insieme a quelli del marito Francesco II furono traslati a Roma. I feretri reali, riuniti nella stessa vettura ferroviaria giunsero a Roma il 9 dicembre 1938, la scorta d’onore era composta dal conte Caracciolo, dal conte Raffaello da Barberino e dal barone Giovanni Carbonelli di Letino. I resti degli ultimi sovrani borbonici, trasportati nella chiesa dello Spirito Santo dei Napoletani, furono collocati, provvisoriamente,nella cripta sotto il coro. Dopo quattro anni, il 16 maggio 1942, le salme, deposte in due semplici sarcofagi con la sola corona reale, furono collocate sulle pareti laterali dell’abside con al centro il piccolo cenotafio dell’infanta Maria Cristina. Anche questa collocazione doveva rivelarsi provvisoria, il 10 aprile 1984, per volontà della Città di Napoli, dell’aristocrazia borbonica e dei vari circoli neoborbonici cittadini, i tre feretri, con la scorta d’onore del principe Giovanni Borbone in rappresentanza del duca di Castro, del balì Achille Di Lorenzo, del marchese Luigi Buccino Grimaldi, furono trasportati a Napoli e sepolti, definitivamente, nel Pantheon dei Borbone, la basilica di Santa Chiara dove ancora oggi riposano. Alla cerimonia parteciparono tutti i rappresentanti delle famiglie reali europee e l’alta aristocrazia siciliana e napoletana Assenti i Savoia!
E` impressionante constatare quante peregrinazioni abbia avuto la salma di Francesco II prima della definitiva sepoltura. Esule e pellegrino da vivo, e ancor di più esule ed erramo nella morte, prima di poter giungere nella quiete della Cappella Reale della sua amata città.
Questo articolo vuole essere un deferente, commosso omaggio ad una donna eccezionale, ad una grande regina sia pur nella brevità del suo regno, ingiustamente seppellita dagli storici nella polvere del tempo.
FERNANDO MAINENTI,LA REGINA IN ESILIO,agorà XIX-XX (a.v.Ott.- Dic.2004/ Gen.Mar.2005)-www.editorialeagora.it