15 maggio 1848 a Napoli – Il Borbone soffoca le libertà

La giornata del 15 maggio 1848 a Napoli
Il Borbone soffoca le libertà

ferdinando-ii-di-borboneIl 13 maggio, Re Ferdinando II lanciava al suo popolo, questo proclama:

“L’apertura del Parlamento nazionale essendo l’atto più solenne della vita politica di un popolo, non c’è da meravigliarsi se nel suo avvicinarsi, tutte le passioni si esaltano e si agitano, e se i nemici della libertà, d’accordo con i nemici dell’ordine, spargano voci sconfortanti e perturbatrici, ed alterando la pace interna rendano un involontario servizio ai nemici d’Italia. Il governo, incaricato di tutelare le legali libertà e l’indipendenza nazionale, crede in quest’occasione di assicurare i buoni, che sarà più che mai fermo nella politica annunciata nel suo programma e professata costantemente in tutti i suoi atti. L’idea dell’indipendenza italiana, è l’idea predominante del ministero, come dev’essere ed è in effetti quella di tutti i buoni Italiani e di tutti i veri e sinceri amanti della patria. Le faziose macchinazioni, non sono che di pochissimi.

Costituito il Parlamento, i desideri della nazione saranno legalmente soddisfatti e le sarà assicurato il suo vero progresso civile e politico. E che sia questo il desiderio del governo medesimo, lo ha mostrato il programma sopra citato, quando annunciava lo svolgimento dello Statuto da farsi dal potere costituito, massime per la parte che riguarda la Camera dei Pari, la quale composta di uomini additati con il maggior numero dal suffragio, ha realmente indizio di fiducia pubblica da non lasciar dubitare che concorrerà alacremente alle utili riforme”.

 

Nel giorno stesso in cui era lanciato questo proclama, nel “Giornale Costituzionale” si annunciava la nomina di cinquanta Pari e si davano le disposizioni per l’apertura del Parlamento che doveva avvenire il giorno 15 maggio nella chiesa di San Lorenzo.

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La vigilia della cerimonia, nelle sale comunali di Monte Oliveto, si raccolsero in seduta preparatoria, i Deputati presenti a Napoli sotto la presidenza di Cagnazzi.
La formula del giuramento, che il giorno dopo doveva esser prestato dal Sovrano e dai Deputati, fu il primo argomento di discussione.

Dopo accese discussioni l’assemblea, ritenendo insufficiente la formula proposta per i Deputati, provvide a inviare al ministero del Re una nuova formulazione :
“Io giuro di professare, e di far professare la religione cattolica apostolica romana; giuro fedeltà al Re del Regno delle due Sicilie; giuro di osservare la costituzione concessa dal Re il 10 febbraio”, stabilì di modificare la formula vecchia in una nuova in cui si giurasse di “osservare, e mantenere lo Statuto politico della Nazione con tutte le riforme e le modifiche stabilite dalla Rappresentanza nazionale, massimamente per ciò che riguardava la Camera dei Pari”.

Il testo venne accettato, e pertanto si provvide pure ad inoltrarlo al Sovrano. Ferdinando però si contrariò del fatto, ed il ministero presento le proprie dimissioni, che furono respinte da Re !

“La concitazione degli animi – “scrive il Settembrini nelle Ricordanze” – era grande e cresceva ad ogni ora, e pareva il montare della marea. I Deputati raccolti nella gran sala di Monte Oliveto, consigliavano, parlavano, mandavano messaggi al ministero e il ministero mandava ora questo ora quel Ministro ai Deputati con una nuova formula che però non era accettata. Nelle vie tutti parlavano, discutevano, ed era un andare, un venire, e talora grida e minacce”.

Ad un certo punto, le truppe ricevettero l’ordine di uscire dalle caserme e di occupare le piazze e i punti strategici della città; invece di calmare gli animi, la presenza dei soldati parve una provocazione e i più arrabbiati dei cittadini risposero erigendo per le vie cittadine numerose barricate.
Ferdinando II, di fronte alla dignitosa ma irremovibile “resistenza” dei liberali, si vide costretto nella notte dal 14 al 15 maggio, a comunicare ai Deputati una nuova formula cosi concepita :
“Prometto e giuro innanzi a Dio fedeltà al re costituzionale Ferdinando II. Prometto e giuro di compiere con il massimo zelo e con la massima probità ed onoratezza le funzioni del mio mandato. Prometto e giuro di essere fedele alla costituzione quale sarà svolta e modificata dalle due Camere d’accordo con il re, massimamente intorno alla Camera dei Pari, come è detto nell’articolo V del programma del 3 aprile”.

Finalmente i Deputati accettarono il tenore del testo e la mattina del 15 fu lanciato alla cittadinanza il seguente manifesto:

“La Camera dei Deputati, provvisoriamente riunita, reputa suo debito di rendere quelle grazie ché può maggiori alla gloriosa e intrepida guardia nazionale di questa città e a questo generoso popolo per la dignitosa e civile attitudine che hanno preso per tutelare e garantire la nazionale rappresentanza. Ma essendo l’intento, che tendeva al maggior benessere della Nazione, stato pienamente conseguito, -essa crede dover invitare la guardia nazionale a far scomparire dalla città ogni ostilità con il disfare le barricate, in modo che si possa inaugurare l’atto solennissimo dell’apertura del Parlamento, senz’alcuna, sebbene gloriosa, pur spiacevole ricordanza”.

Ma la “voce della Camera” non fu nemmeno presa in considerazione, e l’agitazione continuò a salire sempre più fomentata dagli esaltati, che tra la poca comunicazione di allora trovavano terreno fertile con audaci tentativi di prendere il potere.i più
Giovanni La Cecilia, uno dei più “caldi” ad esempio, andava dicendo che non si doveva cedere se prima il Re non avesse abolito la Camera dei Pari e non consegnava le fortezze alla Guardia nazionale.
A nulla valse un’ordinanza del Sovrano che fissava per le due pomeridiane di quel giorno l’apertura del Parlamento, confermando la formula di giuramento concordata con i Deputati; a nulla valsero le parole del Generale della Guardia Gabriele Pepe che esortava i cittadini armati a tornare alle loro case; gli animi oramai parevano troppo infiammati per tornare alla calma, tanto più che una voce asseriva che dalle province marciavano sulla capitale schiere della Guardia nazionale per difendere l’assemblea dei rappresentanti.
Come accade ancor oggi, a dar fuoco alle polveri, bastò un banale incidente, …due fucilate, sparate verso il mezzogiorno, presso la chiesa di S. Ferdinando, forse per errore o senza motivo apparente. Bastarono a far precipitare la città in lotta. Sulla reggia fu issata una bandiera rossa e subito le artiglierie cominciarono a tuonare dai fortini, mentre altri pezzi d’artiglieria, già per strada, fulminavano le prime barricate innalzate. Furono diciassette nella sola via Toledo e altre sessantadue nelle altre strade, con gran numero di morti e feriti.

Parecchi palazzi, fra cui quello Gravina, furono distrutti, le truppe svizzere (mercenarie) e le truppe napoletane, guidate dal Maggiore Nuziante e da Raffaele Carascosa, protette dai cannoni dei fortini e affiancate dalle batterie da campagna in strada, diedero l’assalto alle barricate, espugnandole una dopo l’altra, quindi assalirono le case sospette, che più tardi furono poi saccheggiate dalla plebaglia disperata che percorreva le vie della città al grido di “Viva il re ! Mora la Nazione !” forse assoldata appositamente.

Non si seppe mai il numero dei morti di questa terribile pagina di storia napoletana, ma 11 anni dopo, non deve destare stupore che la città si sia quasi regalata al liberatore Garibaldi senza resistere “all’invasore” come amano scrivere e denunciare gli odierni estimatori Neo Borbonici !
Duecento morti, o duemila come si disse al tempo, …fra questi il giovane Luigi La Vista, discepolo di De Sanctis. Seicento i prigionieri, fra i quali appunto Francesco De Sanctis, Domenico Morelli e Pasquale Villari.
All’inizio della lotta i Deputati riuniti a Monte Oliveto avevano costituito un comitato di salute pubblica, presieduto dal venerando Cagnazzi e formato dei Deputati Zuffetta, Giardini, Belalli, Lanza e Petrucelli, non riuscì ad intervenire in alcun modo : la battaglia ebbe il suo corso con le distruzioni, i morti i feriti, gli arresti ed i saccheggi.
L’ammiraglio francese Baudin, che avrebbe potuto farla cessare, preferì non intromettersi restando a bordo delle sue navi in rada fino al termine degli scontri.

Quando la resistenza dei liberali fu vinta, un capitano dei mercenari svizzeri si presentò a Monte Oliveto ai Deputati, intimando in nome del Re, che l’assemblea fosse sciolta.
I Deputati obbedirono, inviando al Sovrano la seguente protesta dettata da Pasquale Stanislao Mancini :
“La camera dei deputati riunita nelle sue sedute preparatorie in Monte Oliveto, mentre oggi 15 maggio 1848, era intenta ai suoi lavori e all’adempimento del suo mandato, si vedeva aggredita con inaudita infamia dalla violenza delle armi regie nelle persone inviolabili dei suoi componenti nelle quali è la sovrana rappresentanza della Nazione; protesta davanti alla nazione medesima, davanti all’Italia, l’opera del cui provvidenziale risorgimento si vuol turbare con un nefando eccesso; davanti a tutta l’Europa civile, oggi ridesta allo spirito di libertà, contro quest’atto di cieco ed incorreggibile dispotismo, e dichiara che essa sospende le sue sedute, solo perché costretta dalla forza brutale; ma, lungi dall’abbandonare l’adempimento dei suoi solenni doveri, non fa che sciogliersi per riunirsi di nuovo dove ed appena potrà, al fine di prendere quelle deliberazioni che sono acclamate dai diritti del popolo, dalla gravità della situazione e dai principi della inculcata umanità e dignità nazionale”.

Il giorno dopo, Ferdinando II licenziò lo stesso ministero, che avendo dato le dimissioni 48 ore prima, era stato costretto a restare al suo posto dal Sovrano che le aveva rifiutate, e ne formò uno nuovo.
La presidenza fu affidata a Gennaro Spinelli Principe di Cariati, che tenne per sé gli Esteri; all’interno con l’interim dell’Istruzione fu incaricato Francesco Paolo Bozzelli, all’Agricoltura e Commercio e l’interim agli Affari Ecclesiastici il Maresciallo di campo Francesco Pinto Principe di Ischitella, alle Finanze con l’interim della Grazia e Giustizia Francesco Paolo Ruggiero, ai Lavori Pubblici il Generale Raffaele Carascosa.
Lo stesso 16 maggio il Re ordinò lo scioglimento della Guardia nazionale napoletana e, nell’annunciare il provvedimento, il governo (pur sapendo di mentire) affermò che :

“una parte di quella Guardia nazionale, istituita per tutelare la sicurezza e la tranquillità delle famiglie, aveva non solo dato mano a sì miserevole perturbazione, ma aveva essa medesima cominciato un attacco contro le reali milizie, le quali, vedendo dei compagni cadere sotto l’inatteso fuoco di armi fratricide, dovettero usare il sacro diritto della difesa; e per un movimento di giusta indignazione, che non era in potere di alcuno di reprimere, lanciarsi tutte a respingere la forza con la forza”.

Oltre a questo, a Napoli, fu dichiarato lo stato d’assedio, e istituita una Commissione con l’incarico d’inquisire i reati commessi contro la sicurezza interna dello Stato dal 10 maggio in poi.
La Costituzione però non venne abolita, tanto che il 24 maggio furono indetti i comizi elettorali per il 15 giugno, decretando l’apertura del parlamento il 1° luglio.

“Profondamento addolorati – diceva il Sovrano nel proclama che convocava i comizi – dall’orribile giornata del 15 maggio, il nostro più vivo desiderio è di raddolcire quanto umanamente si può le conseguenze. La nostra fermissima ed immutabile volontà è di mantenere la costituzione del 10 febbraio pura ed immacolata di ogni eccesso, la quale essendo la sola compatibile con veri e presenti bisogni di questa parte d’Italia, sarà l’arca sacrosanta sulla quale devono appoggiarsi le sorti dei nostri amatissimi popoli e della nostra Corona. Le Camere legislative saranno fra breve riconvocate; e la sapienza, la fermezza e la prudenza, che attendiamo da loro saranno per aiutarci vigorosamente in tutte quelle parti della cosa pubblica, le quali hanno bisogno di leggi ed utili riordinamenti. Ripigliate dunque tutte le vostre consuete occupazioni; fidatevi con effusione d’animo della nostra lealtà, della nostra religione e del nostro sacro e spontaneo giuramento, e vivete nella pienissima certezza che la più incessante preoccupazione dell’animo nostro è di abolire al più presto, insieme con lo stato eccezionale e passeggero in cui ci troviamo, e anche per quanto sarà possibile la memoria della funesta sventura che ci ha colpiti”.

Alberto Conterio