NORD E SUD NELL’IMPRESA DEI MILLE
Giuseppe Giarrizzo
La storiografia sui Mille continua ad essere la piccola fiammiferaia della nostra storiografia patriottica. Nasce con Abba ed Oriani, si circonda della letteratura in prosa (Nievo, etc.) e in versi: si copre col tempo di stracci diplomatici e agiografici. Finché alla vigilia della guerra di Libia, grazie all’operazione Palamenghi, non viene assunta per la postuma corona di Crispi, a motivo del nuovo nazionalismo: e per questa via transita e riposa nei manuali degli anni Venti e Trenta. Che non vada meglio nel secondo Dopoguerra lo dice il silenzio che ha trovato il mio appello ad un differente, più maturo approccio in particolare a Garibaldi e a Crispi.
Colgo pertanto l’occasione dell’invito. E, per tenermi alla titolazione proposta (Nord e sud nell’impresa dei Mille), escludo ogni ricostruzione dell’impresa come tale – arcinota nei particolari e nel generale contesto. Voglio sottolineare invece due profili da cui può muovere una riconsiderazione del ‘caso’:
1. Garibaldi e l’iniziativa meridionale e
2. La ‘occasione storica’ di Francesco Crispi.
Garibaldi e la ‘iniziativa meridionale’
I fatti sono noti, ed hanno trovato – dopo l’articolata proposta di Giuseppe Berti del 1962 – una lucida ripresa nel’78 quando Romeo trasse dall’archivio Valerio la lettera a Vittorio Emanuele di Garibaldi, che l’affidava (4 gennaio 1855) a Lorenzo Valerio perché la trasmettese al re.
“Voi – chiedeva Garibaldi – dovete inviare 15 mila uomini in ajuto degli occidentali [impegnati in Crimea]; invece di 15, se ne preparino 25 mila (in questi tempi, nei paesi nostri, non è la gente esperta a determinare il numero d’una massa di truppe). I dieci mila siano imbarcati nella squadra nostra, e comandati da un ufficiale di vostra fiducia, e godente di alcuna popolarità”: esplicita l’autoinvestitura, con l’assicurazione che sbarcati in Sicilia i diecimila in due mesi sarebbero diventati 200 mila e dal Po, liberata la penisola, avrebbero proclamato Vittorio Emanuele il re d’Italia. “La spedizione deve costeggiare necessariamente, d’una parte o dall’altra; i 15 mila [su navi alleate] continuano la loro corsa a levante, i 10 sbarcano nel porto determinato. In due mesi, Sire, un esercito di dugento mila italiani giunge sul Po e vi proclama Re d’Italia. È un fatto compiuto! gli occidentali acquistano un contingente di 100 mila uomini [son la metà dell’esercito nazionale ‘sul Po’] in luogo di 15. Voi, Sire, avrete la benedizione di questo povero popolo che tace, ma che freme..”. Non è chiaro, nella ‘idea’ qui esposta, se i 10 mila dello sbarco in Sicilia siano regolari piemontesi ovvero (in tutto o in parte) irregolari – come Garibaldi e ‘gli uomini che gli credono’: la crescita impetuosa, da 200 mila, che ne accompagna la risalita dal Salso al Po, è certamente l’esito di un concorso di ‘volontari’; e forma l’esercito-massa, in grado di sostenere la rivoluzione che esso fa con l’atto stesso, spontaneo (23 gennaio 1855: “chi più dei nostri possiede la dote di spontaneità nell’azione?”) di costituirsi in esercito di popolo. Pur con differenze significative, l’interprete più ‘garibaldino’ di queste tesi politico-militari sarà il testo del ’56: Della guerra insurrezionale in Italia tendente alla nazionalità.
A Mazzini Garibaldi aveva scritto il 26 febbraio ’54: “Non credo difficile, intendendoci con quel governo, che [questo] ci lasci a noi l’iniziativa nel sud, ed allora non solamente quell’impresa si eseguisce sicura, ma si sostiene, si rafferma e si propaga sul continente colla celerità elettrica, marciando noi colla coscienza d’esser forti”. Nonv’ha dubbio sulla adesione di Garibaldi alla ‘iniziativa meridionale’, che ormai rappresentava – anche per il determinato rifiuto di Mazzini
– la nuova frontiera dei democratici, esuli e no, dopo la sconfitta del ’49: la ‘correzione’ di Garibaldi, che presupponeva un’intesa col re ed il governo di Torino, e che interpretava tensioni e conflitti presenti tra mazziniani e no, non smentiva comunque la linea Pilo-Fabrizi che puntava alla Sicilia come ai blocchi di partenza (esplicita la lettera di Pilo a Mordini, che è degli stessi mesi) della liberazione, e rigettava le alternative campane o calabresi di Pisacane-Nicotera. Lo sapeva bene Mazzini che a Nicola Fabrizi chiedeva (Ginevra 8 maggio 1854): per Garibaldi,“insisti sull’impossibilità di avere altrimenti l’Unità Nazionale, nella quale è credente. Quanto farai per cacciargli in testa che il partito repubblicano è forte in Italia, e che è necessario agire, sarà bene. Se quando lo vedi, aveste già notizia di fatti, bisognerebbe allora far più, e vedere se, riunendogli intorno un pugno di buoni, non si potrebbe cacciare addirittura sulla Sicilia. Come terreno ha simpatia per quello”. E per i cinque-sei anni successivi il ‘generale’ non avrebbe cambiato opinione o strategia.
La ‘preparazione’ dell’impresa che ebbe Genova ad epicentro (qui il pilastro settentrionale del ponte che in Sicilia si regge sul Comitato prima siciliano, quindi nazionale di Palermo), dove Pilo fra drammi privati e ‘sogni’ nutre l’idea di un’isola che insorge per diventare il luogo di raduno della rivoluzione unitaria, conoscerà fasi e ruoli da tempo individuati dalla storiografia: al centro il dibattito, decisivo per gli esuli siciliani (Amari e Crispi compresi, tra Parigi e Lon- dra), fra unità e federazione che costituisce il filo rosso del giudizio sui fatti, le colpe e gli errori del 1848-49. Non v’ha dubbio però che, tra Nord e Sud, la questione siciliana era diventata in area democratica, l’iniziativa meridionale che – per Garibaldi, Musolino, Pilo, Fabrizi, – doveva muovere dal Sud e dalla Sicilia per fare la nazione. Una strategia cui avrebbe dopo il ’57 aggiunto realismo la tragedia di Pisacane, e l’adesione di Crispi.
L’impresa dei Mille è quindi l’approdo, per Garibaldi e i democratici non mazziniani, di una idea-progetto di lungo periodo: senza l’iniziativa meridionale, l’unità – prima e dopo Villafranca – si sarebbe impantanata nella palude della diplomazia, e con Venezia e Roma ‘irredente’ lasciava la palla al piede d’una conversione liberal-moderata del Regno delle due Sicilie, fosse quest’ultima affidata ai neo-borbonici o ai murattiani. Nella finale decisione di Garibaldi sarà quindi la matura riflessione sull’urgenza di tagliare con una scelta autonoma il viluppo inestricabile di cui Cavour e i suoi sembravano aver perduto il bandolo. Ne troveremo le tracce evidenti persino nella tarda epopea di Abba. E non aiutavano la ‘conversione’ di, e l’ultima versione della Società Nazionale; o l’incontro a Genova con Cavour.
La ‘grande occasione’ di Francesco Crispi
Negli stessi mesi in cui, grazie a Giuseppe Berti, scoprivo l’iniziativa meridionale (e trovo singolare che le pagine di Romeo non abbiano prodotto una revisione più attenta del tema, e della originaria proposta), impegnato a studiare – accanto al ‘caso di Bronte’ – la vicenda del vicino comune rurale di Biancavilla (1963), sottolineavo l’importanza dell’opera di Crispi impegnato ad assicurare la tenuta ‘politica’ dell’impresa di Garibaldi.
Era stato uno dei passaggi più difficili e tormentati della sua vicenda politica. Crispi stenta a trovar la posizione di fronte a Mazzini, alla emigrazione siciliana, alla ‘iniziativa meridionale’: torna, tra Plombières e Villafranca, il timore che fu di Carlo Pisacane nel ‘55, e che è ancora nel ‘59 di Rosalino Pilo – l’erosione moderata dello spazio politico dei democratici, ai quali non resta che far saltare la polveriera di Sicilia. Allontanato dopo Villafranca Cavour dal governo, i democratici possono però rientrare nel gioco: il ‘complotto’ si allarga, ora con Garibaldi (e Farini), ci sono Rattazzi e Vittorio Emanuele. Se il gioco si fa politicamente ambiguo e pericoloso, la sfida è tanto più eccitante. Crispi vede il disegno e si muove con determinazione; viene in Sicilia dal 26 luglio al 3 settembre 1859,“gli animi sono pronti al movimento”. Eppure la verifica di ottobre lo indurrà a cautela, le indicazioni parranno di nuovo incerte; ma non sono i patrioti siciliani ad essere diventati in poche settimane cauti e incerti; è lui, Crispi, deciso ormai a trattare con il nuovo governo sardo le condizioni per uno sbarco in contemporanea con la discesa di Garibaldi nell’Italia centro-meridionale. Ma La Farina non collabora, Farini non si sente coperto, Rattazzi e il re non rischiano in presenza della pressione inglese per il ritorno di Cavour, ormai (dicembre ‘59) imminente. Il ‘pisacaniano’ Pilo, che ha propri canali diretti con la Sicilia, preme invece per lo strappo; e con Corrao tornerà nell’aprile 1860 in Sicilia a muovere la rivolta (presto repressa). Poi, in un contesto caratterizzato da colpi di scena e da alibi e ambiguità, il 6 maggio Garibaldi lascia Quarto per la Sicilia. Crispi è con lui: ha funzioni militari che presto dismetterà assumendo quelle di consigliere politico del ‘dittatore’, il quale lo nomina (Alcamo, 17 maggio ‘60) suo segretario di Stato. Sarebbe stata però la morte di Pilo a consegnare a Crispi l’iniziativa politica e la titolarità di essa, tagliando fuori i ‘pisacaniani’ e i radicali (La Masa ha ‘deluso’ a Calatafimi Garibaldi); e il segretario di Stato imporrà subito la sua linea. Delegittima i rivoluzionari comitati d’azione (attraverso la leva), nomina 25 governatori al posto dei 7 intendenti borbonici (fuggiti o rimossi); affida ai governatori il compito di reinsediare (dopo la eventuale epurazione e l’integrazione) i corpi locali, Consiglio civico e Magistrato municipale, eletti nel 1849; riconosce l’esercito siciliano del ‘48 con la sua gerarchia e modifica la destinazione delle quote dei demani comunali dai contadini allistati a compenso per i soldati della ‘leva’ e le loro vedove e orfani. I fatti di Bronte, di Biancavilla, di Alcara li Fusi ecc. e le repressioni manu militari sono esiti di queste scelte. Giacobinismo, populismo, laicismo? La storiografia anticrispina farà propria la linea ‘moderata’ di La Farina e di Cordova: e a tutt’oggi non si dispone di un quadro riassuntivo dell’opera, particolare e complessiva, dei governatori voluti da Garibaldi.
Per tal via, comunque, Crispi ha completato in Sicilia il modello imperfetto del ‘48: non bande ma esercito (di coscritti), poteri legittimi e non comitati rivoluzionari, ordinamento ‘siciliano’ e sovrano nazionale. E l’imponente operazione di ‘legittimazione’ della nuova Sicilia rende ancor più evidente la vocazione di Crispi uomo di Stato e di governo. Dovranno essere i plebisciti a fondare la legittimità popolare della monarchia, non le annessioni al Piemonte e la diffusione territoriale dei suoi istituti: ci sono ragioni e politiche e tecniche per conferire maggior respiro alla ‘iniziativa meridionale’, il cui diritto a fondare sulla vecchia nazione il nuovo Stato è più che mai l’ideologia della Sinistra democratica. Sul suo giornale «Il Precursore», Crispi ha già delineato con nettezza, tra il giugno e il novembre 1860, questa politica.
È la grande sfida con Cavour, il confronto interno con Depretis e Mordini, Fabrizi e Bertani, a rivelare Crispi a se stesso; né cospiratore né rivoluzionario, ma politico impetuoso e tenace, dotato nondimeno di una percezione eccezionale degli interessi in gioco che ora tutela ora scopre una politica delle alleanze, la cui spregiudicatezza Crispi confida di assorbire entro la coerenza di un progetto. In Sicilia e a Napoli, gli riesce così di diventare un punto di riferimento nella ‘corte di Garibaldi’. L’annessione della Sicilia (e delle province meridionali) va rinviata; “se nel Con- tinente Garibaldi non avesse ottenuto quelle vittorie che aumentarono la sua celebrità, era necessario che trovasse in Sicilia quell’asilo a cui gli dava diritto la grande opera della redenzione dell’isola” (alla Camera, il 6 giugno 1862). Frattanto le assemblee avrebbero operato, avviando – con una opera attenta di ‘riscoperta’ degli istituti positivi nel passato storico del regno meridionale – la costruzione dal basso del nuovo Stato. In più Crispi ha la diffidenza demo- cratica del plebiscito come strumento cesarista, svuotamento cinico del suffragio universale; della storia contem- poranea della Francia egli salva la Costituente e i primi atti della Convenzione (ché “dopo gli eccessi della repubblica sorse l’impero, il quale chiuse la sua epopea con l’invasione straniera”). Avrebbe detto nel 1861: “L’accentramento amministrativo è un gran male, e il suo sviluppo minaccia la libertà nelle presenti condizioni d’Italia. Il discentramento io lo stimo una necessità, perché con esso verrebbero a sentirsi meno gravi i danni inevitabili che sono obbligati a subire, nel gran lavoro dell’unificazione nazionale, molte province che per lo innanzi erano Stati autonomi. L’Italia nel suo interno ordinamento non può certo adottare il sistema francese. Questo sistema è contro le nostre tradizioni. Ci venne dalla conquista, fu conservato dal dispotismo; è per noi un ricordo di schiavitù. Ma l’accentramento […] non si abbatte con l’estendere l’autorità dei governatori. Bisogna sviluppare l’individuo, dargli coscienza delle sue forze, favorirne l’iniziativa. Ora a far ciò, non si va ingrandendo l’autorità degli agenti del potere esecutivo, ma svincolando l’autorità popolare” (alla Camera, il 6 luglio ‘61).
Contro Depretis e Mordini, Crispi ha competenza ed esperienza bastanti per argomentare la superiorità degli istituti giuridici e amministrativi del Mezzogiorno (“per bontà di codici e amministrazione superiore”). Già questo legittima la pretesa – contro Cavour e la Destra – di fare delle tradizioni positive del Mezzogiorno e della Sicilia, e non degli istituti subalpini la base della nuova Italia: altrimenti, non avrà sviluppi la trasformazione della monarchia sarda in ‘monarchia democratica’ e a fondamento del nuovo Stato rimarranno, amplificati, i valori aristocratico-conservatori della fedeltà alla dinastia e dell’esercito regio. Bisognava far presto, operare per decreto dittatoriale anche su materie che la legislazione borbonica aveva per decenni trattato con esiti non privi di ambiguità e di contraddizioni: ma l’urgenza non incide sulla nettezza delle formulazioni, sulla precisione del dettato giuridico. Crispi avvocato scopre anche per questa via il prestigio che gli deriva da un maneggio rapido rigoroso della lingua del diritto, e costituzionale e amministrativo, e privato. Resta singolare perciò la modesta attenzione di biografi e storici per questo aspetto importante della sua attività di avvocato, cui peraltro dei 40 anni di vita che ancora gli restano Crispi dedicò parte assai importante; e la sua oratoria parlamentare sobria e vigorosa si alimenterà di quella esperienza. L’asciuttezza dello stile giornalistico partecipa fin da ora dell’impasto bilanciato di scrittura argomentata e di oralità sobria, cogente: uno stile poco immaginifico, schivo d’enfasi retorica, incline semmai a rudezza, non tagliente bensì corposo.
Dal Sud viene al Nord quindi un progetto ‘nazionale’ che avrebbe traversato il tempo dei moderati, e le divisioni della prima Sinistra al potere. Chè in una con la Sicilia ‘liberata’ (e non conquistata),v’ha il non facile rapporto di Crispi con Garibaldi e presto, in modo plateale, la sua rottura con Mazzini.
A monte l’altro motivo dello scontro in Sicilia, e nella ‘liberazione’ del Mezzogiorno continentale, con La Masa e Corrao e l’insistita distinzione nell’esercito garibaldino tra ‘siciliani’ e ‘continentali’ – su cui Abba non sorvola. Cosa fosse il volontariato che si accompagna a Garibaldi per la spedizione siciliana, e ad ondate ne ispessisce i ranghi, sappiamo da lui stesso:“la parte eletta di tutte le popolazioni italiane, non avvezzi ai disagi, alle privazioni, gran parte studenti e molti laureati”. E di ‘parte eletta della nazione’ aveva nel ’56 parlato il La Masa, quando aveva proposto di formare con 8.000 studenti delle università italiane “la guardia sacra della nazione”: ”Questo corpo che raccoglie le intelligenze della nascente generazione non deve servire ad altro che a prestarsi nei momenti i più decisivi della guerra, quando la patria ha bisogno di uno slancio, di un esempio straordinario di eroismo. E nessun corpo più di questo è atto ad infiammare di nuova vita rivoluzionaria i popoli in qualunque istante di smarrimento che nascer potrebbe in una delle parti d’Italia [..]. Questo corpo avrà anche la prerogativa di moralizzare con lo esempio la nazione combattente, di affezionare i ceti e le province colla fusione che farà l’Italia in essi di tutte le nascenti intelligenze, che hanno famiglie in ogni classe di popolo sparso sulla terra che ha per limiti le Alpi e l’Etna”.
L’ideologia del volontariato garibaldino, essere al tempo stesso la legione sacra e il simbolo della ‘nazione combattente’, si era costruita per tal via in modo sistematico e coerente tra il 1855 e il ’56. Sopravvive, pur tra ambigue manovre e aggiustamenti, per un verso all’impatto sconvolgente di Pisacane e per l’altro alla diplomazia, non poi tanto sottile, dei Valerio e La Farina – per ricevere la prova del fuoco nell’impresa garibaldina di Sicilia, e preparare la propria disso- luzione nel dibattito del ’61 sull’esercito meridionale. I ‘picciotti’ di Sicilia, su cui è tornata di recente sterile e uggiosa la retorica regionalista, in quanto raccolgono il volontariato popolare dell’isola, sono un blocco composito socialmente, culturalmente, territorialmente. È facile distinguervi la ‘parte sana’ dai briganti: la prima è costituita da ‘anime belle’, da intellettuali e studenti, che nella sostanza si riconoscono nella ideologia del volontariato di Garibaldi-La Masa, e che hanno i prototipi nei Manara e nei Mameli, e si sentono con sincerità inattaccabile epigoni del byronismo europeo. La loro ‘politica’ risponde a sollecitazioni eroiche, capaci di esaltare con l’eccezionalità della vocazione una difficoltà di adeguamento non solo alla menzogna diplomatica, ma più alla prosa delle istituzioni: per essere ceto dirigente ‘di vocazione’, questa parte eletta del volontariato meridionale sarà portatrice – ora efficace, ora frustrata e frustrante – di un senso di inadeguatezza tra rivoluzione e progetto, che avrebbe costituito un’essenziale componente dell’eredità culturale del Risorgimento nel Mezzogiorno.
Più complesso è il discorso sui briganti(E si legga la lettera di A. Almirante a Lionardo Vigo, Castelvetrano 7 luglio 1860 («Memorie e rendiconti dell’Accademia degli Zelanti di Acireale», serie 3a, II (1982), pp. 13637): “All’alba del 16 [maggio] entrarono [in Calatafimi] i nostri prodi !.. Il paese fu tiepido [..], freddo [..] in proporzione di ciò che doveva fare ! Quei valorosi non ebbero l’ospitalità, non dico che meritavano ma che poteva offrirgli il paese [..]. Non dirò come alcuni di quei prodi giovani, svenuti dalle ferite, furono indegnamente svaligiati, saccheggiati, spogliati da villani ed assassini di quei contorni, che anzi da alcuni delle stesse squadre. Tiriamo un velo su ciò [..]. Verso 15 ore cominciarono a venire le squadre dei comuni vicini, e destarono qualche brio. E furono quelli di S. Ninfa, Partanna, Monte Vago, S. Margherita, Poggio Reale, Monte di Trapani, indi quelle di Castelvetrano, Sciacca, Menfi, Mazzara, Campobello, ecc. ecc. sicché alla sera il paese avea preso altro aspetto ! Insomma il 17 partì Garibaldi con i suoi, le squadre, totale circa 2000”. “Il giorno 2 [luglio] lunedì, sono partiti da questa [Castelvetrano] per Palermo n. 120 giovani volontari, con i denari pei cavalli, e i carri con le tele ec. ec. [..] fra essi vi erano i miei fratelli, Pietro e Michele, [..]”. L’Almirante era capocomico di una compagnia di passaggio a Castelvetrano (pp. 13839.) e sulle ‘guerriglie siciliane’. Non molto, a dire il vero, si è fatto per analizzare il composto socio-culturale delle bande siciliane delle Madonie cui Pilo, La Masa e Corrao cercheranno di conferire una dimensione ‘rivoluzionaria’: la povertà critica di gran parte della nostra storia locale non consente che brevi spunti.
E tra tutte, mi par che vada privilegiato il carattere politico ancor più che sociale di questo brigantaggio meridionale, che offre un appoggio logistico essenziale all’impresa garibaldina, e alimenta il volontariato popolare: politici, perché prodotto da contese più o meno incardinate su ceppi familiari o su clan attorno al potere municipale, che dopo gli anni ’20 (quando entra la voce guerrilla) e attraverso lo sconvolgimento del ’48 è emerso come il terreno vero della lotta po- litica locale in Sicilia e nel Sud. Ché per esso, si tratti della questione fiscale o di quella demaniale, si son divise le parti nel Mezzogiorno tra democratici e non: ed i comitati d’azione, attraverso cui passa – per sollecitazione quanto per per- suasione – il nastro sottile del volontariato popolare, sono quasi dappertutto, e i capi e i gregari, costituiti da ‘comunisti’, dal partito della rivendica dei demani usurpati e della (mancata) censuazione ai contadini poveri. Le ‘guerriglie’ siciliane, i briganti ‘rivoluzionari’ di Calabria o di Lucania non sono perciò banditi sociali, bensì un singolare composto di crimi- nalità urbana (o a direzione urbana) e di banditismo politico, caratterizzato così da protervo desiderio di potere e non da generoso giustizialismo – com’era dei ‘briganti onesti’, da Garibaldi vagheggiati.
Epperò dei due gruppi, della ‘parte eletta’ e delle squadre, son queste ad aver assunto più netto rilievo nel discorso storiografico, e in quello comune, sul volontariato meridionale. Se poi si tien conto del fatto che l’apporto delle squadre fu localizzato, anche quando lo si considera decisivo, è certo che quel discorso risulta fuorviante ove lo si svolga senza riferimento, e ancor più con intenzionale esclusione del ruolo di Garibaldi. Ché la sua lettura ‘onesta’ di quel brigantaggio meridionale, l’intuizione del carattere politico di esso gli consentirono quasi senza sforzo, e comunque con un’eccezionale capacità di suggestione (tanto forte da coinvolgere lo stesso ‘san Garibaldi’), di portare le squadre, questo volontariato ambiguo e difficile, su un terreno di svolta politico-militare irreversibile: il che non sfuggì a osservatori penetranti come Abba e Nievo (poco videro, o poco vollero vedere La Masa e Crispi), e li portò a esagerare i limiti dell’impresa e ad oscillare incerti fra spiegazione ‘eroica’ e spiegazione sociale della liberazione del Mezzogiorno.
Con il riferimento a Garibaldi, siam riportati al centro del problema storiografico che non si esaurisce certo in una statistica (più volte tentata, e con esiti tutto sommato discutibili) della provenienza regionale dei Mille, e dell’esercito garibaldino; bensì si addensa attorno ai nodi politici che serrano, tra il maggio e il settembre ’60, le membra attorte della società meridionale. Il processo culturale e politico, che vede in quei mesi disegnarsi dietro il Garibaldi ‘nazionale’ del 1856-60 i tratti duri del ribelle del 1862-64, impone caratteri e limiti del volontariato meridionale: in Sicilia il decreto del 2 giugno ’60, che ridefinisce per più ristretti destinatari (i ‘volontari’ ed i coscritti della liberazione) l’annosa questione demaniale, ratifica le adesioni date, non basta a produrne di aggiuntive; e più in generale, l’appello trova eco specie sul Continente, dopo le vittorie siciliane, in una consistente fascia di emarginazione sociale, la stessa cui si è attinto e si continuerà ad attingere nei decenni unitari per ‘la sostituzione’ nel servizio militare, e che più tenace coltiverà l’illusione di potere per tal via trovare stabile e dignitosa condizione sociale.
D’altra parte, il radicalizzarsi dei contrasti politici nazionali che trovano nel Mezzogiorno, ed in quei mesi un luogo privilegiato (e che producono, in modo distorto, l’illusione della centralità meridionale nella politica nazionale), non produce solo una rarefazione del volontariato popolare ma ne trasforma quasi di colpo i caratteri: liberazione del Mezzogiorno o liberazione d’Italia? Non basta, come avrebbe fatto Garibaldi, rinviare ad altro tempo gli atti conseguenti ad una decisione già presa; si tratta di lasciare, spoglia ormai senza vita, l’ideologia della ‘concordia’, che era l’anima del volontariato alto di Garibaldi e di La Masa, e di rimontare al suo posto suggestive supplenze (‘la nazione armata’,‘l’esercito doi popolo’ ecc.) capaci di tenere sotto la violenza dello scontro politico, solo a condizione di svigorirsi da programmi a formule. Sicché la storia del volontariato popolare del Mezzogiorno si identifica con la stagione troppo breve di un segmento forte della tradizione democratica: la cangiante rapidità del processo, la crisi irreversibile dell’ideologia della ‘concordia’, sul terreno politico e su quello sociale, aiutano a spiegare le incertezze d’una tradizione storiografica che il volontariato banalizza a misuratore del ‘contributo originale del Risorgimento’; e quando ne segna il basso livello dell’apporto locale, esita a toccare il piano alto della ‘iniziativa popolare’. Quello appunto, su cui tra il 1862 e il ’64 si riapre la dialettica tra garibaldinismo e mazzinianesimo.
Ma ‘popolo’ non ha in Mazzini e Garibaldi lo stesso contenuto: non si ritrova in questi la radice religioso-romantica così forte in Mazzini, per cui etnia lingua nazione si coprono; il popolo di Garibaldi è piuttosto le “peuple” della democrazia francese, la classe o piuttosto le classi oppresse che attendono di essere liberate dal dispotismo interno e/o esterno, e restituite al lavoro ‘onesto’. La spontaneità etica del popolo di Garibaldi non ha dunque i tratti mistico-panteistici del popolo-nazione di Mazzini: le ‘masse’, che Garibaldi dichiarava di conoscere meglio di Mazzini, sono perciò assai poco articolate politicamente; ma per ciò stesso capaci di avvertire l’eccezionale fascino del dittatore che le guida (“come facevano i nostri padri” romani) ‘col fascino da una parte e la mannaia dall’altra’. Mazzini “non aveva mai avuto contatti col popolo, ma con questo ‘solo interprete della legge divina’, non con questa densa massa che arriva fino al suolo, cioè fino ai campi e all’aratro, fino ai selvaggi pastori calabresi, ai facchini e ai barcaioli; invece Garibaldi era vissuto con loro, non solo in Italia ma dappertutto, conosceva le loro forze e la loro debolezza, il loro dolore e la loro gioia; li conosceva sul campo di battaglia e in mezzo all’oceano burrascoso e, come Böhme, aveva saputo divenire una leggenda: credevano più in lui che nel suo patrono S. Giuseppe” (Herzen) (Cfr. la lettera di Bakunin a Garibaldi, Londra 31.1.1862 («Movimento Operaio» 1952, pp. 7892); e il brano (genn. ’72) di Bakunin in M. Bakounine et l’Italie 187172, ed. Lehning, 1, 1961, p. XV nota 2, 1963, p. 190: 1860, a Irkutsk, nella Siberia orientale. “Tout le public d’I., presque sans exception, marchands, artisans, jusqua’aux fonctionnaires mêmes, prênait passionnément parti pour le libérateur contre le roi des DeuxSiciles, le fidèle allié du Tsar! La poste n’arrivait alors à Irkoutsck que deux fois par semaine, le télégraphe n’existait pas encore; et il fallait voir avec quel enthousiasme on fêtait chaque novel exploit du général libérateur! Dans les années 1860, 1861 et 1863, lorsque le monde rural russe était si profondément agité, des paysans de la Grande et de la Petite Russie attendaient la venue de Garibaldof, et lorsqu’on leur denmandait qui c’étaient, ils répondaient: ‘C’est un grand chef, l’ami du pauvre monde, et il viendra nous délivrer’ ”. Bakunin era dal ’45 massone, Garibaldi dal 1844. Per i rapporti con i massoni toscani (Dolfi, Mazzoni, Lo Savio e la loggia Il progresso), A. Lehning, intr. cit., p. XVI.).
Ho provato ad esporre sommariamente i due temi scelti: essi per un verso confortano la tesi che – per via degli esuli meridionali, e dell’esperienza garibaldina tra il 1860 e il ’62 – la nuova Italia era meno sconosciuta alla cultura politica del Sud di quanto non fosse all’Italia politica del Nord, che dovrà aspettare dalle inchieste pubbliche e private degli anni ’70 un disegno più accurato e ‘reale’. Per l’altro verso, essi chiedono ulteriore ricerca, diretta per nuovi percorsi: v’ha spazio per una storia dell’Italia tra Otto e Novecento ‘vista dal Sud’; e in questa dovrà essere riaperta – attraverso il caso Crispi – la differente sorte delle parti del Sud liberato, tra la Sicilia chiamata a compiere la ‘rivoluzione’ del ’48 e il Mezzogiorno continentale, dove il brigantaggio diventa guerra civile. Le parti son date nel canovaccio: ora tocca agli interpreti, siano storici o attori poco importa.