A Vittorio Veneto abbiamo vinto, ma ce lo siamo dimenticati…
A Vittorio Veneto abbiamo vinto, ma ce lo siamo dimenticati…
Matteo Sacchi – Mer, 24/10/2018
Esattamente cento anni fa, alle tre di notte, la quarta armata italiana comandata dal generale Giardino e disposta nella zona del Grappa iniziò un nutrito fuoco d’artiglieria contro le posizioni austroungariche.
Era l’inizio di quella che sarebbe passata alla storia come battaglia di Vittorio Veneto (24 ottobre- 4 novembre 1918).
In realtà il gigantesco scontro tra le 51 divisioni dell’esercito italiano e le 50 divisioni imperiali fu caratterizzato da una serie frammentata di battaglie. Due le direzioni principali della pressione italiana: la zona del Grappa e i punti di attraversamento sul Piave. Il dispositivo italiano era diventato via via più forte dopo il disastro di Caporetto (24 ottobre – 12 novembre 1917). Anzi, la vittoria austriaca era risultata alla lunga controproducente, allungando le linee di rifornimento dell’esercito multietnico di Carlo I. Così il seguente grande attacco austriaco, noto come battaglia del Solstizio (giugno 1918), si era trasformata in un disastro. La spallata si era infranta sulle difese italiane, al prezzo di 118mila morti, feriti e dispersi. E nel disciplinato, ma non coeso, esercito multinazionale di Vienna avevano iniziato a serpeggiare, sempre con più forza, le tensioni tra le varie nazionalità. Mandare a casa qualcuno in licenza comportava spesso il rischio di non vederlo mai più tornare.
La pressione italiana da prima si concentrò nella zona del Grappa anche per la piena del Piave. La resistenza austriaca nella zona fu accanita. Gli italiani avevano come obiettivo il monte Pertica e il Prassolan, raggiunti e perduti diverse volte: solo nella giornata del 24 ottobre morirono circa 3mila soldati. Ad ogni azione italiana corrispondeva una decisa contro azione austriaca, anche se alcuni reparti ungheresi si erano rifiutati di entrare in linea. All’alba del 27 ottobre gli austriaci rioccuparono il monte Pertica, ma a causa della nebbia fittissima furono investiti dal tiro fratricida della propria artiglieria e poi da quella italiana, tanto da essere costretti al ritiro. Poi il 28 mattina i primi ponti gettati sul Piave permisero alle truppe della 3a armata di superarlo e di entrare in battaglia, supportata anche da consistenti rinforzi inglesi e francesi. Fu uno scontro aspro con l’artiglieria austriaca attivissima, e precisa, nel distruggere le passerelle e nel bersagliare le teste di ponte italiane. Ma nonostante questo, in realtà, le truppe austriache erano allo stremo: lentamente ma inesorabilmente si allargava la breccia in pianura, mentre l’assalto selvaggio al Grappa impediva di far confluire rinforzi. Il 29 ottobre il generale Boroeviç telegrafò al Comando Supremo che, dopo 5 giorni di battaglia e senza che lo sforzo italiano accennasse a diminuire, la capacità di resistenza delle sue truppe era seriamente compromessa. Interi reparti avevano ormai cominciato a sbandare e disperdersi. Il 30 ottobre le armate del Piave erano alle porte di Vittorio Veneto, mentre gli austriaci in ritirata opponevano ormai resistenza sporadica, a tratti feroce, ma sempre disorganizzata. Il 31 iniziava il ripiegamento anche delle truppe imperiali sul Grappa e la battaglia si trasformava in un gigantesco inseguimento. Non esisteva più un esercito austroungarico: esisteva una massa di austriaci, sloveni, croati, ungheresi, cechi, slovacchi… che dava l’assalto a qualunque mezzo di trasporto per tornare a casa. Un disastro stimabile sino a 90mila morti e 426mila prigionieri (le fonti storiche presentano cifre altalenanti).
Era chiaramente la fine di un Impero. E alla fine anche la dimostrazione della combattività degli Italiani, della loro capacità di mobilitazione dopo la mazzata di Caporetto.
Eppure la battaglia di Vittorio Veneto nella nostra storiografia spesso finisce a margine. In parte è una reazione al trionfalismo con cui è stata raccontata durante il fascismo. Per altri versi è un tipico comportamento italiano ingigantire le sconfitte e trascurare il resto. Dal canto loro gli alleati francesi e inglesi, dotati di una storiografia molto forte e rispettata, hanno spessissimo evidenziato il loro ruolo, rilevante, trasformandolo in un apporto fondamentale (che non fu).
Insomma, vittoria mutilata, nei fatti, dalla conferenza di Parigi e anche nella memoria collettiva del Paese. E nella memoria del nemico? Un volume appena uscito consente di farsi un’idea chiara in materia: I vinti di Vittorio Veneto (il Mulino, pagg. 386, euro 26), a cura di Mario Isnenghi e Paolo Pozzato. È una sorta di antologia che raccoglie scritti e resoconti di alti ufficiali dislocati sul fronte italiano, di semplici ufficiali di prigionieri di guerra. La narrazione è carica di sgomento e di sensazioni contrastanti. Tutti o quasi tutti cercano di trasmettere al lettore la sensazione di essere «invitti». La sconfitta è sempre frutto del tradimento di qualcun altro. Quasi che ad attraversare sotto la pioggia di piombo i ponti sul Piave fossero stati i socialisti che protestavano a Vienna… Alcuni raccontano addirittura di aver frainteso, mentre erano al fronte, l’armistizio chiesto da Vienna come una cosa «concessa» agli italiani. Ma che questo se lo siano a lungo raccontato gli austriaci, distrutti dall’aver visto franare il loro sogno mitteleuropeo, è comprensibile. L’oblio italiano, che non è la giusta risposta al trionfalismo nazionalista del tempo che fu, resta incomprensibile.