IL REGNO DELLE DUE SICILIE TRA MITO E REALTÀ
Giuseppe Galasso
Anche per il Regno delle Due Sicilie si è verificato il fenomeno ricorrente per tante realtà storiche(Per le ragioni della circostanza in cui questa relazione fu letta si limitano le note all’essenziale di pochi riferimenti testuali. Si nota, peraltro, che quanto qui si dice è fondato largamente sulle ricerche e gli studi dell’autore in materia di storia del Mezzogiorno, per i quali si cita qui, preliminarmente, Storia del Regno di Napoli, 6 voll., Torino, Utet, 20062010, alla quale si rinvia per tutti i casi in cui non si dà qui altra indicazione.): il fenomeno per cui esse diventano un mito soltanto dopo che il loro fato si è compiuto(Il tema del mito nella storia è oggetto, come si sa, di una letteratura sterminata.
Ci limitiamo a citare J.P. Vernant, Mito, in Enciclopedia del Novecento, vol. IV, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, pp. 350367; e M. Detienne, Mito/rito, in Enciclopedia Einaudi, vol. 9, Torino, Einaudi, 1980, pp. 348363. Va, però, notato che l’interesse al tema del mito è stato soprattutto degli studiosi di antropologia, etnologia, psicologia e scienze affini. Uno studio altrettanto organico per quanto riguarda storia e storiografia non appare praticato, salvo che per quanto riguarda particolare settori, come, ad esempio, la storia antica, o singoli argomenti (biografie, leggende, agiografie e simili o eventi. ).
Esempio illustre, e forse il maggiore, in tal senso, almeno nella storia dell’Europa moderna, è certamente il “mito asburgico”. Un organismo statale solido, fondato su una disciplina sociale e istituzionale più che robusta, come dimostrò nel suo ultimo momento della verità, quando, nella prima guerra mondiale, il molteplice mosaico dei molti popoli presenti nella composita fisionomia della duplice monarchia d’Austria e Ungheria rimase in piedi per tutto il conflitto, e le sue davvero
multinazionali forze armate combatterono con fedeltà e con onore sino alla fine. Ma ciò non significa che l’organismo politico della monarchia fosse davvero vegeto e sano. Le spinte nazionali lo minavano profondamente e i loro movimenti centrifughi si facevano sempre più insistenti, anche perché governi di Vienna e di Budapest contribuivano a inasprirli sempre più con la loro miope politica conservatrice. Anche la vita sociale si sentiva non poco soffocata da un tradizionalismo, formalismo e burocratismo, che rendevano il mondo asburgico un caso topico di queste caratterizzazioni anche fuori del suo ambito. Le istituzioni parlamentari e liberali non erano di grande respiro (a Vienna si votava ancora per curie), e le critiche in tal senso erano forti e crescenti, anche per lo sviluppo dell’economia e della società in varie parti della monarchia. Dopo il 1918 l’impero degli Asburgo divenne – come è noto – un modello di convivenza plurinazionale, di ordine e di certezze di valori civili, di tolleranza e pluralismo culturale. La “dolcezza del vivere” propria di tutta l’Europa pre-bellica fu attribuita a merito specifico dell’impero, quasi che fosse esso a tenerne una sorta di esclusiva. Senonché, basterebbe pensare che la divisone dell’impero a seguito della sua sconfitta ne fece nascere varii Stati, che non hanno mai più sentito il bisogno di tornare insieme, per dedurne qualche elemento di dubbio sulla postuma mitizzazione di un centro certamente tra i maggiori della civiltà europea per secoli, ma fondato su una serie di valori dinastici e tradizionali, che altrettanto certamente non potevano rientrare nella fisonomia civile ed etico-politica del secolo XX; e si spiega che la rappresentazione e l’attesa di coloro che proponevano l’impero asburgico come una specie di modello sopranazionale o multinazionale dell’Europa, che dalla metà di quel secolo è andata e va costruendo la sua unione politica, non abbia avuto alcuna eco (Per il mito asburgico cfr. G. Galasso, Austria e Asburgo (rileggendo Ranke e Brunner), in Id., Nell’Europa dei secoli d’oro. Aspetti, momenti e problemi dalle “guerre d’Italia” alla “Grande Guerra”, Napoli, Guida, 2012, pp. 129160.).
Il caso delle Due Sicilie non è, ovviamente, dello stesso rilievo, ma rientra indubbiamente nella stessa casistica. Il Regno, che era passato nella massima parte della tradizione e della memoria storica non soltanto italiana come un caso patente di politica reazionaria e illiberale, e che era stato ritenuto un caso altrettanto chiaro di arretratezza civile e sociale, si è trasformato, nel mito che se ne è costruito, in un paese all’avanguardia dello sviluppo industriale del suo tempo, bene ordinato e amministrato, ricco nelle sue finanze ma lievissimo nelle sue imposizioni fiscali, stretto intorno al suo re, temuto e rispettato in Europa, senza particolari problemi sociali, severo ma corretto nella sua giustizia, a un livello diffuso di benessere secondo le condizioni del tempo, senza malavita o banditismo degni di rilievo, e così via enumerando. E su questa stessa base sono state anche qualificate per contrasto, rovesciando quelle note positive, le condizioni del paese meridionale dopo l’unificazione italiana.
Come è ben noto, questo rovesciamento di giudizio è prodotto soprattutto fra il XX e il XXI secolo. Meno notato è che non si è trattato di un rovesciamento isolato, riguardante unicamente il Regno, bensì tutta una serie di questioni della storia italiana nell’età moderna e contemporanea, nonché molte importanti questioni della storia europea.
Per il Regno non vi fu, dopo la sua caduta, una letteratura nostalgica di qualche rilievo. Se si toglie qualche opera storica, in parte anche utile, come quella del De Sivo, e qualche pamphlet dei primi anni dell’unità italiana, può ben dirsi che non vi sia altro. In letteratura e nelle arti, in particolare, l’eco della perduta, plurisecolare indipendenza del Mezzogiorno fu minima. Se una reazione in tal senso da parte meridionale vi fu, essa si tradusse e si concretò piuttosto nella letteratura antiparlamentare e antiromana che ben presto si sviluppò nell’Italia unita, come motivo di critica, spesso feroce, delle condizioni e dei modi della vita pubblica di questa nuova Italia piuttosto che come un plaidoyer per la dinastia caduta e per la Napoli di prima del 1860. E anche quando è suonata l’ora del rovesciamento di giudizio di cui si è detto, esso si è manifestato in scritti di polemica storica, economica, politica non in opere d’arte e di poesie: il che ha pure la sua importanza. A sua volta, il lealismo borbonico che nel Mezzogiorno si pretende così forte da aver suscitato col brigantaggio una vera e propria guerra di indipendenza, svanì rapidamente. Già alla fine del secolo XIX si era formato un nuovo lealismo, sabaudo questa volta, che attecchì tanto da manifestarsi fortissimo nel referendum istituzionale italiano del 1946, quando le immagini del re Umberto II e dei suoi familiari campeggiavano nelle piazze e nelle case, ultima espressione del profondo e radicato sentimento monarchico meridionale, tramontato lentamente solo dopo di allora (che è la ragione per cui appare davvero artificioso il revival borbonico dalla fine del secolo XX in poi) (Non risulta che vi sia stato ancora un bilancio complessivo delle questioni accennate nel nostro testo. Per alcune questioni storiografiche, se ne veda tuttavia un caso significativo in A. Barbero, I prigionieri dei Savoia. La vera storia della congiura di Fenestrelle, RomaBari, Laterza, 2012. Per quanto riguarda il brigantaggio si veda più avanti il riferimento allo studio del Molfese. Sicuramente da notare è, poi, come nelle postume e fin troppo spesso inconsulte polemiche dei cosiddetti “neoborbonici”, della larghissima diffusione del monarchismo sabaudo non si faccia nessun conto, malgrado la tanto cospicua traduzione elettorale che esso ebbe in ultimo per molti anni dopo l’instaurazione della Repubblica.)
Più notevole è che l’accennato rovesciamento di giudizio si sia sviluppato nella secondametà del secolo XX in due tempi.
Dapprima si è avuta, infatti, la non breve stagione del revisionismo rivolto a ridurre il senso, la portata e i risultati e l’eredità del Risorgimento. Questo primo momento, prolungatosi più o meno fino agli anni ’80, si rifletteva solo indirettamente sul problema del Regno. La critica era, infatti, rivolta all’Italia unita e alla sua azione nel Mezzogiorno, ed era, in sostanza, molto più un’analisi della “questione meridionale“ che una riconsiderazione della vicenda del Regno. Tuttavia, l’ombra gettata sul periodo unitario, con l’individuazione di una – per così dire – colpa storica dell’Italia liberale e della sua classe politica rispetto al Mezzogiorno implicava, in ultima analisi, che le condizioni di partenza dello stesso Mezzogiorno apparissero, almeno potenzialmente, meno pregiudicate e pregiudizievoli di quanto la tradizione risorgimentale e post-risorgimentale volesse. Libri come quelli di Zitara sulla “nascita di una colonia” o di Carlo Capecelatro “contro la questione meridionale” mostrarono tempestivamente la sottile, ma reale trama di queste implicazioni. D’altra parte, la definizione del Mezzogiorno come “colonia interna” dell’Italia liberale non era nata allora, essendo legata addirittura allo sviluppo del meridionalismo, e appartiene a un indirizzo critico di fondo rispetto al Risorgimento(Per i punti principali e lo svolgimento del dibattito sul Mezzogiorno e del pensiero meridionalistico cfr. G. Galasso, Il Mezzogiorno da “questione” a ”problema aperto”, Manduria, Lacaita, 2005.).
In un secondo momento si è avuto, invece, in pieno e in toto il rovesciamento di giudizio che rapidamente ha finito col proporre delle Due Sicilie il profilo largamente positivo al quale si è accennato, determinando, peraltro, anche in questo caso, un giudizio severissimo sulle vicende e sulle condizioni del Mezzogiorno nell’Italia unita. In particolare, appartiene, poi, a questo secondo momento l’elaborazione ultima, più drastica e più negativa, della confluenza del Mezzogiorno nell’unità italiana come “conquista piemontese”: formula anch’essa per nulla nuova, ma portata ora a una ampiezza illimitata di negatività fattuale e politica(“Conquista piemontese” è un calco della più vecchia definizione di “conquista regia”, che Omodeo riprovava nella storiografia dei Missiroli, Gobetti e altri (cfr. A. Omodeo, Difesa del Risorgimento, Torino, Einaudi, 1951, pp.442). L’espressione appare, peraltro, a ben vedere, una derivazione, diffusasi nella polemica politica antimonarchica e antisabauda a unificazione italiana realizzata, dalla formula mazziniana e repubblicana della “guerra regia” contrapposta nel 18481849 alla “guerra di popolo”. La “conquista regia” diventa, a sua volta, “conquista piemontese” nella polemica meridionalistica, già nella scia di Guido Dorso. Il posteriore stravolgimento dell’espressione in senso radicalmente critico e negativo rispetto al Risorgimento e nella pubblicistica neoborbonica era abbastanza ovvio, e si è, infatti, prodotto senza soluzione di continuità e con tutta naturalezza negli ultimi decennii del ‘900).
Questo secondo momento è senz’altro quello in cui il mito del Regno ha trovato l’espressione più compiuta. In esso ha, inoltre, trovato ampio e particolare spazio una ristrutturazione delle vicende meridionali dei primi anni dell’unità incentrata sul brigantaggio visto come rivolta nazionale e guerra di indipendenza del Mezzogiorno. Le stesse vicende erano state giudicate, nel primo dei due momenti di cui parliamo, come una guerra sociale delle classi soprattutto, se non esclusivamente, contadine contro le usurpazioni di terre e di diritti sulle terre massicciamente operate dalla borghesia, vera e sola beneficiaria del moto risorgimentale. A questa valutazione indulse largamente la storiografia di ispirazione gramsciana, anche forzando, a nostro avviso, il senso più autentico della formula della “rivoluzione agraria mancata” in Gramsci.
Dall’interpretazione classistica a quella nazionalistica il passo non era breve. Ancora maggiore può essere, addirittura, giudicata la diversità di ispirazione politica fra i due momenti. Nel primo, infatti, prevalsero, molto chiaramente, ispirazioni democratiche e sociali, e anche qualche accento liberale, quale che poi sia il conto da farne. Nel secondo momento leggere una cifra politica appare molto difficile. L’attualità della congiunta mitizzazione sembra esaurirsi in una serie di motivi pre- o sub- o metapolitici, unificati soprattutto da varie sfumature di campanilismo meridionale. Un campanilismo – va anche detto – esulcerato dalle particolari condizioni e dagli sviluppi della lotta politica in Italia in quanto relativa al motivo del dualismo italiano, e dalla conseguente polemica antimeridionale promossa specialmente dalla Lega Nord, ma (sia ben chiaro) non limitata ad essa(Si veda su questo punto G. Galasso, Lo spazio del meridionalismo al tempo della Lega, in «L’Acropoli», 12 (2011), pp. 6670; poi, col titolo Il meridionalismo al tempo della Lega, in La prospettiva del meridionalismo liberale. Studi in onore di Rosario Rubbettino, a cura di M. Serio, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2012, pp. 273280).
Fra l’uno e l’altro momento il vero elemento di raccordo si è venuto, così, a collocare nel comune atteggiamento di revisione del giudizio storico sul Risorgimento, che ha portato a una larga diffusione, fra l’altro, di un totale o quasi totale disconoscimento della positività della grande costruzione storica, alla quale il Risorgimento ha messo capo, e cioè lo Stato nazionale unitario.
Le congiunture politiche e sociali, in cui questo disconoscimento ha segnato nell’Italia fra XX e XXI secolo il suo cul- mine, sono note, e sono esse a spiegare la similare convergenza fra rivendicazionismo settentrionale e revanscismo (o come altrimenti lo si debba definire) meridionale. Per questa convergenza è accaduto addirittura che i libri della protesta o del revisionismo meridionale abbiano potuto avere nel Nord del paese un successo pari o superiore che al Sud, proprio perché tali libri mettevano in discussione e bollavano negativamente il Risorgimento e i suoi esiti.
Contrapporre al mito così sorto e sviluppatosi intorno alla storia del Regno delle Due Sicilie una raffigurazione più rispondente a una realtà credibile di tale storia è ciò che hanno fatto e fanno molti studiosi italiani e stranieri in condizioni rese, peraltro, molto difficili dagli avvenimenti correnti della cultura e della società italiana, nonché dall’eco non meno diffusa che questi orientamenti hanno avuto all’estero e da varie inversioni di tendenza che si sono registrate anche nella cultura e negli studi storici di altri paesi. Essendo, inoltre, il mito delle Due Sicilie parte, come si è detto, di una più generale revisione della storia italiana dal Risorgimento in poi, il lavoro sulla storia delle Due Sicilie ne risulta reso ulteriormente difficile. La contrapposizione ai miti è, tuttavia, un compito tutt’altro che congiunturale del lavoro storico, così come di ogni lavoro intellettuale. Al contrario: ne esprime una direzione permanentemente obbligata. La pura e semplice contrapposizione ai miti ai fini della necessaria demistificazione non può, tuttavia, esaurire l’orizzonte storiografico a tale riguardo. Oltre a chiarire la genesi del mito e il suo ufficio storico, occorre, infatti, rendersi anche conto di quel che nelle elaborazioni e nelle formulazioni del mito affiora di novità, di conferme, di integrazione e am- pliamento delle nostre conoscenze su qualsiasi piano, filologico o critico che sia.
Posta così la questione,che cosa si può dire della vasta revisione portata avanti da più parti a proposito delle Due Sicilie? In sostanza – si può ben rispondere – molto poco,sia per quanto riguarda più propriamente le storia del Regno,sia per quanto riguarda i postumi di quella storia, e, così, in particolare, il brigantaggio e, più in generale, la questione meridionale.
Per la storia del Regno la rivendicazione dei numerosi “primati” attribuiti al Mezzogiorno pre-unitario, a parte la specifica fondatezza e natura di ciascuno di tali primati (Un punto di partenza al riguardo può essere considerato M. Vocino, Primati del Regno di Napoli, Napoli, Mele, 1960 (II ediz. Napoli, Grimaldi & C. 2006), che in occasione del primo centenario dell’unificazione italiana volle contrastare la rappresentazione di negatività e di arretratezza che allora si era data del Mezzogiorno specialmente da parte piemontese. Vocino si muoveva, però, sulla base di saldissime convinzioni unitarie e non intendeva sminuire per nulla i valori risorgimentali e nazionali. La sua era una preoccupazione ispirata in sostanza al desiderio di difendere il nome e rivendicare le glorie della “piccola patria” meridionale nel quadro di quella che era diventata la “grande patria” italiana. Le posteriori discussioni sui primati napoletani e le relative rivendicazioni hanno avuto, invece, il senso antirisorgimentale e antiunitario di cui diciamo nel testo.), vale ben poco a rovesciare, o solo a minimamente modificare, il giudizio complessivo sullo sviluppo del Regno, che in base a tutti i principali indicatori statistici disponibili alla data del 1860 rimaneva, nel quadro europeo, assai basso. Incredibile del tutto è la rivendicazione del Regno come potenza industriale, addirittura terza dopo Inghilterra e Francia: il che è ancor più incredibile in quanto su questo piano era l’intera Italia a ritrovarsi arretrata. La dotazione di infrastrutture era bassissima sia per quelle materiali (tipico il caso delle ferrovie) che per quelle relative alla diffusione dell’istruzione e per le attività di ricerca scientifica. Il basso livello della tassazione, i conti dello Stato in ordine, la forte riserva del tesoro e l’alto valore della moneta appaiono certamente fondati, ma che tutti questi fossero fattori di sviluppi in atto non appare da nessuna parte.Al contrario, emerge sempre che, per l’uno o per l’altro aspetto, alcuni di essi giovassero, semmai, non favorevolmente, alle esigenze dello sviluppo. Si aggiunga la scarsissima diffusione di servizi bancari e finanziari, e si spiegherà meglio come, malgrado l’alta prote- zione doganale, di un processo di sviluppo non si scorgessero nel Mezzogiorno pre-unitario che elementi puramente potenziali, come, del resto, gli stessi scrittori napoletani dell’epoca dicono.
A un revisionismo colto a collocare le differenze regionali nell’Italia del 1860 in una logica di storia economica generale, non di rivendicazionismo meridionale, appartengono gli studi recenti sulle differenze regionali del reddito e del valore aggiunto. Essi tendono ad affermare una sostanziale parità dei redditi che del valore aggiunto al momento dell’unità.
Le differenze fra Nord e Sud si sarebbero determinate soltanto dopo il 1861, e già un ventennio dopo avrebbero cominciato ad essere di un qualche rilievo. Questi studi sono tecnicamente assai difficili e sempre discutibili. Tanto più, quindi, per questa difficoltà e discutibilità appare poco verosimile lo spazio di un ventennio per determinare l’avvio di un processo dualistico così consistente come quello che ha finito col caratterizzare il rapporto fra il Nord e il Sud del paese; soprattutto, poi, appare trascurato in una tale prospettiva un dato sicuro e inconfutabile della storia economica dell’Italia unita, e cioè che lo sviluppo industriale e moderno del paese ha avuto a lungo limitazioni territoriali assai forti, avendo investito soprattutto il celebre “triangolo” Milano-Torino-Genova. A centocinquant’anni dall’unificazione il dualismo del paese appare esteso a confini ben più larghi di quelli del “triangolo”, e a uno sviluppo addirittura in alcuni luoghi e per alcuni versi più forte che nel “triangolo” stesso. E tutta questa permanenza dualistica si sarebbe avviata irreversibilmente nel primo ventennio dell’unità? Sarà consentito di essere piuttosto scettici a questo riguardo, a meno di non voler credere alla conquista e rapina piemontese, alla colonia interna e alla costante oppressione settentrionale di un Mezzogiorno senza una sua parte di rilievo (che esso, invece, ha avuto) nella vita e nelle decisioni politiche dell’Italia in tutto questo periodo.
Una base dualistica deve, insomma, essere pur presupposta nel paese al momento dell’unità, congiunta a caratteri strutturali del Mezzogiorno, che il corso della storia posteriore non è valso a sciogliere, come è, invece, accaduto per varie altre regioni italiane, che ancora dopo la seconda guerra mondiale erano lontane dai livelli di sviluppo dell’Italia nord-occidentale. Ed è per questo motivo che nello studio dei problemi del Mezzogiorno è soprattutto dal Mezzogiorno che si deve partire ed è ad esso, anche oggi, che si deve arrivare.
Per il periodo unitario la discussione si è accentrata sui metodi della “conquista piemontese”, e in particolare sul numero dei morti e sulle distruzioni e devastazioni che si ebbero nelle operazioni con cui quel fenomeno fu affrontato. Studi che abbiano la stessa validità filologica di quelli di Franco Molfese(Cfr. F. Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’unità, Milano, Feltrinelli, 1966. Dello stesso A. si veda pure La repressione del brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno continentale (18601870), negli Atti del Convegno Il brigantaggio postunitario nel Mezzogiorno d’Italia, contenuti in «Archivio Storico per le Province napoletane»,101 (1983), pp. 3364.) non ve ne sono stati.
Il dato dei 5-6000 morti da lui calcolato rimane, perciò, tuttora il più attendibile. Anche chi lo raddoppia, su basi molto aleatorie, non modifica, perciò, apprezzabilmente la proporzione generale rispetto alla vastità del territorio e alla consistenza della relativa popolazione. C’è poi chi vorrebbe calcolare anche la perdita demografica avutasi per la mancata funzione procreativa di tanti caduti, e, attribuendo alla popolazione maschile meridionale fra i 20 e i 40 anni nel 1871 lo stesso coefficiente di incremento della corrispondente popolazione maschile settentrionale. Ma è evidente la precarietà di simili calcoli.
In realtà, le manifestazioni del brigantaggio furono imponenti e richiesero grandi e vaste operazioni repressive per l’ampiezza del territorio e per le provenienze e le solidarietà sociali su cui esso si fondava. Altre volte nella storia del Mezzogiorno era accaduto lo stesso. Sotto il viceré Marchese del Carpio la guerra contro i briganti occupò alcuni anni e fece un numero notevole di vittime. Gli stessi Borboni ne avevano fatto esperienza di recente con la lotta contro la banda dei Vardarelli nel 1817 e con la successiva continua repressione di un brigantaggio inestirpabile sino alla fine del Regno, sicché non bisognò suscitarlo dal nulla quando dopo il 1861 lo si volle utilizzare per la causa borbonica(Sul brigantaggio preunitario cfr. G. Galasso, Unificazione italiana e tradizione meridionale nel brigantaggio del Sud, negli Atti del citato Convegno sul brigantaggio, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», cit. alla nota precedente, pp. 115. Un lavoro storico su questo argomento nella storia del Regno di Napoli, come di altri Stati italiani, è un non recente desideratur della bibliografia sul brigantaggio in Italia.)
La strumentalizzazione e l’uso politico del brigantaggio nei primi anni dell’unità furono, comunque, un insuccesso clamoroso delle forze politiche che lo tentarono (il re Francesco da Roma, le classi reazionarie e nostalgiche del precedente assetto politico, varii e importanti ambienti ecclesiastici). La speranza sempre nutrita di un nuovo 1799 e di una nuova Santa Fede rimase sempre lontanissima dal verificarsi, e ciò significa pure qualcosa. La guerra italo-austriaca del 1866 rappresentò il momento della verità di questa vicenda essendo quello il tempo in cui un colpo mortale al neo nato Stato italiano sarebbe stato quanto mai facile e suscettibile di successo. Così non fu, e proprio da quell’anno cominciò il netto declino del fenomeno, simboleggiato dalla consegna, l’anno dopo, del brigante Crocco alle autorità italiane da parte di quelle pontificie.
Le distruzioni materiali che ne conseguirono furono notevoli, e certo, semmai, superiori da parte dei briganti, non inferiori a quelle delle forze repressive. Un tema del tutto particolare e importante è poi l’effetto del brigantaggio sulla vita economica del Mezzogiorno. A Stefano Jacini, nella sua fondamentale Inchiesta agraria, appariva indubbio che, “mentre infieriva il brigantaggio nelle provincie meridionali, e vi mancava quindi ogni sicurezza di persone e di cose”, non sarebbe stato ragionevole attendersi “che quella parte d’Italia si dedicasse al progresso agrario”, laddove “da questo malanno temporaneo l’Italia settentrionale rimase immune”(Cito da S. Jacini, L’Inchiesta agraria, introd. di F. Colletti, Cenni biografici del nipote S. Jacini, Piacenza, Federazione Nazionale dei Consorzi Agrari, 1926, pp. 147148.).
È uno spunto, ma degno di essere raccolto.
Quanto ad altri aspetti dell’economia del tempo, gli studiosi tendono ad assegnare al Mezzogiorno una produttività lievemente superiore in agricoltura e senz’altro minore negli altri settori. Ma anche questo è un tema d’approfondire. È dubbio, infatti, che la pregiatissima produzione di zone quella di Napoli e della Conca d’Oro, nonché il vino e qualche altro importante prodotto meridionale, valessero a bilanciare e superare l’agricoltura padana nella sua già alquanto diffusa trasformazione capitalistica e nelle sue colture pregiate come quelle delle risaie in Piemonte o delle marcite in Lombardia o della seta. E, inoltre, i pregi dell’agricoltura meridionale erano limitati soprattutto ad alcune zone rispetto alla vasta estensione del Regno.
Insomma, per quante limitazioni se ne vogliano postulare, resta che il dualismo italiano aveva radici anche pre-unitarie, che non furono meno determinanti di quelle emerse nella successiva storia unitaria del paese, e anche questo dev’essere messo in conto nel giudicare del mito del Regno delle Due Sicilie(Sulla genesi e gli sviluppi storici del dualismo italiano in tutta l’epoca preunitaria si veda G. Galasso, Un dualismo di lunga durata, relazione conclusiva del Convegno “Alle origini del dualismo italiano. Regno di Sicilia e Italia centrosettentrionale dagli Altavilla agli Angiò (1100 1350)” tenutosi ad Ariano Irpino, per iniziativa del Centro Europeo di Studi Normanni, il 1214 settembre 2011, i cui atti sono in corso di pubblicazione).
Nel quale mito rientra pure la generale convinzione che il paese meridionale fosse, come è ben noto, un felice Orto delle Esperidi, sottosviluppato e infelice solo per le dominazioni straniere e per il malgoverno interno: convinzione che, come pure si sa, solo a qualche decennio dall’unificazione italiana cominciò a essere dissolta, magari esagerando poi nella direzione contraria.
Altro discorso è che la politica del nuovo Stato italiano abbia imboccato fin da subito una strada favorevole al Mezzogiorno nelle sue condizioni del 1860. L’applicazione delle tariffe doganali liberistiche di Torino già nel dicembre 1861, il cambio della moneta, l’imposizione fiscale basata soprattutto sulla proprietà fondiaria, l’uso delle riserve del Tesoro napoletano, la vendita rapida e fortemente attraente dei beni ecclesiastici, e altri elementi ben noti alla letteratura storica e meridionalistica dell’Italia unita ebbero effetti indubbiamente deleteri per il Mezzogiorno. Tutto ciò senza contare le epidemie che, specie al Sud, colpirono l’agricoltura italiana dopo l’unità: la fillossera della vite, il male della gomma per gli agrumi e la pebrina del filugello per la sericoltura. Ma anche qui ci sarebbe da osservare che molti di quei provvedimenti non riguardarono solo il Mezzogiorno; e, in secondo luogo, che l’azione svolta dallo Stato italiano nello stesso Mezzogiorno, dalle ferrovie alle strade, alla scuola, alla pubblica amministrazione e a pressoché tutti i campi della vita civile fu un’azione di grande impegno. E, certo, si deve anche a questa azione se, nel grandioso progresso realizzato da tutto il paese dal 1861 in poi, il progresso del Mezzogiorno è stato inferiore a quello del Nord, ma in se stesso è stato ugualmente cospicuo e di molto maggiore di quello realizzato nell’equivalente periodo di centocinquant’anni prima dell’unità (sembra che da calcoli recenti resi noti, ma non ancora pubblicati, il reddito pro capite sia aumentato nella media italiana di 13 volte, da 2.000 a 26.000 euro, e per il Sud di 10 volte: risultato insoddisfacente rispetto al Nord, ma in se stesso senz’altro rispettabile)(Per tutta la discussione su questo punto e sugli studi recenti in materia rimandiamo ai volumi V e VI della nostra cit. Storia del Regno di Napoli).
Una conclusione modesta, ma – riteniamo – accettabile di quanto precede può, dunque, essere che, per quanti elementi di fondatezza si possano ravvisare nel mito delle Due Sicilie, di gran lunga maggiori sono i tratti per cui quel mito rimane un mito, lontano dalla realtà storica del suo oggetto. E ciò tanto più in quanto noi abbiamo deliberatamente lasciato al di fuori delle nostre considerazioni gli aspetti politici del problema, per cui la scelta italiana di tanta parte della intellettualità della società meridionale fu una scelta di libertà e di modernità, come è difficile contestare anche per i più accaniti fautori del mito. Non vorremmo, però, concludere col riproporre, pura e semplice, l’antitesi tra l’oscurantismo borbonico e il sole della libertà e unità italiana.
Nessuno ignora che dietro la bianca bandiera gigliata della dinastia borbonica c’erano valori, idee, emozioni, sentimenti, fantasie e tutto quanto c’è sempre dietro una realtà civile cospicua come quella del Regno sotto i Borboni dal 1734 al 1860. Né alcuno ignora che il Regno aveva i suoi elementi positivi di vita civile, che furono spesso notati, a suo tempo, da osservatori e studiosi di altre parti d’Italia, come, per fare un esempio di sicuro rilievo, Carlo Cattaneo( Cfr., ad esempio, C. Cattaneo, Stato delle finanze del regno di Napoli, con alcuni cenni sulla crescente prosperità di quel paese, del 1836, in Id., Scritti economici, a cura di A. Bertolino, 4 voll., Firenze, Le Monnier, 1956, vol. I, pp. 100111, che si conclude col giudizio che il Mezzogiorno, “se rimase addietro di molte altre terre d’Italia nei passati secoli, procede oramai con sì rapida prosperità che presto potrà essere di esempio o di conforto”. Nel 1839 Cattaneo dava notizia del compimento della ferrovia da Napoli a Castellammare: Id., Scritti politici, a cura di M. Boneschi, 4 voll., Firenze, Le Monnier, 1964, vol. I, pp. 170171).
Ma le misure della storia non sono quelle delle comuni bilance, e tanto meno quelle delle bilance da farmacista. Sono tutt’altre misure, e fu a queste misure che si dimostrò comprovatamente impari il regime del Regno dal 1815 in poi (a non voler considerare il 1799). Ne derivò la fine dell’indipendenza plurisecolare del Regno, e questo, sì, fu un aspetto di quel corso storico che suscitò la pietas storica degli stessi uomini che quella fine promossero, e che favorirono l’approdo italiano della storia napoletana seguendo l’attrazione delle idee moderne e della libertà: una pietas e un’attrazione che, a distanza di un secolo e mezzo, certamente, e parimente, si possono, con immutato spirito, confermare.