RICERCA EFFETTUATA DAL LIBRO “R. DE CESARE (MEMOR) LA FINE UN REGNO (NAPOLI E SICILIA) Parte II. REGNO DI FRANCESCO II
945 . 7-8 CITTA DI CASTELLO S. LAPI TIPOGRAFO-EDITORE – 1900
PROPRIETÀ LETTERARIA THE GETTY RESEARCH INSTITUTE LIBREARY PARTE II. REGNO DI FRANCESCO II
pag.333-361
CAPITOLO XVI
Sommario: L’ insurrezione nelle provincie — Il Comitato di Basilicata — Gl’insorti a Potenza e l’intendente Nitti — Documenti inediti e postume rivelazioni — Il Comitato di Cosenza — Discorso di Donato Morelli — Il Comitato di Terra di Bari — Strano tipo di Sottointendente — Movimenti in Abruzzo — Gli insorti d’Avellino e la reazione di Ariano — La legione del Matese — Il Comitato di Benevento — Il decreto che dichiara decaduto il governo temporale del Papa — Aneddoti — Il clero rivoluzionario — Rapporti di intendenti e sottointendenti — Relazioni del comandante di Altamura, dell’ intendente di Lecce e del sottointendente di Vallo — Garibaldi in Calabria — La presa di Reggio — Un biglietto caratteristico — La morte del colonnello Dusmet — Inazione di Vial, di Briganti e di Melendez — Vial in casa Gagliardi — Leggerezze e volgarità — Un motto di De Sauget — Giovani ufficiali che disertano e partono per il Piemonte — I capi delle bande insurrezionali — La marcia di Garibaldi — Lo sbandamento di Soveria e il telegramma d’Acrifoglio — Il generale Flores in Puglia — Sua marcia avventurosa per Napoli e suo arresto a Grottaminarda — Disordini e confusione — Il governo perde la testa — Il Consiglio di Stato del 25 agosto — Gravi parole di Antonio Spinelli e di Carrascosa — Le incertezze del Re e dei ministri — Maria Sofia — Si respinge l’offerta di Girolamo Ulloa — Precedenti dubbii di questo generale — Le dimissioni del ministero — Tentativi per formarne un altro — Nessuno accetta — Pianell e Ischitella — Pianell lascia Napoli — Don Liborio Romano e il suo “memorandum” — L’opera sua — Fu un traditore?
pag 333.342- OMISSIS…
PAG 342-345 – la legione del Matese-Benevento la caduta del potere temporale dei Papi
Beniamino Caso aveva organizzata a Piedimonte d’Alife, sua patria, la legione del Matese che era una compagnia di 120 uomini, duce Giuseppe de Blasiis, il quale aveva per suoi ufficiali Pasquale Turiello, Francesco Martorelli, Grioacchino Toma ed Eduardo Cassola, divenuti poi notissimi, per uffici i occupati e opere d’ ingegno.
De Blasiis era stato spedito dal Comitato dell’Ordine. Questa legione, armata di buoni fucili, di cui l’aveva provveduta una nave sarda, ancorata nel porto di Napoli, era la sola banda insurrezionale da Napoli in su ; e i paesi, nei quali operava, non erano favorevoli, come la Calabria, la Puglia e la Basilicata, anzi vi erano più frequenti le reazioni delle plebi contro la borghesia liberale.
Essa proclamò a Benevento la caduta del potere temporale dei Papi nel Regno di Napoli, e contribuì a domare la reazione di Ariano.
A Benevento, sin dai primi giorni di agosto, il governo pontificio, che nell’ultimo decennio era stato equanime e mite, del che gli va resa giustizia, come è debito pur renderla anche all’ottimo arcivescoyp cardinal Carafa, non esisteva che di nome. Le poche truppe, ivi di guarnigione, avevano abbandonate le caserme, e sui monti di Paupisi si erano unite al De Marco. Il Comitato insurrezionale era composto di Salvatore Rampone presidente, Domenico Mutarelli, Giacomo Venditti e Francesco Rispoli segretario.
Il Rampone, uomo ardito e tenace, il quale nel 1849 aveva servita la repubblica romana, era in continui carteggi coi due Comitati di Napoli ; e dal Comitato di Azione riceveva il 26 agosto questa lettera caratteristica, che val la pena di riferire:
Il Comitato Unitario Nazionale, conoscendo che cotesto Comitato di Benevento da più tempo operosamente lavora per raggiungere l’unità e la libertà d’Italia, sotto lo scettro costituzionale di Vittorio Emanuele, dichiara che tenendosi da costà unità di azione con le provinoce del Regno, fin da ora si considera come capoluogo di provincia napoletana, e quindi questo Comitato farà si che ad ogni costo si realizzi tale promessa, non abbandonando giammai i Beneventani alla discrezione del governo pontificio.
In quella città, i preti, gli scolopii e perfino gli stessi domenicani, favorivano le aspirazioni liberali : tutti i cittadini, atti alle armi, erano divisi in sezioni e armati. Il decreto, col quale fu proclamata la caduta del potere temporale del Papa, porta la data del 3 settembre, ed eccolo, nella sua integrità, pubblicato
qui la prima volta :
In nome di Vittorio Emanuele Re d’Italia — Dittatore Garibaldi — Provincia di Benevento : ” Le forze insurrezionali beneventane hanno dichiarato decaduto il governo pontificio, ed hanno costituito un governo provvisorio, composto dei cittadini Salvatore Rampone, Giuseppe
de Marco, Domenico Mutarelli, Niccola Vessichelli, marchese Giovanni de Simone, Gennaro Collenea „.
Appena questo decreto fu sottoscritto, Giuseppe de Marco, che aveva gran seguito in quei luoghi e fu benemerito della causa liberale, capovolse il ritratto di Pio IX, che pendeva da una parete della stanza dov’erano;e Martorelli e Cassola vi posero innanzi due baionette incrociate.È rimasto celebre, tra i superstiti della “legione „ del Matese, un motto del Turiello, grave e solenne anche allora, che era quasi ventenne. Uscendo la compagnia da Piedimonte, abbattè gli stemmi borbonici nel primo paesello per il quale passò ; e, compiuto l’atto rivoluzionario, Turiello uscì gravemente in queste parole :
” Ed ora, o signori, siamo fucilabili „.
Il moto rivoluzionario di Benevento, se non ebbe importanza intrinseca, contribuì forse a far abbandonare il piano di difesa proposto da Pianell, di attendere Garibaldi fra Eboli, Salerno e Avellino. In uno degli ultimi consigli di guerra, preseduto dal Re stesso, il Von-Mechel manifestò il timore, che, attuandosi quel piano, potesse l’esercito essere tagliato fuori dalla ritirata sopra Capua per opera delle colonne rivoluzionarie del Beneventano. Però ne il Von-Mechel, ne il governo avevano un’idea esatta di quelle compagnie, le quali erano quattro in tutto, e non arrivavano a mille uomini male armati e tutti nuovi alle armi.
A rendere più generale il movimento, contribuiva il basso clero in Calabria e in Basilicata. Preti e frati gettavano l’abito e vestivano la camicia rossa; e cingendosi di un gran nastro tricolore il cappello, si creavano cappellani delle squadre insurrezionali, o predicatori nelle piazze. Si distinguevano gli Ordini mendicanti e i preti delle chiese ricettizie, o quelli che non facevano parte di capitolo e avevano abbracciato il sacerdozio per crearsi uno stato. In Calabria, specie in provincia di Cosenza, parecchi cleri, ed anche alcune comunità monastiche si mescolarono in mossa al movimento.(Vedi: Una famiglia di patrioti^ di R. de Cesare. — Roma, For-
zarli, 1889) Era una generale frenesia, e i documenti di quell’epoca non si rileggono senza maraviglia, mista a tenerezza. Quanta fede, quanta audacia, quanta non-curanza di pericoli, e che puri ideali, e affascinanti illusioni ! Il Turiello calcola, e forse non a torto, che il numero degl’insorti fra le Calabrie, le Puglie, la Basilicata, l’Avellinese, il Salernitano e la Campania, fosse non inferiore ai 18.000.
DA PAG.345 A 351 …OMISSIS..
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Da Reggio a Napoli non fu più tirato un colpo di fucile, e Garibaldi, dapprima con la sua avanguardia e poi precedendo questa, con poche guide e cavalieri e con Enrico Cosenz sempre vicino, da lui nominato ministro della guerra, proseguiva la sua marcia, acclamato come il Dio della vittoria. Trovava dovunque lo Stato disciolto, e a lui si arrendevano generali abbandonati dai proprii soldati. Quella campagna, o per dir meglio, quella marcia trionfale, attraverso le Calabrie, è stata narrata da me con documenti inediti e interessanti in altro mio libro.(R. DE Cesare, op. cit.) Si arresero Melendez e Briganti e fu ucciso quest’ ultimo dai suoi soldati, perchè sospettato di tradimento; capitolò Vial che s’imbarcò a Pizzo per Napoli; capitolò Caldarelli col Comitato di Cosenza; si sbandò Ghio con diecimila uomini a Soveria Mannelli; e cosi la strada sino a Salerno, spazzata degli ultimi avanzi di difesa, restò libera allo incedere del glorioso manipolo, il quale non si trovò tra i
piedi che soltanto de’gruppi di soldati paurosi o inermi, che salutavano, con terrore, i vincitori, al loro apparire. Lo sbandamento di Soveria fu l’episodio decisivo di quella campagna, per il quale si affermò il trionfo della rivoluzione sul continente, e che ispirò a Garibaldi il celebre telegramma, da lui dettato a Donato Morelli, la mattina del 31 agosto, nella casa rustica di Acrifoglio :
” Dite al mondo che ieri coi miei prodi calabresi feci abbassare le armi a 10.000 soldati, comandati dal generale Ghio. Il trofeo della resa fu dodici cannoni da campo, diecimila fucili, trecento cavalli, un numero poco minore di muli e immenso materiale da guerra. Trasmettete a Napoli, e dovunque, la lieta novella „ .
Anche in Puglia l’esercito non diè prova di maggiore energia ; ma se per la Calabria la neghittosità delle truppe fu principalmente da ascriversi, come si è veduto, all’inettezza dei capi; al maresciallo di campo Filippo Flores, che comandava la colonna delle Puglie, non potè veramente attribuirsi l’insuccesso completo dell’opera sua. Il Flores, al quale fu mossa l’accusa di aver ordinato alle sue truppe l’atto di sottomissione al nuovo ordine di cose, spiegò la sua condotta in un piccolo opuscolo venuto alla luce il 10 luglio 1862, ed ora raro per quanto interessante. Flores disponeva di poche forze per mantenere la calma in tre provincie, mentre or-
dini e contrordini da Napoli paralizzavano l’azione di lui. Tutta la sua colonna, divisa fra le provincie di Bari, di Capitanata e di Terra d’Otranto, si riduceva a uno squadrone di gendarmeria, un battaglione di gendarmeria a piedi, due squadroni del secondo reggimento dragoni e due di carabinieri, incompleti di uomini e di cavalli, oltre a mezza batteria di obici. C’erano bensì delle compagnie di riserva, ma potevano considerarsi come uno scheletro di soldatesca. Alla mancanza di uomini si aggiungeva quella delle munizioni ; e per quanto il Flores insistesse per avere altri soldati, non gli fu mandato che il generale Bonanno con alcune compagnie del tredicesimo di linea, Lucania, il cui spirito militare era addirittura spento, dopo i disastrosi eventi di Sicilia. Al generale Bonanno, che gli manifestava non avere le sue truppe altra munizione da guerra, che semplicemente quella di ” dote „ esaurita la quale, la fucileria e i pezzi sarebbero rimasti in perfetto stato d’inazione, Flores non seppe che cosa rispondere.
L’ ultimo ordine, che il Flores ricevette da Napoli, fu di ” lasciar la gendarmeria in tutti quelli luoghi, ne’ quali occorresse tener guardia alle prigioni, e tutelar l’ordine per quanto lo si potesse ; e col restante delle schiere muovere a raggiungere in Avellino il generale Scotti, che ne avrebbe assunto il superiore comando „ . E si noti, che quest’ordine si mandava al Flores, quando questi aveva già dato le sue dimissioni, col seguente telegramma del 26 agosto : ” Domando il mio ritiro, e
” chieggo a chi rassegnare la mia missione, che non posso più onorevolmente disimpegnare „ . Queste dimissioni furono anche provocate dal fatto, che il governo avea sospeso il richiamo dei due squadroni di dragoni, proposto dal Flores, perchè indisciplinati, come ancora dalle diserzioni del tredicesimo di linea, le quali crescevano di giorno in giorno. E proprio sul momento di muovere per Avellino essendo giunto a Flores l’ordine di estrarre dal Banco di Bari le somme di regio conto, egli rispondeva cosi : ” Questo Banco, mi assicura l’intendente, non contiene che numerario di pertinenze particolari, né estrarre si potrebbe denaro senza ordini diretti dal ministro delle finanze, e senza serio allarme di tutte le popolazioni „ .
A misura che il Flores eseguiva la ritirata su Avellino, i governi provvisòri si proclamavano via via alle sue spalle. Ogni paura cessava. Flores dovè continuare la ritirata senza risorse ; spirata la quindicina, sarebbero mancati alle truppe i viveri, de’quali non avrebbe potuto, senza violenza, provvedersi dai Comuni, né, il maresciallo, cui le condizioni di salute non consentivano neppure di reggersi a cavallo, poteva fidarsi dei suoi uomini, tranne che della mezza batteria e dei due squadroni incompleti di carabinieri. A quattro miglia da Ariano, da parte del generale Bonanno, gli veniva consegnato un urgentissimo messaggio recato da
apposita staffetta, contenente l’ordine di recarsi a Napoli ; ed egli dovè proseguire il viaggio con la moglie ed i figli in carrozza, perchè, pochi giorni prima, caduto a terra per un male sopravvenutogli, si era ferito a un ginocchio. Giunto nelle prime ore della notte a Grottaminarda, fu fermato sulla via da un drappello d’insorti avellinesi, mandato dal De Concily ad arrestarlo. Comandava il drappello, sprovvisto completamente di armi, Francesco Pepero, e ne facevano parte Florestano Galasso e Vincenzo Salzano. Gli insorti trattarono con ogni riguardo il generale e la sua signora, e lo condussero alla presenza del vecchio De Concily, che lo trattenne, e due giorni dopo, il 9 settembre, lo lasciò prosegure per Avellino, già occupata dal generale Tùrr. Di là, il Flores scrisse al generale Bonanno il quale aveva preso il comando della colonna, ” che il prodigare inutil sangue riputava folle provvedimento, senza punto vantaggiare quella causa decollata in Sicilia pria, a fronte delle migliori truppe delle quali il Regno disponesse, e di poi in tutti li punti del Napoletano; e massime negli Abruzzi, nelle Calabrie, che offrivano ben altri elementi a poter resistere ; eppure nulla erasi operato da migliorare un avvenire inevitabile „ .
Consigliava quel generale, di non menare a selvaggia carneficina un pugno di gente che dovea infallibilmente soccombere e concludeva che, se lui, Bonanno, abbisognasse di un ordine, per siffattamente governarsi, gl’impartiva l’ordine e ne assumeva la responsabilità.
Chiudendo il suo scritto, il maresciallo Flores accenna alle cause generali che resero impossibile ogni seria resistenza militare in Sicilia, prima e poi nel continente ; e giova riferire le sue parole, perchè esse confortano autorevolmente, nella bocca di un uomo che prese parte a quegli avvenimenti, quanto io ho detto.
” Si dovè cedere, scrisse il Flores, perchè impossibile era resistere; perchè l’elaborata opera della Rivoluzione era consumata; perchè la truppa difettava dove impellente erano il bisogno ; soverchiava dove non era necessaria ; ordini e contrordini succedevansi; tutto era messo in opera per disgustare ed alienare quelli che sempre dato avean saggio di devozione e di fedeltà ; infine, era suonata quell’ora fatale designata dal destino, in cui il Trono dovea crollare „ .
Per invito del De Sanctis, nominato governatore di Avellino dal dittatore, Flores si recò poi a Napoli, dove Garibaldi lo ricevette al palazzo d’Angri, dichiarandosi soddisfatto della condotta di lui. Flores mori nel 1868.
Dopo lo sbandamento di Ghio e la dissoluzione di tutto l’esercito in Calabria, il ministero non si raccapezzò più. Il giorno innanzi, cioè il 29 agosto, nel Consiglio di Stato era stato deciso di resistere a Garibaldi e di attaccarlo, ove ne fosse il caso, tra Eboli e Salerno o tra Salerno e Napoli. Fra le truppe di Calabria, i battaglioni stranieri distaccati fra Napoli e Salerno, e la guarnigione di Napoli, si poteva disporre di 60.000 uomini, con abbondanti provvigioni da guerra e da bocca, alle quali si sarebbe potuto anche più largamente provvedere con una parte dei sei milioni di ducati, del prestito fatto con Rothschild. ” Io non dissimulo, disse Spinelli in quel Consiglio, che ” sventuratamente il nostro esercito è demoralizzato e sconfidato; ma quando il Re si porrà alla testa, esso riprenderà il corag-
gio e la disciplina, e si rifarà delle patite sconfitte. E se pur sarà destino il soccombere, cadremo con onore, e ci salveremo dall’onta di fuggire d’innanzi ad un pugno di uomini, i quali altra forza non hanno, che il prestigio dell’ardito loro capo „ .
E soggiunse : ” Che se V. M. pensasse invece lasciar la capitale, e provvedere altrimenti alla difesa dello Stato, lo faccia pure; ma prenda immediatamente le opportune disposizioni ed operi con la massima energia, perchè ogni istante, che si perde, può compromettere le sorti del Regno „.
Il ministro della guerra, che vedeva sfumato il suo piano di difesa in Calabria, ne fece un altro per la difesa presso Salerno, ma proponeva che il Re marciasse a capo delle truppe, al fine di rialzare il morale dei soldati, dopo l’effetto disastroso, che i fatti di Calabria avevano prodotto sulle milizie. Il vecchio Carrascosa, chiamato a consiglio, disse al Re:
” Vostra Maestà monti a cavallo, e noi saremo tutti con Vostra Maestà ; o cadremo da valorosi, o butteremo Garibaldi in mare „ .
Anche Ischitella era di questo avviso, ma voleva per sé il comando supremo dell’esercito, e parve molto irritato di non ottenerlo, dopo che il Re gli fece discutere il piano di battaglia col ministro Pianell, e ne lesse la relazione, firmata solo da lui , Ischitella, poiché Pianell, non approvando la nomina di costui, non volle sottoscriverla. Si detestavano a vicenda i due uomini, e l’Ischitella non risparmia il Pianell nel suo opuscolo, il quale rivela ancora una volta nello scrittore un uomo vanitoso e romoroso, che aveva servito Murat e Ferdinando II fino alla morte, e che, generale della guardia nazionale con don Liborio Romano, lasciò questo uffi-
cio ; aspettando il comando supremo dell’esercito per combattere Garibaldi. Quanto pronto di favella, tanto egli era inetto all’azione, ombroso e collerico, ma nell’ insieme, non privo di soldatesca sincerità. Passarono cosi alcuni giorni, sino a che, nella notte dal 30 al 31, si seppe l’inconcepibile sbandamento di Soveria, e lo incedere trionfante della rivoluzione in Calabria e in Basilicata. I generali non credettero più di sicura riuscita il disegno di Pianell, perdettero la bussola ancbe loro, e di altro non si parlò che di tradimenti, di oro piemontese e di causa disperata. Una nuova spedizione di truppe in Calabria fu creduta inutile. Gli ordini erano stati dati, ma proprio nel momento dell’imbarco giunse il contrordine, provocato dalle solite esagerazioni, che Garibaldi, dopo lo sbandamento di Soveria, mar-
ciasse, senz’altri ostacoli, su Napoli, e vi potesse arrivare da un momento all’altro.
Il Re mostravasi calmo, come persona che mediti qualche nuovo disegno. La regina Maria Sofia, più risoluta, accettava senza discuterlo qualunque piano di azione, e insisteva ohe il Re si mettesse a capo dell’esercito, offrendosi di seguirlo. Francesco II assisteva passivamente ai consigli dei generali; ma questi non venivano, in maggioranza, ad altra conclusione che non fosse la loro sfiducia nell’esercito e nel ministro della guerra; che anzi il Bosco, promosso da poco a generale, arrogante
quanto loquace, perchè si era battuto con valore in Sicilia, criticava senza mistero il piano del ministro e osservava che, uscendo il Re da Napoli, vi sarebbe scoppiata la rivoluzione e il Re si sarebbe trovato fra due fuochi. Queste critiche ed osservazioni del Bosco riuscivano assai gradite al Re, il quale usava molto fa-
miliarmente con lui e lo chiamava Ferdinandino. Ischitella, che vedeva Francesco II tutt’i giorni, contribuiva con le sue esagerazioni e contraddizioni, a confondergli la testa. Egli consigliava bensì un’azione vigorosa col Re a capo dell’esercito, ma sconsigliava di lasciar Napoli. Ed il Pianell, allora, visto che le sue proposte non venivano accolte e che il Re non si decideva a nulla, e visto dall’altro lato che Garibaldi e la rivoluzione si avanzavano senz’altro ostacolo, manifestò a Spinelli il proposito di dimettersi da ministro e da generale, e lasciar Napoli.
Le incertezze del Re contribuivano a rendere più difficile l’opera dei ministri, i quali, eccetto il Romano, erano profondamente inquieti. Il presidente del Consiglio, che aveva accettato il governo, come il compimento di un sacro dovere, appariva preoccupato e triste ; il principe di Torcila, nervoso più del
consueto ; e De Martino, pur mostrandosi disinvolto e sorridente, rivelava anche lui di aver perduta ogni fede nella diplomazia. I ministri intendevano che il fatale momento si appressava, e non si dissimulavano che l’autorità loro presso il Re andava ogni giorno diminuendo, e ohe l’azione civile del governo quasi non esisteva più. L’azione era tutta militare, se azione poteva dirsi.
I consigli di generali si succedevano, ma si rifuggiva, come s’è visto, da ogni risoluzione, né sarebbe proprio possibile ricostituire la storia precisa di quei giorni famosi, perchè, coloro che vi ebbero parte, la narravano ciascuno a modo suo, e ciascuno aveva ragione, mentre la verità è che tutti si mostrarono inferiori alla
singolare gravità del caso.
Avvenivano le cose più strane.
Il generale Ritucci si era dimesso da comandante della piazza di Napoli, e nonostante che il ministero si fosse opposto alla nomina del generale Cutrofiano a successore di lui, il Re la volle.
Era il Cutrofiano tenuto in conto di retrivo e di uomo violento, e nella sua nomina si vide una minaccia di reazione. Il ministero lasciò intendere al Re che si sarebbe dimesso, anzi presentò le dimissioni. Francesco non ne parve spaventato, e per un momento sembrò deciso a nominare un ministero di resistenza, e a farla finita con la rivoluzione. Non a Pietro Ulloa, ma ad Ischitella die l’ incarico di formare il nuovo ministero, ma al solito, quando si fu all’esecuzione, il vecchio generale
non seppe cavarsela, perchè, come egli confessa, tutti si rifiutavano di essere ministri in quel momento, in cui si vedeva la dissoluzione del Regno, e nessuno voleva compromettersi. Interpellò Stanislao Falconi, Pietro Ulloa e Niccola Gigli, i quali tutti e tre, sia per la gravità della situazione, sia per la poca serietà di
lui, risposero di no.
Erano giorni di tristezza e di confusione nella Reggia e nel governo. Consigli diversi, proposte contradittorie, paure, sospetti, malignazioni e soprattutto esagerazioni, che s’incrociavano, mentre i fedeli continuavano a disertare la causa e il numero degli unitarii cresceva in ragione geometrica. Si affermava, e io credo con qualche fondamento, che il generale Girolamo Ulloa, venuto a Napoli in quei giorni, e bene accolto dal partito legittimista, avesse fatto proporre al Re di assumere il comando in capo delle truppe, per dar battaglia a Garibaldi nella pianura di Eboli. L’Ulloa aveva alta reputazione militare. Si era battuto a Venezia con Pepe ; era stato dieci anni in esilio a Firenze, dove ebbe il comando dell’esercito toscano dal governo provvisorio, dopo la partenza del Granduca. In questo comando non fece buona prova, anzi die origine a sospetti di varia natura, avvalorati dalla circostanza cbe, durante l’esilio, era vissuto in intimità con l’elemento più retrivo di Firenze, rivelando per le cose di Napoli opinioni non decisamente nazionali e unitarie, anzi francesi e murattiste. Quando Ricasoli e Farini conclusero la lega militare dell’Italia centrale, gli preferirono nel comando supremo, prima Garibaldi e poi il Fanti. Di ciò irritato stranamente, l’Ulloa si recò a Napoli dov’era suo fratello Pietro, amico del conte d’Aquila e mescolato con lui in quel dubbio conato di cospirazione; né quindi è inverosimile che facesse offrire la sua spada al Re, come fu detto.
Ma l’offerta non poteva essere accolta per la sfiducia, cbe il nome di lui destava negli ufficiali più vecchi e più zelanti, i quali ricordavano che l’ Ulloa, essendo andato con Pepe a Venezia, aveva disubbidito agli ordini di Ferdinando II, e aveva poi servita la rivoluzione in Toscana. Si disse pure che Pianell, nutrendo gelosia per l’Ulloa, non volesse lasciargli l’onore di salvare la dinastia.
Di ciò mancano documenti autentici, sebbene la cosa non sia, lo ripeto, inverosimile. Punto verosimile, al contrario, è quanto il Nisco afferma, che, cioè, Girolamo Ulloa appartenesse alla cospirazione promossa dal conte d’Aquila, la quale non fu mai cosa concreta, come il Nisco stesso l’afferma, esagerandone l’importanza, più di
quanto non l’abbia ingrandita lo stesso Romano, interessato a gonfiarla, per accrescersi il merito di averla soffocata. Nulla, nulla prova che Girolamo Ulloa
partecipasse a quel complotto, anzi è da credere l’opposto, perchè l’Ulloa era in voce di murattista e il barone Ricasoli aveva persino sospettato che egli lavorasse
a Firenze nell’interesse del principe Napoleone per la creazione di un Regno di Etruria. Certo, i suoi rapporti col principe Napoleone furono molto intimi.
Ogni giorno si annunziavano nuove fughe di fedeli e nuove conversioni di quelli che restavano. Si dimettevano anche il conte di Trani e il conte di Trapani: il primo, da colonnello di stato maggiore, e il secondo, da ispettore della guardia reale.
Il Pianell dichiarava, che, allo stato delle cose, non gli conveniva rimanere più oltre nel ministero. Scrisse direttamente al Re la sera del 2 settembre, inviando le sue dimissioni anche da generale, spiegando i motivi che lo inducevano a questo passo, e chiedendo il permesso di allontanarsi dal Regno. Contemporaneamente il
ministero, sentendosi completamente esautorato, senza ministro della guerra e senza comandante della guardia nazionale, e quasi certo di essere riuscito a scongiurare la guerra civile nelle mura di Napoli, ripresentò, la mattina del 3 settembre, le sue dimissioni. Francesco II mandò il desiderato permesso a Pianell, che lasciò Napoli la sera del 3, e in quello stesso giorno nominò comandante della guardia nazionale il vecchio generale Roberto de Sauget; ma non accettò le dimissioni del ministero, forse preoccupato dallo spavento che al primo annuncio di quelle dimissioni s’era destato in Napoli, nonché per l’ordine, che si diceva da lui dato ai comandanti dei forti, di tirare sulla città, al primo accenno di sommossa o all’appressarsi di Garibaldi.
I liberali, unitarii e autonomisti, facevano da parte loro vive premure ai ministri dimissionarii perchè rimanessero al loro posto. Il Re richiamò Spinelli la sera del 3, e gli fece intendere che aveva già in mente una risoluzione definitiva, e che forse il domani gliel’avrebbe comunicata. I ministri, pur non ritirando le dimissioni, rimasero al loro posto, ma l’agitazione a Napoli in quei giorni fu indescrivibile, anche perchè venne ad arte sparsa la voce che il Re avesse promesso alla plebaglia di far la santafede all’avvicinarsi di Garibaldi.
Il solo che sembrava incosciente di quel che avveniva, era don Liborio Romano, nuotante fra le opposte correnti, senza un fine preciso, né la visione di quel ch’egli volesse; ma in apparenza sorridente e sicuro di se. Fin dal 20 agosto, egli (si legge nelle sue Memorie) aveva presentato al Re un memorandum scritto da lui :
memorandum, che non fu letto in Consiglio di ministri, ma che i ministri conoscevano, secondo egli afferma, senza darne prova. In questo documento, il Romano rilevava
l’incompatibilità, ogni giorno crescente, fra il popolo e la dinastia, e la impossibilità nei ministri costituzionali di modificare o disprezzare il sentimento pubblico come anche l’ impossibilità di fermare Garibaldi, il quale, aiutato dal Piemonte, procedeva vittorioso, essendo la regia marina in piena dissoluzione ed aven-
do l’esercito rotto ogni vincolo di disciplina e di obbedienza gerarchica. Sconsigliava la resistenza e, unica via di salute, proponeva al Re di allontanarsi dalla capitale ” Che la M. V., concludeva, si allontani per poco dal suolo e dalla Reggia dei suoi maggiori ; che investa di una reggenza temporanea un ministero forte, fidato, onesto, a capo del quale sia preposto, non già un principe reale, la cui persona, per motivi che non vogliamo indagare, ne farebbe rinascere la fiducia pubblica, ne sarebbe garentia solida degl’interessi dinastici, ma bensì un nome cospicuo, onorato, da meritar piena la confidenza della M. V. e del paese „.
E naturalmente, questo nome cospicuo ed onorato non poteva essere che il suo.
Ammesso che questo memorandum fosse stato presentato veramente il giorno 20 agosto, secondo afferma il Romano, questi nel Consiglio del 29 approvava, insieme con gli altri ministri, la resistenza a Garibaldi fra Salerno e Napoli, e una nuova e vivace protesta, che il De Martino inviò alle potenze appena fu conosciuto lo sbarco di Garibaldi in Calabria. E poiché alle cose più serie di questo mondo si accompagna sempre una nota di comicità, il giorno 30 venne fuori un decreto del 29 che
autorizzava lui stesso, Romano, ministro dell’interno, a creare un debito di sessantamila ducati, per costruire e addobbare la sede provvisoria del Parlamento alle Fosse del grano! Don Liborio si apparecchiava ad aprire il Parlamento napoletano con la stessa incoscienza, con la quale lasciava credere ai cavurriani, che egli era
lì per indurre il Re a lasciar Napoli e ad affrettare il compimento dell’unità nazionale; ai garibaldini e ai mazziniani del Comitato di Azione, ch’egli stava lì ad impedire che l’unità d’Italia si compisse a benefìzio del Piemonte, resistendo agl’intrighi di Villamarina e di Persano e alle sollecitazioni del Comitato dell’Ordine ; ed agli autonomisti, che fosse in pericolo l’autonomia e l’indipendenza del Regno!
Banderuola in balia dei venti, Liborio Romano si dava l’aria di dominar lui i venti, compiaciuto e soddisfatto di sé ; dava ragione a tutti ed era il solo dei ministri, che non sembrasse impensierita) del domani. I borbonici lo bollarono per traditore, mentre i cavurriani di Napoli lo attaccarono con violenza e non sempre con giustizia, e il solo, che ne tentasse la difesa, fu quel partito di Sinistra, il quale, generato dal Comitato di Azione, reclutò nelle sue fila quanti vi erano più malcontenti, più turbolenti e più retrivi; nel quale partito il Romano si schierò e militò finché visse, detestando i moderati e il loro governo, e forse, in cuor suo, punto dal rimorso di dover passare alla storia per traditore.
Egli non tradì, perchè non ebbe la coscienza esatta di quel che facesse, ilia si lasciò trascinare dalla corrente: caposcuola glorioso di tutti quei voltafaccia politici e parlamentari, più in piccolo e più volgarmente egoistici, dei quali siamo testimoni ogni giorno in questo periodo di parlamentarismo degenerato.
I fatti non confortano l’accusa di tradimento, ne questa si sarebbe levata contro Liborio Romano, se egli, senza interruzione, non fosse rimasto ministro di Garibaldi, e non avesse assunto, quasi dal primo giorno, un contegno di ostilità stizzosa contro tutto ciò che, sia pure inconsapevolmente, egli stesso aveva contribuito a creare. Don Liborio, dopo trentanove anni di regime parlamentare, non può giudicarsi un fenomeno morale inverosimile, né una pianta esotica del nostro paese !